di Alessandro Mastroluca
Il futuro e il moderno. Quel che era e quel che sarebbe stato nei trent’anni a venire. In un sabato speciale, un sabato americano, in un 1984 di orwelliana simbologia, Martina Navratilova e Chris Evert suonano il Little Town Blues del presente e del futuro nello stadio che incorona il jazz come parte dell’identità yankee.
È il punto che chiude il primo game del secondo set della finale degli Us Open. Chrissie ha alzato due lob difensivi e rimandato indietro Martina, che risponde due volte col rovescio slice diagonale, basso e velenoso, ai dritti incrociati e poi attacca. La volée di dritto è da manuale, angolata e profonda, ma Chrissie ci arriva, si abbassa e disegna un passante di rovescio incrociato strettissimo, irraggiungibile. Merito di quella presa bimane che le ha insegnato papà Jimmy quando era troppo piccola e fragile per tenere la racchetta con una mano sola. “Speravo che poi avrebbe cambiato” ha detto. E infatti ha cambiato: non il colpo, però, il tennis.
Il pubblico esplode, l’atmosfera è più da Coppa Davis. A New York non c’è il distacco un po’ snob di Wimbledon, c’è l’empatia appassionata, scorretta e disordinata dei parvenu che spandono ali di pollo, hot dog e birra. Tifosi che parteggiano senza guardare alle bandiere, che amano McEnroe, anche perché è uno dei loro, un newyorchese ribelle venuto dall’Irlanda, e odiano Jimmy Connors. Tifosi che hanno adottato Chris Evert dal 1971, dalla sua prima volta a Forest Hills. A 16 anni diventa “Chris America”, la “Principessa di Ghiaccio” che si trova sotto 64 65 40-0 contro Mary-Ann Eisel ma cancella sei match point, domina 5-1 il tiebreak e 6-1 il terzo set. E da allora raggiungerà 17 semifinali in 19 presenze e vincerà 101 partite, più di chiunque altro, uomo o donna che sia. Dopo l’entusiasmo iniziale, però, per quattro anni il pubblico si raffredda. “Ero come un robot: tira la corda e gioca a tennis. Ero la regina di ghiaccio e volevano vedermi piangere, volevano che mostrassi una qualche reazione. E invece tenevo tutto dentro”. È il risultato del principale insegnamento del padre. “Non lasciare che gli avversari capiscano quel che stai pensando” le diceva, “altrimenti ne approfitteranno a loro vantaggio”. Poi è arrivata Martina, e il tifo per Chris America è tornato più forte di prima.
“Gli americani tifano sempre lo sfavorito” ha raccontato Navratilova, “e anche io. È stata dura per me, perché l’anno prima, quando ho battuto Chris in finale, i tifosi erano 50-50, forse addirittura erano più dalla mia parte perché l’Us Open era l’unico slam che non avevo ancora vinto. E poi un anno dopo erano tutti per Chris, e li capisco anche. Ma sembrava che volessero veder perdere me più ancora che vedere lei vincere”.
Non è la prima volta che Martina si sente così. A Forest Hlls ha annunciato l’intenzione di chiedere asilo politico, nel 1975. Un anno dopo è tornata ma ha perso dalla sconosciuta Janet Newberry: “Era come se tutto il mondo ce l’avesse con me” ha spiegato anni dopo al Washington Post. Nel 1978 ha vinto il suo primo Slam, ed è diventata numero 1 del mondo, a Wimbledon, proprio contro Chris Evert. “Allora non ero più una cecoslovacca, ma non ero ancora americana. Non potevo tornare a casa, perché non avevo più una casa, una nazione” ha ricordato al Telegraph. “In quegli anni volevo disperatamente essere amata”.
Chrissie sa anche come ci si sente a giocare senza avere praticamente nemmeno un tifoso dalla propria parte. Nel ’77 si era trovata in finale ai Championships contro Virginia Wade, simbolo dimenticato della Gran Bretagna che vince in casa, premiata dalla Regina nell’anno del Giubileo, molto prima di uno scozzese che a quel numero, 77, darà altro senso con ben altra rilevanza e ben diverse reazioni.
Sono amiche, Chris e Martina. Hanno giocato il doppio insieme a Wimbledon nel ’75, il torneo che ha convinto Navratilova a rompere ogni legame con la Cecoslovacchia per sperimentare, come scrive Orwell nel suo 1984, “un tempo in cui il pensiero è libero (e) la storia (non) era un palinsesto che poteva essere raschiato e riscritto tutte le volte che si voleva”. Molte volte, prima di scontrarsi in finale, si sono allenate insieme, hanno pranzato insieme. “Martina mi diceva: Chrissie, vuoi che continuo a servire? Oppure: Mi serviresti qualche altra palla sul rovescio?”. La loro rivalità, la più straordinaria e irripetibile nella storia del tennis, si sviluppa in tre tempi. Evert, allora diciottenne, vince la prima sfida, a Akron, Ohio, nel 1973 e 21 delle prime 25. Tra Wimbledon ’78 e gli Australian Open 1982, il bilancio è di 14-9 Navratilova, che dominerà la terza fase, 25 vittorie su 32. In dieci di queste partite, però, Evert ha giocato ancora con la racchetta di legno contro Martina già passata alla grafite. Chris America ha vinto 18 slam in carriera, ma ha portato a casa solo 4 finali su 14 contro Martina, due sulla terra del Roland Garros. “Avevo trent’anni, nessuno mi dava una chance” ha detto Evert a proposito della vittoria a Parigi del 1985, della finale epica in cui ha tenuto da 5-5 0-40 nel terzo set e vinto 63 67 75. “Battere Martina quasi alla fine della mia carriera, quando tutti, compresa me stessa, iniziavano a dubitare che potessi riuscirci, mi ha spinto a giocare ancora, e sono andata avanti per altri quattro anni. Non mi sono mai sentita meglio dopo un titolo Slam”. Così è diventata la prima a superare le 1000 vittorie in carriera con un record ai limiti dell’irreale di 157 titoli e 230 finali su 303 tornei disputati: solo in 40 occasioni ha perso prima della semifinale.
Sono due vecchi compagni di viaggio, Chrissie e Martina, che hanno continuato ad essere amiche durante e dopo la carriera. Hanno scelto imbarchi diversi, ma saranno sempre due marinai. Eppure hanno dovuto imparare a odiarsi in campo. Dopo l’umiliante 60 60 subito dall’amica a Amelia Island nel 1981, Navratilova inizia a lavorare con Nancy Lieberman, leggenda del basket femminile che rivoluzionerà il suo regime di allenamento. Grazie a lei, Martina vincerà 254 partite su 260 tra il 1982 e il 1984. “Lei ha qualcosa che tu vuoi” le diceva, “e devi prendertela”. Quel pomeriggio dell’8 settembre 1984, quando si preparano per il 61mo confronto diretto, Evert ha perso le ultime 12 partite contro Martina e ha smesso di giocare in doppio con lei. “Il mio obiettivo era diventare numero 1 in singolare, e poi sentivo che il nostro gioco stava diventando troppo familiare per l’altra”.
Evert inizia la finale in fiducia. “Pensavo di avere una chance” ha ricordato in una lunga intervista doppia con Martina al New York Times. “Stavo giocando al meglio, mi sentivo convinta. Il pubblico era dalla mia anche perché ero sfavorita, dopo che avevo perso da Martina 12 partite di fila”. E l’inizio in effetti è in linea con la convinzione: 64 Chrissie. “Nel secondo Martina è andata avanti di un break, poi ho avuto una chance per il controbreak. Arrivai 15-40 sul suo servizio, ma sul primo punto lei ha tirato un vincente, e al secondo ho sbagliato un dritto io”. Navratilova vince il secondo set 64.
Nel terzo, Evert si incarta in qualche doppio fallo di troppo. Il servizio non è certo il suo punto di forza. “Non era potente, è vero” ha commentato Navratilova, “non faceva molti ace, ma in risposta dovevi comunque rimanere attenta. Perché lo teneva sempre passo, la palla non rimbalzava tanto perciò non potevi attaccare, nemmeno sulla seconda. E poi usava benissimo lo slice, per cui era imprevedibile”. In quella finale, Evert rischia un po’ di più con la prima. “Sapevo che dovevo mantenere un’alta percentuale di prime contro di lei. Ma appena dovevo servire la seconda, sapevo che se le avessi cercato il rovescio, lei avrebbe giocato un colpo tagliato per scendere a rete, e lo faceva sempre alla grande”. Il terzo set diventa una questione tanto mentale quanto strategica. “Ricordo che pensavo: non farla scappare, non farla scappare” ricorda Evert. “Sul 3 pari, 4 pari, continuavo a insistere col mio gioco, ed era un tennis conservativo. Per battere Martina dovevo crearmi delle occasioni, dovevo pensare e giocare fuori dagli schemi. Lì sono andata sul sicuro, mi sono affidata al mio gioco. Martina ha giocato il suo tennis, e allora il suo era migliore del mio”. Martina vince 46 64 64: è il tredicesimo successo di fila contro l’amica. Il pubblico però la prende malissimo. “Quando persi nel 1981 da Tracy Austin” racconta Navratilova, “piansi dopo la partita perché sentivo che i tifosi mi avevano accettata. Tre anni dopo, piansi perché invece mi sentivo rifiutata. Mi ricordo che abbracciai il mio allenatore, Mike Estep, e gli chiesi: ‘Perché sono così tanto contro di me?’. Ero sempre la stessa persona, e per me essere accettata dal pubblico era importantissimo. Non mi ero mai sentita così triste dopo aver vinto uno Slam”.
Il pubblico ha amato Evert, che in quell’edizione ha giocato il torneo di doppio con Billie Jean King, all’ultimo torneo in carriera, anche perché è una tipica, normale ragazza americana, che racconta barzellette spinte, che ha cambiato parecchi partner, che ha lasciato Jimmy Connors dopo l’accoppiata dei piccioncini a Wimbledon nel ’74 perché, parola di Jimbo, ha deciso di abortire il loro figlio per non sacrificare la carriera. Una donna senza scheletri nell’armadio, che un po’ litiga con la famiglia per il divorzio da John Lloyd, “un marito perfetto” ha ammesso: ancora una volta, però, Chrissie sceglie di mettere il tennis davanti a tutto. Poi Martina Navratilova la invita a festeggiare il Capodanno 1987 insieme nella sua casa di Aspen, in Colorado. Tra gli invitati c’è anche Chris Mill, discesista proprio di Aspen: diventerà il suo secondo marito, da cui Evert divorzierà dopo 18 anni, nel 2006, prima di unirsi a Greg Norman in un matrimonio durato solo un anno.
C’è, in questa successione di scelte e di partner, una costante di egoismo, ineliminabile per chiunque si possa fregiare del titolo di campione in uno sport come il tennis. “Da piccola ero insicura, introversa” ha raccontato Evert, “sul campo potevo esprimermi. Era un modo per avere reazioni dalle persone, soprattutto da mio padre. Volevo la sua attenzione, e quando riuscivo a ottenerla grazie al tennis mi sentivo bene. Non so se sia egocentrismo o insicurezza, ma mi sentivo fiera di me”. Per trasformare una ragazza introversa in una campionessa servono, spiega, servono sentimenti negativi. “Billie Jean King diceva che odiava perdere più di quanto odiasse vincere. È esattamente così. Penso che per diventare un campione devi odiare perdere. E devi essere arrogante per mantenere un alto livello di fiducia. Lo senti che sei migliore degli altri perché in tante occasioni ti trovi sotto 5-3 nel terzo eppure sai che ce la farai lo stesso a vincere. È vera arroganza. E poi c’è l’intensità, che nasce dal bisogno di dimostrare qualcosa. Io ero pienamente consapevole delle mie qualità di giocatrice, le riconoscevo, le giustificavo. Quando giocavo, chi mi era intorno doveva capire tutto questo, che ero incredibilmente coinvolta, che tutto girava intorno a me. Pensavo solo a me perché se smettevo anche solo per un minuto sarebbe arrivato qualcun altro a prendere il mio posto. Però negli ultimi anni di carriera ho fatto sempre più fatica ad accettare questi lati del mio carattere”.
Adesso, a 60 appena compiuti, Evert non ha più bisogno di una felicità misurata sul numero di titoli o sulla posizione in classifica. “Quella parte della mia vita è finita” ha detto. “Ora la mia vita è più sfumata, più avventurosa, più misteriosa. Ogni giorno porta un pezzetto di felicità che non mi ero mai concessa di provare quando giocavo”.
Leggi anche:
- None Found