di Marco Mazzoni
Monte Carlo Country Club, ore 10 circa, lunedì mattina. Non ricordo che anno fosse, forse il 2009. Ma non ha particolare importanza. In quel luogo lo scorrere del tempo pare un dettaglio. Come se quel fazzoletto di terra aspra incastonato tra rocce e mare fosse sospeso, oltre l’umana concezione. E’ una di quelle mattine primaverili che i ricchi british che svernano da queste parti definiscono “glorious”. Sole pieno, non una nuvola all’orizzonte. L’aria è tersa, sferzata dal dolce vento proveniente dal mare, e ricca dei profumi di agrumi e fiori della Costa Azzurra. Lo spettacolo dalla terrazza più alta del club (dove lussureggiano i campi di allenamento) è impressionante: una cascata di campi in terra che formano una scacchiera colorata e festante, che scende giù quasi fino al mare, oggi piattissimo e blu intenso, solcato da un paio di panfili in lontananza, diretti chissà dove.
Mentre un’accozzaglia festosa di appassionati (moltissimi italiani) entra disordinatamente nel circolo per il primo turno del Master del Principato, cercando posto sul centrale o sul campo dei Principi, nella mia postazione privilegiata c’è quasi silenzio, rotto solo dal sibilo delle palle da tennis e dal loro sordo impatto sulle corde. Pochissimi spettatori, saremo una decina, ad assistere ai primi allenamenti. Montanes cerca di contenere i drittoni mancini di Verdasco, Rochus tocca in back contro Benneteau; altri sono più lontani, li intravedo scambiare di ritmo a buona intensità. E’ il primo torneo importante sul rosso in stagione, tutti sono alla ricerca dell’agognata “confidence” con la superficie. Roland Garros è lontano, è il primo giorno del torneo. L’atmosfera è rilassata. Verdasco tira l’ultima pallata (vincente), stringe la mano al connazionale ed esce dal campo, dispensando sorrisi ai pochi bambini che gli vanno incontro. Non conosco l’orario degli allenamenti, ma vedendo arrivare un manipolo di persone, giornalisti e pure fotografi, intuisco che qualcosa si sta muovendo, e forse che sul quel campo arriverà un big. Appare Simone Bolelli, entra in campo e tira fuori dal fodero la sua Prestige, assaggiando col polso la tensione delle corde e facendo qualche saltello e corsetta, tanto sciogliersi. Mentre lo guardo swingare a vuoto una serie di colpi, dalle scalette laterali si materializza Roger Federer, che svelto arriva sul campo stringendo la mano a Simone. La faccenda si fa ancor più interessante… Avevo sentito dire che Roger ama allenarsi con Bolelli prima di un torneo. Gli piace la palla del nostro, secca, pulita, pesante. Ideale a trovare ritmo e le giuste sensazioni. Due parole e via, iniziano i primi palleggi.
Vorrei potervi raccontare qualche scambio, qualche nitido ricordo di quella mezz’ora scarsa di allenamento, ma non ci riesco. Sono totalmente rapito dalla fortunata situazione, dall’essermi trovato per una volta al posto giusto al momento giusto. I match iniziano, e nonostante ci sia Roger non arriva molta gente quassù. E’ uno spettacolo per pochi, quindi ancor più prezioso. Oggi, a distanza di qualche anno, non ricordo gli scambi, ma le sensazioni di quella mattinata mi sono rimaste indelebili, come la bellezza di quel semplice allenamento. Ricordo bene come la palla corresse via retta, velocissima, in tutte le direttrici. Simone pesta duro col dirtto, la diagonale cross sembra illuminata da una scia luminosa di palle che sfiorano il nastro e scappano via, depositandosi a 30 cm dalla riga di fondo, con un ritmo e precisione impossibile da replicare per due comuni mortali. All’improvviso variano diagonale e iniziano a scambiare una serie di back, e poi uno scappa a rete, passante e volee. Ricordo pure qualche applauso, perché a braccio e mente libera le finezze (da parte di entrambi) fioccano. Nella mia testa risuona il timbro pieno degli impatti, la velocità dei gesti e la pulizia della meccanica esecutiva. Il braccio magico di Roger fende l’aria così veloce da lasciarti senza fiato, e quello potente di Simone aggredisce la palla molto sicuro. Pochissimi errori, tanti colpi stilisticamente impeccabili.
L’allenamento termina. Due chiacchiere seduti a fianco sulla panchina, sorseggiando qualcosa con un clima totalmente disteso, e poi via uscendo dall’altro lato, quello consentito solo agli atleti. All’arrivo di due giocatori mediocri tutti se ne vanno, ma io mi fermo ancora un po’ qua, non riesco mentalmente a staccarmi dallo spettacolo a cui ho assistito, forse nell’inutile e disperato tentativo di respirare tutta quell’aria pervasa da tanta magia e classe.
Perché questo ricordo? Non solo nostalgia. Poco fa a Ginevra Roger e Simone hanno giocato il loro terzo match ufficiale nella semifinale 2014 di Coppa Davis. Una partita bella, condita da qualche errore ma soprattutto da un tennis di grande qualità tecnica. Due giocatori classici, in buona forma fisica e mentale, che si sono affrontati nella perfezione delle condizioni indoor, e di fronte ad un palcoscenico straordinario. Pure in un match di grande importanza, per entrambi. L’occasione storica per Federer di arrivare finalmente a giocarsi una finale di Davis, l’unica grande competizione che manca al suo sterminato palmares, e che davvero sarebbe un plus importante di una carriera irripetibile; ma grande occasione anche per Bolelli, quella di confermare di esser tornato “quello vero”, e premio ad una stagione di grande livello, che l’ha visto vincere nei Challenger e giocare negli Slam alla pari con i grandi.
Vince Roger, chiedere di più a Simone sarebbe stato ingiusto. Ma Bolelli ha fatto un’ottima partita, la prestazione è stata di alto profilo, sul piano della qualità e della intensità. Contro uno con quella motivazione, con quella classe e sostenuto da un rendimento al servizio eccellente è difficile anche solo far partita. Bolelli c’è riuscito, ed ha pure avuto qualche occasione per complicare il match al “Re”. L’Italia ha perso il primo punto, ma Bolelli ha confermato di poterci stare a questo livello. E per chi ama il tennis classico, quello fatto da gesti non strappati, dall’eleganza insuperabile del rovescio ad una mano, e dalla qualità di entrambi nello sfruttare tutto il campo di gioco attaccando e difendendosi non di pura violenza o rotazione, è stato uno spettacolo di grande qualità. Uno di quelli a cui purtroppo non assistiamo più frequentemente.
Non sono a Ginevra, ahimé. Ma guardando la partita di oggi ho riscoperto dentro di me alcune delle stupende sensazioni di quella mattina nel Principato. Il tutto senza quel contesto insuperabile, ma con la gioia di poter guardare, anche se attraverso la tv, un tennis che mi regala qualcosa. Proprio come quel lunedì mattina, che mai dimenticherò.
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