di Luca Brancher
Le avevano detto di non preoccuparsi “Danielle, tu a New York ci andrai, sì, ma per giocare il torneo Open”. Correva l’estate del 2011, Daniele Rose Collins, figlia di Walter e Cathy, di St. Petersburg, Florida, all’epoca non ancora diciottenne – lo sarebbe diventato il 13 dicembre – aveva ormai perso le speranze: quella sarebbe stata l’ultima stagione in cui avrebbe potuto concorrere nell’edizione juniores, ma, la sola vittoria nel torneo della vicina Plantation, non gli aveva garantito nemmeno un posto nel tabellone di qualificazione.
All’Accademia di Bolletieri, in cui era giunta l’anno precedente, dall’Isla del Sol Country Club, dopo aver conseguito importanti trofei a livello statale, non la vedevano come una situazione troppo negativa, la ragazza aveva scarsa dimestichezza con le competizioni internazionali, poteva aspettare e magari disputare qualche torneo della scena ITF, mentre concludeva il suo ultimo anno alla North-East High School. “Ok, non importa” aveva sospirato, consapevole che, forse, allo U.S. Open si sarebbe potuta recare ugualmente, come aveva fatto negli anni precedenti, ad osservare, da tifosa, la competizione, sperando, in un futuro, di fare ritorno a Flushing Meadows nelle vesti che più avrebbe gradito: no, non quelle di giocatrice, ma di giornalista sportiva. L’aria del vicino Poynter Institute aveva instillato in lei questa velleità, nonostante il clima di quella che viene chiamata “The Sunshine City” – a causa dei 360 giorni all’anno di sole – suggerisse ben altro.
Non sappiamo se Danielle sia comunque andata a New York, e soprattutto non in quali giornate, ma sarebbe suggestivo se avesse assistito ad uno dei maggiori upset, vale a dire l’eliminazione all’esordio della detentrice del Roland Garros, Li Na, per mano di una giovane tennista rumena. Perché, per il corso di un set, in una situazione analoga, si sarebbe ritrovata la stessa Collins tre anni più tardi, proprio contro quella giocatrice dell’est-Europa, che poi altri non era se non l’attuale seconda tennista al mondo, finalista a Parigi per altro, Simona Halep.
Temporalmente sono passati 36 mesi, concettualmente sembrano passati 36 anni. Danielle Rose Collins, in quell’autunno del 2011, aveva conseguito il suo primo titolo pro’, nell’ITF da 10.000 di Williamsburg, Virginia, uno Stato che sarebbe entrato nel suo DNA, dal momento che, congedatasi dall’istituto superiore, la 20enne statunitense decise di volare proprio nell’Old Dominion, per sfruttare le potenzialità dei tanti atenei dotati di un personale molto valido nell’insegnamento del tennis. La scelta cadde sull’Università della Virginia di Charlottesville, dove, da subito, venne affiancata dal capo allenatore Mark Guilbeau e dall’assistente Troy Porco. “Sono molto migliorata grazie a loro, mi hanno fatto arrivare dove non sarei mai potuta giungere.”
Come già è stato scritto, il dilemma tra dilettantismo e professionismo nel mondo del tennis americano è molto sentito: meglio buttarsi a capofitto tra gli squali non appena se ne ha l’occasione – perché ritardare ciò che si può fare subito? – oppure si può attendere, visti i grandi vantaggi che si detengono nel frequentare prestigiosi atenei con un biglietto da visita di questo tipo? La Collins, che ambisce, come detto, a diventare giornalista, ha automaticamente intrapreso la strada degli studi, e tra un servizio vincente ed una lezione del corso di laurea in media studies ha respirato appieno l’aria collegiale. Non ha più frequentato il circuito professionistico, nemmeno quando le pause glielo avrebbero permesso – lo si può fare, è sufficiente evitare di concorrere al montepremi per mantenere lo status di dilettante, condizione necessaria per giocare a livello NCAA – fino a quando non è stata, per così dire, “obbligata”. Il 26 maggio del 2014 si è infatti laureata campionessa americana nel singolare femminile ad Athens, Georgia, battendo l’atleta californiana Lynn Chi, al termine di una settimana che non la vedeva di certo favorita: la stagione le aveva riservato diversi fastidi fisici, e giocare 6 partite in 6 giorni appariva come un ostacolo quasi insormontabile. Eppure il titolo si era materializzato, e con esso l’automatica wild card per il tabellone principale del successivo Open degli Stati Uniti. Sì, Danielle finalmente poteva andare a New York. Non da appassionata, né da giornalista, lo poteva fare da giocatrice.
Purtroppo, però, l’estate che avrebbe preceduto un appuntamento così importante, a cui Danielle si sarebbe avvicinata giocando quanti più incontri i vari inviti che le sarebbe piovuti addosso avrebbe potuto, è stato rovinato da un infortunio al polso destro che ha richiesto un intervento chirurgico, seppur minimo. Rientrata giusto in tempo per testare le sue condizioni nelle qualificazioni del torneo che funge da preludio agli U.S. Open, New Haven, la Collins era pronta per inaugurare l’Arthur Ashe Stadium per il 2014: il primo set vinto, la grande prova al servizio e la costante presenza fisica sul campo hanno destato un’impressione sicuramente positiva, anche se la giocatrice rumena non è parsa particolarmente in palla, fattore che ha comunque aiutato una statunitense senza paura. C’è chi sostiene che abbia esagerato negli sfoghi successivi ad alcuni punti vinti, ma taluni atteggiamenti andrebbero sempre calati nello scenario in cui vengono tenuti, e ci sono occasioni che, se non vissute, non andrebbero sviscerate in maniera capillare.
La pur buona prova della ragazza classe 1993 è stata oscurata dall’ascesa di una tennista sei anni più giovane, CiCi Bellis, che ha rubato riflettori e microfoni nella più ovvia logica dello show-business, per quanto Danielle Rose abbia mostrato, nel corso della conferenza stampa, di destreggiarsi molto bene davanti ai microfoni, lasciando intendere che un futuro dietro alle telecamere non sarebbe un’idea così peregrina. Anche se le priorità sono altre, e ci fanno capire quale sia la reale dimensione in cui dobbiamo incasellare Collins: conclusa la partita con Halep, una delle prime cose che ha dovuto controllare sono stati i voli per Charlottesville, visto che il giorno successivo sarebbe dovuta essere in classe per cominciare a seguire le lezioni del terzo anno.
Curioso, che in un mondo sportivo che tende ad esasperare sempre più ogni concetto legato al professionismo – come è giusto e corretto che sia, d’altronde – ci sia la possibilità per una ragazza, che il giorno dopo sarebbe dovuta essere stata a scuola, di togliere un set alla seconda giocatrice al mondo. Al contempo, però, sappiamo che il suo nome possiamo per un po’ porlo nel dimenticatoio, perché a quel campionato Ncaa, tra le 64 giocatrici, c’era anche una certa Beatrice Capra: e sono ormai passati 4 anni.
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