di Andrea Martina
Da Pierre De Coubertin a Giampiero Boniperti si potrebbero scrivere enciclopedie sulle “massime” che hanno caratterizzato lo sport. Questi due storici personaggi, oltre ad essere immortali per la loro storia, sono ricordati soprattutto per due frasi che paragonate fanno palesemente a pugni: per il francese “nello sport non è importante vincere, ma partecipare”, mentre la bandiera della Juventus era fermamente convinto che “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, frase che addirittura venne stampata sul colletto interno delle ultime divise bianconere.
Nel mezzo ci sono vincitori e perdenti che continuano ad alternarsi, ma tra questi esiste una particolare categoria che sembra essere sempre pronta per prendere un posto nella storia, ma si ferma all’ultimo passo, quello decisivo. Sono i piazzati.
Senza andare in rassegna con i più grandi casi di atleti ottimi e allo stesso tempo perdenti, c’è un caso rigorosamente “Made In Italy” che è lo specchio di quanto verrà raccontato nel resto dell’articolo: il ciclista italiano Claudio Chiappucci.
E’ stato uno dei protagonisti mondiali del ciclismo degli anni ’90 e tutti sapevano che era pronto da un momento all’altro per vincere una grande corse a tappe, soprattutto dopo la sua affermazione nella Milano-Sanremo del 1991. Il problema era che quel momento non arrivava mai. Da quell’anno fino al 1995 riuscì a salire per ben tre volte sul podio del Giro d’Italia e a piazzarsi 4° e 5°, vestendo anche per diverse tappe la maglia rosa tranne che all’arrivo finale. Al Tour de France, poi, dove la competizione era maggiore arrivarono altri tre podi e un timido 6° posto nel 1993. Nelle classiche europee di un giorno la musica non cambiava con podi e piazzamenti, ma sempre dietro a qualcuno che tagliava il traguardo prima di lui. La maledizione del primo posto lo seguì anche dopo il suo ritiro dalle corse: nel 2006 partecipò all’Isola dei Famosi, arrivò a giocarsi la vittoria del reality in finale e perse.
Parlare di questo tipo di perdenti non è mai facile, perché a differenza di molti altri sono comunque capaci di lasciare il segno. A volte è una questione di centimetri (e siamo nel campo dell’atletica leggera o del nuoto) e altre volte sembra quasi che sia troppo bello per essere vero (e qui si potrebbero scrivere tesi di ricerca in psicologia sui mondiali di calcio persi dall’Olanda).
Parlare di eterni piazzati nel tennis, in questo tennis, vuol dire sicuramente spendere qualche parola su Tomas Berdych. A 29 anni non si è ancora aggiudicato un torneo dello Slam anche se in carriera può contare di aver vinto più di 450 incontri che hanno sicuramente contribuito al suo best ranking (numero 5) e all’aver chiuso le ultime 4 stagioni nei primi 8 del mondo, cosa che con buona probabilità accadrà anche in questo 2014.
Eppure le premesse per una carriera importantissima c’erano tutte. Quando si è affacciato alle porte del tennis mondiale era già tramontato il dominio Sampras-Agassi per far spazio a tennisti come lui: grande fisico (1,96 metri di altezza) che permette un servizio potente accompagnato da una pesantezza di palla nei fondamentali difficile da contrastare, soprattutto sulle superfici veloci.
Il suo primo squillo arrivò proprio in Italia nell’ATP di Palermo dove sconfisse in finale Volandri a soli 19 anni. Nella stagione successiva arrivò l’affermazione più importante della sua carriera nel Master di Parigi-Bercy battendo Ivan Ljubicic 6/4 al quinto set: un predestinato.
Ma le cose andarono un po’ diversamente. A differenza di molte altre meteore sportive la sua carriera non andò ad eclissarsi, anzi, il livello e il numero di vittorie aumentò come era lecito aspettarsi. C’era solo un piccolo particolare: non riusciva a vincere i tornei più importanti pur avendo le potenzialità per farlo e un fisico che mai lo ha tradito fino ad oggi, nonostante il tennis moderno viaggi a braccetto con gli infortuni.
Dalla sua prima partecipazione ad uno Slam (US Open 2003) ad oggi ha giocato 45 prove Slam consecutive raggiungendo per almeno una volta la semifinale in ognuno dei quattro tornei.
Agli Australian Open di quest’anno ha perso una grande occasione perdendo la semifinale con Wawrinka e nelle ultime quattro edizioni ha sempre raggiunto i quarti di finale. Il Roland Garros, invece, sembra il torneo in cui fatica di più, ma sulla terra parigina riuscì nel 2010 a raggiungere la semifinale arrendendosi poi da Soderling in cinque set. Il miglior risultato in uno Slam arrivò qualche settimana dopo a Wimbledon dove capitolarono prima Federer e poi Djokovic, ma in finale con Nadal si spense quella luce. Agli US Open riuscì ancora ad eliminare Federer nei quarti (2012), ma non andò mai oltre quell’unica semifinale.
11 volte ha giocato un quarto di finale Slam e per 7 volte è uscito fuori dando l’impressione che mancava sempre quel qualcosa in più che ha portato i vari Del Potro e Wawrinka ad affermarsi almeno una volta in queste prove.
Scendendo un gradino e analizzando le sue prestazioni nei Master 1000 non ci sono particolari novità: per 16 volte ha giocato le semifinali e solo 3 volte è riuscito a raggiungere la finale vincendo, come è appena stato detto, solo a Parigi.
Il suo “eterno piazzamento” non nasce da tutte queste sconfitte, ma dal fatto che riesca con eccezionale continuità ad essere presente nei primi 8 del mondo. Un piccolo accostamento lo si potrebbe fare con Ferrer: anche lo spagnolo fa della continuità di risultati un marchio di fabbrica, ma il divario tecnico che c’è tra i due è sicuramente a favore di Berdych. Un’altra differenza, ad esempio, sta nel rendimento dei tornei minori, appuntamenti in cui tolti i “Fab Four” entrambi reciterebbero la parte naturale dei favoriti. Ferrer è riuscito a vincere in carriera ben 21 tornei raggiungendo in totale 45 finali, mentre il ceco può vantare solo 9 affermazioni e 13 sconfitte in finale, praticamente la metà.
L’unica nota di vanto sono le ultime due vittorie in Coppa Davis giunte con la decisiva collaborazione dell’eccellente Stepanek sia in singolo che in doppio.
In questi giorni sta circolando la notizia, peraltro confermata dallo stesso Berdych, di una possibile collaborazione futura con Ivan Lendl. Potrebbe essere la terapia giusta? Con Murray ha funzionato, ma qui la situazione è assai diversa.
Un dato su cui il futuro allenatore di Berdych dovrà lavorare sta ad esempio negli scontri diretti contro Federer, Djokovic e Nadal: il passivo è di 45-11 con sole 3 affermazioni nei tornei dello Slam (due nello stesso torneo) e un pesante record ancora attivo di 17 sconfitte consecutive contro Rafa. L’ultima volta che lo sconfisse fu nel 2006 al Master di Madrid, un’occasione che molti ricorderanno per via dell’invito fatto al pubblico di stare zitto da parte di Berdych dopo aver trasformato il suo match point.
Anche il suo tennis sembra aver bisogno di qualche novità. Se non è in giornata con il servizio può essere notte fonda e soprattutto i top player hanno preso le misure per contrastare il suo gioco a volte troppo troppo prevedibile. A Marzo aveva dichiarato che l’obiettivo fondamentale della sua carriera era la vittoria di Wimbledon.
Forse Berdych, come molti altri, ha avuto la sfortuna di nascere in un periodo pessimo per cercare di vincere qualche Slam. L’unica certezza è che in 12 anni essere arrivati fino alla quinta posizione e aver raccolto così poco nei tornei che contano fanno di lui un’anomalia destinata agli archivi di serie B.
Potrà Lendl trasformare un eterno piazzato in un cavallo su cui puntare?
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