di Piero Emmolo
Difficilmente un appassionato potrà dimenticare questo pomeriggio di sport americano. Il tennis, si sa, è disciplina irrazionale. Lo è per gli addetti ai lavori, figurarsi per chi non è tale come noi semplici osservatori. Del resto le cose più belle, recita un abusato adagio, sono proprio quelle inaspettate. Nessuno, al secolo, avrebbe mai pensato che dall’Olimpo del tennis gli Dei dell’atavica Sphairistikè avessero potuto irradiare i cieli plumbei della Big Apple con sagitte di così grandiosa stupor mundi tennistica.
La finale di Flushing Meadows sembrava avere un destino già scritto. Per i suoi predestinati Demiurghi doveva quasi essere una stucchevole passerella sul red carpet dell’Arthur Ashe Stadium. Perchè, vogliamoci bene, se qualcuno avesse solo immaginato quest’esito delle semifinali, allora ci sentiremmo in dovere di augurargli una scontata carriera da bookmaker/better di livello. Sapevamo che Djokovic avrebbe dovuto impegnarsi fino in fondo per battere il nipponico, ma sul piatto della bilancia la maggiore esperienza e il rinomato feeling di continuità dei piazzamenti negli Slam, facevano pendere l’ago ampiamente dalla parte del serbo. Avevamo visto grandi miglioramenti già a Church Road in Cilic, sul cui servizio la cura Ivanisevic sta sortendo estemporanei effetti ben oltre le più rosee aspettative. La medicina di Goran è fatta di trasfusioni di fiducia e infusioni di grinta. Ma anche di atletismo e palestra. Tanta palestra.
E non è necessario avere l’occhio del body builder per notare un accumulo di almeno dieci kg di massa muscolare nel croato, ulteriormente migliorato in battuta e decisamente più reattivo negli spostamenti laterali, storico tallone d’Achille dello slavo. Ma mai avremmo pensato ad una vittoria di queste (s)proporzioni, con questo avversario e in questo contesto agonistico. Il glabro coach croato si era apprestato con tranquillità e serenità al match contro Roger, tanto da ritwittare compiaciuto la notizia del gol di Djokovic del Livorno, nell’anticipo della serie B italiana. Proprio pochi minuti dopo il termine della prima semifinale.
Ma i protagonisti del ” Sabato del tennis”, condividono un singolare profilo. Ulteriore, rispetto alla finale raggiunta. D’aver avuto di recente, e in parte anche nel passato per Cilic, buone possibilità di assestare la zampata di livello. Quel risultato di prestigio che li avrebbe collocati fuori da quell’affollatissimo dantesco limbo di eterni comprimari. Già Cilic aveva pregustato a Wimbledon la felicità di uno scalpo d’eccellenza. Aveva assaporato antipasti, primi e secondi. E il ristorante era di gran classe: tanto nella location quanto nel commensale. Ma proprio al “dessert” s’era “sciolto” sul più bello. Stesso destino per Nishikori a Madrid, sebbene non per repentini deficit emotivi, ma fisici. Aveva dominato in lungo e in largo un impotente Nadal per un set e mezzo, sciorinando schemi da far ammattire il maiorchino e rovesci bimani da spellarsi le mani dagli applausi. Poi la schiena l’ha tradito. E con essa sono andate via pure le residue speranze di far da carneade della tournee iberica, nella quale già pochi giorni prima a Barcellona aveva fatto suo il terzo ATP 500 in carriera. Questa volta no.
Iuris loquendi, la Legge del più forte non ha vinto; quella dei Grandi Numeri sì. Ma forse è doveroso esser più precisi. E dire che in verità ieri abbia vinto il Tennis. Nella sua incommensurabile variegatezza e imprevedibilità. Due connotati che nei Major erano pericolosamente divenuti desueti. Una ridondante desuetudine, nobilitata però dalla consapevolezza degli attenti appassionati che un trio di dominatori come FE-NA-DJ, difficilmente entusiasmerà e calcherà di nuovo i campi di gioco contemporaneamente nella storia del tennis. Era il 2005, quando long arms, al secolo Crazy Horse, Safin, impedì all’aitante Rusty di sollevare il trofeo downunder davanti al pubblico di casa. Nove anni in cui almeno uno dei 4 Fab Four aveva presenziato l’atto conclusivo del torneo. Quasi a voler difendere strenuamente quel giornalistico epiteto, meritato retaggio di numerosi trionfi sul campo, che eveva idealmente confinato un intero esercito di onesti professionisti della rachetta al ruolo di indefessi comprimari. Nishikori e Cilic sono divenuti per meriti de facto i nuovi paladini di questo nuovo elitario trend nei Major, che non può assolutamente non reclutare tra le sue sparute fila Stanislas Wawrinka. Già vincitore in Australia e autore, con il buon Kei, della partita più bella del torneo ( mi si consenta un parere personale, dell’anno), con un tie break del terzo set degno d’essere immortalato a Newport e venire mandato in onda senza soluzione di continuità. Persino ” l’eterno piazzato” Berdych esce meno ridimensionato dal match con Cilic, sempre al comando nell’incontro di quarti col ceco, sempre più cronicamente affetto da eterna “secondite” acuta. Ci avviamo al weekend di Davis con certezze poche e perplessità tante. E il bello è che le certezze stanno tutte dalla parte degli elvetici. Anche il più esasperato sciovinista azzurro, in cuor suo, riterrebbe poco plausibile un colpaccio. Ma chi vivrà vedrà, magari sotto la luce della buona stella attuale di Bolelli, che sta meritando una chance anche in singolare. Intanto ci goderemo questo ballo dei debuttanti, entrambi consci che si contenderanno il match della vita e che ( a dir poco ) difficilmente potranno rigiocarsi una chance così ghiotta in condizioni così paritetiche.
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