(Vincenzo Santopadre con la moglie Karolina Boniek e il piccolo Matteo)
di Gianfilippo Maiga
CAMPIONI DA NON DIMENTICARE: VINCENZO SANTOPADRE
(quella volta che rubai un punto a Fede, mio amico per la pelle)
In passato, se si fosse chiesto a Roma di Santopadre, ci si sarebbe probabilmente sentiti rispondere che era un eccellente quanto storico ristorante. Pochi invece avrebbero pensato ad uno sportivo, un tennista, che – notizia non nuova in Italia – era pieno di qualità forse non pienamente espresse.
Oggi la risposta non sarebbe così scontata. Il tennista ha lasciato il suo segno nella storia tennistica italiana e, credo, continuerà a farlo anche ora che ha smesso.
In un’intervista che, realizzando un’involontaria par condicio, fa seguire ad un laziale (Ghedin) un romanista “de fero”, abbiamo parlato a lungo con Vincenzo Santopadre, ex-100 del mondo e oggi allenatore di Flavio Cipolla.
Vincenzo, raccontaci come sei arrivato al tennis e che tipo di tennista eri, a parte il fatto di essere un mancino. Il mio ingresso nel mondo del tennis, soprattutto se si pensa che poi è diventato un mestiere, è stato piuttosto anomalo. Avevo genitori non esperti, (mio padre era stato calciatore), ma appassionati di tennis, e soci di un circolo che, come usava allora, vivevano intensamente. Io li seguivo, da terzo figlio di una famiglia in cui le due sorelle più grandi giocavano, ma piuttosto come frequentatore del circolo che come tennista. Il mio tennis all’inizio era soprattutto guardare gli altri giocare e il mio sparring e maestro era il muro: ho imparato così. Il tennis inoltre è stato a lungo uno sport tra due, (l’altro era il calcio). La mia scelta del tennis come unico sport agonistico è nata solo successivamente. Vale la pena di ricordare che è ancora in atto in quegli anni il passaggio tra le racchette di legno e quelle nei nuovi materiali, come dire la rivoluzione copernicana per quanto riguarda il tennis: si pensi che ho disputato la Coppa Lambertenghi nel 1983 ancora con la racchetta di legno. Chi ha vissuto quell’epoca è nato tennisticamente con un’impostazione, per poi doversi adattare a tutt’altro modo di colpire la palla e di stare in campo. Il lungo apprendistato con una racchetta di legno mi ha probabilmente permesso però di sviluppare una buona sensibilità e colpi che nel tennis “moderno” non si sono usati per molto tempo, salvo poi tornare di moda: un bel back difensivo di rovescio, le smorzate… Non ero però solo un tennista di difesa: a quest’ultima e ad un tennis di tocco ricorrevo solo quando trovavo sulla mia strada un avversario in grado di esprimere un gioco più aggressivo del mio. Per contro ero anche dotato di un bel diritto lungo linea e di un servizio efficace, anche perché mancino. Certamente, come è abbastanza tipico di un giocatore cresciuto sulla terra, nel mio tennis disporre di una buona sagacia tattica, di una certa scaltrezza in campo erano doti fondamentali.
Sei arrivato ad essere 100 del mondo, quindi, a mio parere nel tennis che conta. Non hai avuto però la soddisfazione della “doppia cifra”. Quando guardi ai risultati raggiunti in termini di classifica vedi piuttosto un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Tornassi indietro lo rifaresti o giocheresti a calcio, dov’eri promettente? Per indole guardo la mia vita come un bicchiere pieno per…3/4! Sono una persona positiva. Allo stesso modo ho vissuto la mia esperienza tennistica. Certo, da quando ho lasciato, analizzando le cose in retrospettiva più di qualche dubbio mi viene che, curando meglio alcuni dettagli, avrei potuto raggiungere la “doppia cifra” e starci. La scelta sul tennis è venuta d’altronde tardi: dopo il campionato italiano under 12 del 1983, quando mi è stato proposto di allenarmi 5 volte la settimana al Parioli. A quel punto fra tennis e calcio, l’altra mia grande passione, ho optato per il primo, senza che da parte di mio padre – lo devo dire – vi sia stata alcuna pressione a favore del secondo. Non saprò mai naturalmente che traguardi avrei potuto raggiungere nel calcio. So solo che il calcio non mi avrebbe mai potuto regalare le esperienze umane che ho accumulato grazie ai viaggi internazionali e ai contatti che il tennis mi ha offerto.
Nella storia del tennis italiano sei ricordato soprattutto per due pagine: la vittoria su Magnus Norman a Roma e la vittoria in Davis contro la Finlandia, in un gruppo che comprendeva Mosè Navarra e Federico Luzzi. Dacci il tuo racconto personale su questi due momenti e, se vuoi, un ricordo di Federico Luzzi. La vittoria su Norman, che naturalmente è un ricordo indelebile, va contestualizzata, perché è avvenuta al Foro Italico. Tutti i miei ricordi del Foro Italico sono piacevoli. Se infatti da un lato mi trovavo a dover gestire una pressione inusitata come enfant du pays, non foss’altro per la presenza di una folta claque di amici e sostenitori nella mia città, dall’altro riuscivo a trasformare questa tensione in energia positiva, che mi spingeva a dare il 200%. In particolare quell’anno le mie motivazioni erano forti. Venivo dalla convocazione in Davis per la partita con la Finlandia, e avevo ricevuto una Wild Card molto criticata perché mi avevano preferito ad altri giocatori di più alto blasone e ranking. Volevo dimostrare a tutti che ero all’altezza della Wild Card e questo pensiero mi ha accompagnato lungo tutto il match con Norman. La mia convocazione per la Davis, d’altro canto, era nata in un clima a dir poco burrascoso. Era il primo mandato del Presidente Binaghi e era nato un conflitto che vedeva contrapposti da un lato alcuni giocatori del giro della Nazionale, tra cui per esempio Andrea Gaudenzi e dall’altro La Federazione. I primi rifiutarono la convocazione in Davis e toccò a un gruppo di rincalzi: il sottoscritto, Mosè Navarra, Federico Luzzi e Filippo Volandri. Con il senno di poi e un certo distacco che il tempo porta, osserverei che quella polemica da parte dei giocatori era forse prematura: c’erano in Consiglio Federale anche dei rappresentanti dei giocatori, (tra cui io), e a mio parere si sarebbe dovuto verificare prima se questa rappresentanza fosse effettivamente in grado di portare avanti le istanze dei giocatori, prima di opporre una protesta. Comunque l’incontro con la Finlandia in B, che vincemmo, fu all’origine della creazione di un gruppo unitissimo, i cui componenti, ad eccezione ovviamente del povero Federico, sono ancora oggi legati da profondi vincoli di amicizia. Federico, in particolare, era per me un amico carissimo. Aveva una personalità molto forte, che si sposava bene con la mia. Avevamo molte cose in comune: da una visione simile del gioco, che apprezzavamo nei suoi aspetti più tattici, alla passione per il calcio, che entrambi praticavamo con passione e anche con una certa abilità. Un mese prima della sua morte, ai campionati italiani under 14 (dove io accompagnavo alcuni giovani), avevamo giocato a calcetto. Per tre anni ho coordinato l’attività di un giornale regionale online: il giorno dopo la sua scomparsa mi sono messo a scrivere di getto su di lui e ricordo che, per l’emozione, la penna “andava da sola”. Vorrei però anche ricordare due episodi divertenti che riguardano Fede. Ho rubato un solo punto in vita mia e l’ho fatto con lui, dicendoglielo peraltro subito. Giocavamo la serie A e “complice” di quel piccolo furto era stato in quell’occasione un arbitraggio particolarmente disgraziato. Abbiamo giocato contro anche al Challenger di Milano e per combinazione se avesse vinto quella partita sarebbe entrato fra i top 100. Perse e ricordo con simpatia il siparietto che ne seguì, con Fede che fece una scherzosa scena madre. C’era davvero un feeling particolare tra noi, al punto che in un certo momento mi chiese di seguirlo come tennista, anche se poi non se ne fece nulla.
Se uno guarda la tua carriera, trova soprattutto un percorso nel circuito Challenger ma, cosa anomala per un giocatore “da Challenger”, una serie infinita di vittorie contro giocatori di altissimo livello, oltre al citato Norman, (2 volte, tra l’altro) di cui provo a compilare un elenco forzatamente parziale: Baghdatis, Ljubicic, Massu, Goellner, Safin(!), Kuerten(!), e tra gli altri Starace, Sanguinetti e Volandri. Tante vittorie contro giocatori di prima fascia non possono essere una coincidenza e autorizzano a pensare ad un livello superiore al tuo best ranking. Cosa ti è mancato? Vorrei quasi dire che sono stato un “tennista per caso”. Intendiamoci, ero molto serio nell’allenarmi e nell’affrontare quello che nel tempo era diventato un lavoro, ma non posso mai dire di aver consapevolmente deciso di essere un tennista professionista: piuttosto mi ci sono trovato, spinto un po’ dagli eventi. Non stupisce quindi che io abbia avuto molti alti e bassi, qualche crisetta qua e là. Nel tentativo di dare una scossa a questa altalena ho cambiato diverse volte guida tecnica, affidandomi ad allenatori bravi: Giampaolo Coppo , (due volte) e Magnelli, per esempio. I risultati più significativi li ho avuti però con Paolo Spezzi, (che aveva in passato seguito Francesca Romano, ex-77 WTA). Un aspetto da sottolineare è che in genere giravo da solo, salvo quando lavoravo con Coppo, perché c’era un gruppo con cui muoversi. Il mio torto è aver attraversato questa vita con un’eccessiva leggerezza, senza quella piena convinzione che è necessaria per riuscire. In tanti mi hanno detto che avrei potuto fare di più. A me piaceva la terra e sul rapido, specie sulla risposta, ero in difficoltà. Ecco, avrei per esempio dovuto lavorare molto per riuscire anche su questo tipo di superfici.
Diritto mancino, back di rovescio e discese a rete. Quanto ti rivedi in Flavio Cipolla, che oggi alleni? È singolare che mi venga fatta questa domanda perché proprio oggi (domenica 29 gennaio a Montpellier n.d.r.) ne parlavo con Flavio dopo l’allenamento. La risposta è moltissimo e non solo tennisticamente. Nel nostro gioco ci sono molte prossimità, fatto salvo inevitabili differenze: io – a parte l’essere mancino – servivo meglio di lui, ma ero molto meno rapido negli spostamenti e meno attrezzato fisicamente. Anche caratterialmente siamo simili, perché siamo entrambi dei tipi tranquilli. Credo davvero che con lui potrò dare il meglio di me, più di quanto potrei fare con chiunque altro.
Il tuo tennis era un po’ anomalo. Lo stesso discorso sembra valere per molti tennisti italiani in attività oggi; la loro impostazione sembra diversa da quella, per la verità un po’ standardizzata dei tennisti di oggi. Sei d’accordo con questa osservazione? Com’è evoluto il tennis in questi ultimi anni, (hai smesso nel 2006, quindi recentemente)? In realtà ho effettivamente smesso nel 2004. Il mio tennis è figlio non solo del mio particolare percorso di apprendimento, ma anche della grande evoluzione tecnica del gioco, quando si è abbandonato il legno alle racchette a vantaggio di altri materiali via via più tecnologici e il budello per i filamenti sintetici. Io ho naturalmente dovuto adeguarmi, trovando da solo la mia via al cambiamento. In Italia in questo periodo di evoluzione è mancata una scuola, che guidasse gli atleti ad affrontare il nuovo tennis: basta pensare a quanto eravamo diversi tra noi io, Pozzi, Pescosolido, Gaudenzi, Camporese.. L’evoluzione del tennis non si è arrestata: ho la sensazione che si sia ad un punto di non ritorno e che, in uno sport divenuto così fisico, una certa standardizzazione sia obbligata. Anche in Italia, infatti, le differenze fra i tennisti che provengono dal nostro vivaio sono meno marcate che in passato. Una scuola italiana, comunque, si fa fatica a vederla. Personalmente auspicherei che, oltre ad un Centro Federale dove raccogliere i più bravi, vi siano molti Centri regionali con metodi e filosofia comuni.
I tuoi figli,(un ragazzo e una ragazza di 6 e 7 anni) giocano a tennis. Che percorso intendi far loro intraprendere, se confermeranno di avere voglia e attitudine (tornei internazionali, ecc.)? Per i miei figli il tennis è uno tra gli sport che praticano e sinceramente non so ancora se vorranno farne la loro attività principale. Se così fosse, confesso che sono molto preoccupato – e la disapprovo, a rischio di sembrare “vecchio” – della imperante tendenza di fare già di bambini o di ragazzini dei piccoli professionisti, con un’attività esasperata profondamente inadatta alla loro età. Quando sento che un under 14 disputa 10/15 tornei internazionali nutro delle riserve. Per la maggior parte di loro, eccezion fatta per pochi, pochissimi fenomeni, il rischio forte è di bruciarsi. Desidero quindi innanzitutto che i ragazzi si divertano e che, se decidono di fare dell’agonismo di alto livello, la scelta sia loro, non degli allenatori o dei genitori. A quel punto, a quindicenni responsabili che si allenano 5 volte la settimana, chiederò di impegnarsi al 300%. Una volta intrapresa questa strada con la giusta maturità e consapevolezza, penso che un’esperienza come quella dei tornei internazionali sia fondamentale. È assolutamente necessario a mio avviso per un giovane mettere il naso fuori dal proprio cortile e confrontarsi con scuole e culture diverse, certamente per ragioni tennistiche ma anche a prescindere dalle stesse.
Com’è l’esperienza da allenatore, rispetto a quella da giocatore? Qual è il tuo sogno nel cassetto? Sono “malato” di tennis, nel senso che è uno sport che mi piace in ogni suo aspetto. A me piace non solo praticare, ma anche studiare il tennis. Per questa ragione essere un allenatore è soltanto un’altra pagina di un libro che deve essere ancora completato e che, per quel che mi consta, è altrettanto appassionante di quella che ho scritto quando giocavo. Il livello di emozione che si prova stando fuori dal campo è, almeno per me, pari alla tensione che avevo quando ero io a disputare un match. Forse mi aiuta in questo l’incoraggiamento che mi viene dai risultati, non solo con Cipolla, ma anche con il gruppo di 15,16 e diciassettenni che seguo. E poi lo sfogo del campo non mi manca, dato che gioco la serie A! Il mio sogno è che su 100 allievi, 90 domani mi dica che io li ho realmente aiutati nella loro crescita.
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