di Gianfilippo Maiga
Dovendo intervistare un personaggio come Daniel Panajotti, il primo pensiero che mi è balzato in mente è stato che l’impresa non sarebbe stata semplice. Non certo perché Daniel non sia disponibile a parlare o perché gli manchino gli argomenti. Piuttosto perché tanti giornalisti, titolati professionisti a differenza del sottoscritto, ci si sono cimentati prima di me e il pericolo di ripercorrere sentieri già molto battuti era forte. Ho superato questa remora dicendomi di non sprecare questa occasione per me stesso. Mi sono allora messo nei panni di quello che sono: un appassionato che ha ancora tantissime cose da scoprire, un “ignorante” che ha il coraggio di confessare che certe cose in apparenza scontate forse per lui non lo sono. Ho voluto per esempio sapere di più su Tandil, di cui sento sempre parlare, ma la cui realtà – lo ammetto – in fondo ignoravo, del rapporto con Francesca Schiavone e di altre cose, di cui credevo invece di conoscere abbastanza e in realtà giocoforza vedevo solo in superficie. Non sono affatto sicuro di aver scongiurato il pericolo della scoperta dell’acqua calda, né – se questo è stato il caso – è sempre vero che “repetita juvant”. La disponibilità di Panajotti a raccontarsi è però inesauribile, come la sua energia verso il suo lavoro e mi ha coinvolto. Spero allora solo che chi legge questo racconto non lo trovi banale e ci si appassioni, così come è capitato a me scrivendolo.
Prima giocatore (di seconda categoria) e poi allenatore a Tandil. Qual è la storia di Daniel Panajotti, quale il percorso che lo ha portato in Italia, quali le motivazioni che lo hanno determinato a restare e come vive oggi la sua doppia identità italo – argentina.
Sono nato nel 1966 e cresciuto a Tandil. In Italia mi sono trasferito nel 1992, quindi si direbbe che sono più argentino che italiano. In certo qual modo è il contrario. Non solo fra poco avrò speso lo stesso tempo della mia vita nei due Paesi, ma quasi tutto parla italiano in me. Mio padre è nato a Chioggia e mia madre è originaria di Bari e nelle orecchie ho tanto dialetto veneto: ho dunque vissuto da italiano in un altro Paese. In Italia inoltre ho tantissimi parenti. Insomma, era chiaro che tornare, perché di questo per me si è trattato, era un fatto naturale, quasi inevitabile, direi. Mi sento italiano e la mia identità argentina viene fuori solo in relazione a due argomenti: il tennis e Diego Armando Maradona. Il tennis, perché se a casa sono stato educato da italiano, sul campo quello che sono, quello che so, è argentino. Maradona, perché è stata l’unico motivo per distogliermi dal tennis e per avvicinarmi ad uno sport che non amo e che, in Argentina, “strozza” – o forse dovrei dire strozzava, perché oggi il tennis è cresciuto molto nella considerazione e nella conoscenza degli argentini – tutti gli altri. In origine dovevo tornare in Italia per lavorare con un mio zio di Treviso, Bepi Zambon, un tennista e maestro di tennis piuttosto conosciuto su quella piazza. Poi, come spesso capita nella vita, il percorso che ho intrapreso è stato completamente diverso. Un po’ per il desiderio di stare più vicino ai miei, che vivevano a Parma, un po’ perché lì mi aveva indirizzato Raul Perez Roldan, (mio mentore tennistico e padre del grande giocatore Gullermo Perez Roldan), mi sono trovato a Salsomaggiore. Anche se avevo competenze piuttosto solide, in Italia, ho avuto modo di rendermene presto conto, ero allora un perfetto sconosciuto e quindi ho dovuto conquistarmi credibilità adattandomi all’esordio a fare da sparring. Il mio vero inizio l’ho avuto in Sicilia, la mia seconda tappa, per poi passare a Merano, (scuola di Van der Meer), a Cividino e infine a Verona, dove sono attualmente.
Tandil: un nome che evoca grandi successi a livello professionistico nel tennis. Eppure chi disputa tornei professionistici ( a livello di futures ) in Sudamerica non sempre ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una grande scuola. L’Argentina si differenzia dal resto del Sudamerica? Quali sono e perché i Paesi meglio attrezzati tennisticamente in America Latina? L’Argentina è una realtà che si distacca completamente da quella di qualsiasi altro Paese dell’America Latina, Brasile compreso. La svolta l’ha data Vilas, con i suoi successi: con l’apparizione di quel campione si può veramente dire si sia aperta una strada nuova per il tennis in Argentina. Fino a quel momento anche lì il nostro sport era poca cosa: qualche successo con Enrique Morea e soprattutto un vero e proprio ostracismo sociale. Solo ai calciatori veniva riconosciuta piena dignità sportiva; il tennis, che suggeriva l’immagine di un’attività dai ritmi blandi, era considerato uno sport da femminucce e – non scherzo – il tennista era spesso etichettato come un “frocio”. Ma Vilas, che certo non aveva un’aria propriamente femminile, è riuscito a ribaltare l’immagine di un tennis sport all’acqua di rose: non erano solo i suoi successi a parlare per lui, ma il metodo di lavoro, con un carico di lavoro quotidiano molto superiore a quello riservato ai calciatori. Da quel momento, insomma, si capì che il tennis era fatica e sacrificio, se si voleva riuscire. La figura chiave, per il tennis argentino e per me ha un nome: Raul Perez Roldan, il padre di Guillermo. Da lui nasce non solo una generazione di tennisti, ma anche di allenatori. Oltre a ricordarsi forse del coach di Vilas, (un parrucchiere che faceva il maestro di circolo!) e del sottoscritto, gli italiani conoscono molto bene Edoardo Infantino e hanno certamente sentito parlare di Marcelo Gomez. Larry Passos, il coach di Kuerten, ha più volte ringraziato Raul Perez Roldan per i suoi insegnamenti. Il metodo di lavoro che si era introdotto a Tandil non era stato concepito grazie alla scoperta di grandi segreti. Era piuttosto una banale osservazione di alcune verità derivanti dall’esperienza, la loro organizzazione in lavoro e la sua rigorosa messa in pratica : per essere pronti ad affrontare le sfide del professionismo un giovane doveva assorbire notevoli quantità di lavoro, fino ad allora ignorate, e raggiungere al più presto una notevole qualità tecnica. Intendiamoci, a Tandil si era anche tecnicamente aggiornati: Guillermo Perez Roldan fu tra i primi ad impadronirsi della tecnica del top spin, che aveva in Borg il suo massimo interprete. Ma questo era solo un aspetto. Essenziale era la progettazione del percorso. Se pensiamo che un tennista, per raggiungere una completa formazione professionale, ha bisogno di 10,000 ore di lavoro, questo significa che lo stesso necessita, lavorando 4 ore al giorno, di 10 anni di tempo per essere pronto ad affrontare con successo il mondo del professionismo. Da questo derivano alcune semplici conseguenze: che il tennis inizia a 5-6 anni, che a 8 anni si può ( e si dovrebbe) giocare tutti i giorni, che è essenziale che nei primi anni si fornisca a un ragazzino che gioca un bagaglio tecnico completo, ossia che sappia padroneggiare in età verde tutti i colpi, nelle loro variazioni. Un altro credo fondamentale della filosofia di Tandil è inoltre che il tennis si impari con la comprensione, non solo con l’imitazione. Io ho cominciato ad aiutare sul campo molto presto. Ebbene, mi sono reso conto che a sedici anni sapevo spiegare ad altri moltissime cose, proprio perché non avevo assimilato solo dei gesti, ma anche dei concetti in modo tale da poterli ritrasmettere ad altri. Purtroppo oggi mi capita invece sempre più spesso di imbattermi in giovani che non hanno alcuna idea di quello che stanno facendo e del perché lo stiano facendo. A volte, parlando con certi istruttori, sento enunciare concetti in modo che a me risulta completamente incomprensibile. E mi dico: se non capisco io, che in fondo sono adulto e vaccinato e ho visto un po’ di mondo e parecchio tennis, ma come fa un adolescente…..
Facciamo un confronto fra l’organizzazione di Tandil e altre realtà nel mondo (es. Francia, Spagna, in USA): pregi e difetti
Ho avuto modo di osservare e studiare molte scuole di tennis, (USA, Francia, Spagna, Svezia, Germania…); ciascuna ha le sue specificità e ha conosciuto o conosce momenti di splendore. Certo, sono un po’ passati i momenti in cui un giocatore aveva tratti inconfondibili, che denunciavano la sua nazione di origine o la scuola tennistica da cui veniva: oggi il tennis tende sempre più a omologarsi e, se è vero che i francesi sono quelli con il bagaglio tecnico più completo, non è più vero che gli spagnoli giocano solo arrotato o sono incapaci sul rapido. È interessante notare come forse siano rimasti diversi i meccanismi di selezione. In America, antesignano Bollettieri, vigeva un processo di selezione naturale: tutti sul campo a massacrarsi di lavoro e vediamo chi sopravvive. In Francia, sia pure se in modo diverso, si è fatta un po’ la stessa cosa. In Argentina oggi sono proliferate le Accademie, ma il riferimento assoluto resta per il momento Tandil. Chi nasce qui non può non porsi la domanda se sarà un giorno un tennista (un po’ come accade per l’hockey nel film Mistery, Alaska, per chi l’abbia visto, n.d.r.) e d’altronde, non so se per caso o con ragione, a Tandil l’Argentina deve se in questo momento ha ben 2 top ten (Del Potro e Monaco). Comunque i concetti nel mondo sono ormai più o meno gli stessi, si parla una lingua comune. Questa osservazione ci porta purtroppo all’Italia, dove a volte sembra che il tempo non sia trascorso. Attenzione: non è vero che i maestri italiani non siano preparati. Ne incontro ovviamente parecchi e spesso li trovo competenti e aggiornati. Certo che ci sono anche quelli non hanno voglia di lavorare o non sono adeguatamente preparati, ma questo accade dappertutto: in Argentina, in Spagna, in Francia e nel resto del mondo. Sono National Tester per il PTR e nei sei anni trascorsi a Merano, per la certificazione PTR ho testato più di 500 tra maestri e istruttori di tennis, quindi parlo con cognizione di causa. Piuttosto, chissà perché, mi capita spesso di constatare che a questa buona base teorica non corrisponde un atteggiamento coerente e metodico sul campo, dove li colgo a mettere in atto cose diverse. È una generalizzazione, naturalmente, ma la mancanza di un vero denominatore comune, di un modo omogeneo di fare scuola è un problema vero. Anche a migliaia di chilometri di distanza, chi ha in comune l’esperienza di Tandil dice sostanzialmente le stesse cose. Questa omologazione non esclude che un Allenatore o un Maestro, come dice Velasco, debba puntare all’eccellenza, ossia non a fare come gli altri, ma a fare meglio, a superarli e a superarsi. Un ultimo pensiero va al rapporto scuola-sport, che in Argentina, almeno fino a quando c’ero io, è ottimale. Io ho studiato in una scuola selettiva e impegnativa, quali sono certe scuole private stile Svizzera, (mentre per esempio in Italia spesso le scuole private sono facilitanti). Ebbene, nonostante l’impegno scolastico fosse severo, c’era comunque molta apertura e flessibilità verso l’attività sportiva, cosa che in Italia, (e, salvo errore, in Europa) culturalmente manca.
Passiamo all’aneddotica personale: da giocatore o allenatore è stato a fianco di grandi campioni, (tra tutti Perez Roldan, che dopo la carriera ha trascorso qualche tempo in Italia, Francesca Schiavone, ecc). Cosa ricorda di quel periodo e di quei personaggi, sia sotto il profilo tennistico, sia umano. Perché si è interrotto sul più bello il rapporto con Francesca Schiavone? Vorrei partire non da un grande campione, ma da un grande allenatore, cui ho fatto sopra riferimento e di cui non mi stanco di parlare: Raul Perez Roldan. Come ho già detto prima, a lui tanti sono tributari dell’avere reso quella dell’allenatore una professione, con un chiaro metodo e chiari concetti. Per quanto mi riguarda, ricorderei una sua lezione essenziale. Come tutti i giovani allenatori, (particolarmente io, che come giocatore non ritenevo di avere le qualità per riuscire), avrei voluto occuparmi subito degli agonisti più bravi, ritenendo di trovarvi più soddisfazione. Mi ha invece costretto a occuparmi inizialmente di bambini, poiché sosteneva che essere capaci di insegnare a un bambino è il presupposto per poter formare anche i giocatori più bravi. Se sei in grado di trasmettere in modo chiaro i tuoi concetti a un bambino, diceva, sarai in grado di spiegarlo a tutti. Questo – saper insegnare, saper trasmettere con semplicità il proprio pensiero – è per me oggi un punto cardine, non certo, come potrebbe sembrare, una banalità. Grazie al suo metodo io, insieme con altri maestri, ho impostato il tennis di Mariano Zabaleta (dai 5 agli 8 anni) e io da solo quello di Juan Monaco (dai 5 ai 7 anni): non sembri irrilevante il lavoro svolto in un’età così verde; è esattamente il contrario: è cruciale, dato che questi bambini giocavano tutti i giorni. Raul è una persona eccezionale, come d’altronde tale devono essere i giocatori di tennis, se vogliono diventare dei campioni. Non è un caso se per ciascuno dei grandi giocatori che mi è capitato di incrociare sono in grado di raccontare almeno un episodio che ne illustra la straordinarietà. Sono cresciuto con Guillermo Perez Roldan, che poi è stato uno dei primi giocatori al mondo. Io 17 anni, (e una classifica equiparabile a quella di un 2.5) e lui 14 ( e numero uno al mondo tra gli under 14): mi sfida a vincere una scommessa. Gioca con me due set nei quali io parto da 40-0 in ogni game e scommette che vincerà. Risultato finale: 6-0 6-0 per lui. A 14 anni aveva già una capacità di concentrazione incredibile, una delle doti umane che servono quando giochi ad altissimo livello. Nel caso di Franco Davin, attuale allenatore di Del Potro, sono stato vittima di uno scherzo giocatomi da Raul. Franco arrivò a Tandil quando aveva 14 anni. Io non sapevo chi fosse; invitato da Raul a palleggiare con lui avevo scambiato la sua riflessività, la sua modestia, per timore e lo avevo incoraggiato a non avere paura. Poi, in campo, mi ero accorto che non sbagliava mai e che non aveva alcun problema a seguire il mio ritmo anche se io decidevo di imprimergli brusche accelerazioni. Colpito dalla sua bravura, avevo manifestato le mie impressioni a Raul Perez Roldan, per sentirmi rivelare che il “bimbo” era il n.1 al mondo tra gli under 14! Di Juan Monaco posso raccontare un aneddoto rivelatore di cui è testimone Mario Bravo, attuale Vicedirettore della scuola di Tandil. Un gioco tra i bambini allievi della scuola tennis (Monaco aveva 6 anni) attribuiva più punti a quanti avessero raccolto il maggior numero di palline: tutti i bimbi, partiti più o meno “sparati” inevitabilmente rallentavano, ma non Juan:la creatura teneva sempre lo stesso insostenibile ritmo, fino a che, in un dato momento, è … svenuto! Questo per me era un segno di predestinazione. Mi ricordo che dissi che Juan non fosse diventato bravo mi sarei fatto Papa… I miei ricordi non vanno naturalmente solo a tennisti argentini. Ho allenato per qualche tempo anche Emanuelle Gagliardi, italo-svizzera, un talento a mio avviso eccezionale, giunta da me un po’ tardi a 30 anni, ma ancora capace di vincere un 75,000$. Ricordo la mia esperienza con Maria Elena Camerin, che ha fatto bene. Avrebbe forse potuto fare ancora meglio, non avesse accusato una certa fatica ad accettare certi cambiamenti , aggiustamenti a mio parere necessari a livello tecnico. Ovviamente l’esperienza che più mi ha segnato sono stati i 6 anni – che fanno di me il suo allenatore più longevo – con Francesca Schiavone. L’approdo alla collaborazione con Francesca è stato una rincorsa abbastanza lunga, non un evento improvviso. L’ho conosciuta nel 2000, quando era 80 al mondo. Io lavoravo a Cividino. Era Natale e Schiavone cercava uno sparring per una settimana. Io mi sono reso disponibile. Ho trovato una tennista che giocava un tennis brillante, lineare e aggressivo. Credo che ci siamo piaciuti, ma il suo manager proprio in quel momento aveva individuato per lei un allenatore, con cui si è a quel punto avviata una collaborazione. Qualche tempo dopo, ci siamo sentiti, questa volta per fungere da sparring per 3-4 settimane. Pur avendo rispettato il mio ruolo, una posizione tecnicamente “silenziosa”, per rispetto del lavoro dell’allenatore, non avevo potuto impedirmi di notare che il gioco di Francesca era profondamente cambiato: da “offensivo” era diventato un gioco difensivo, basato sull’attesa dell’errore dell’avversario piuttosto che sulla ricerca del punto. Francesca arrotava di più la palla, ma soprattutto stava molto lontana dalla linea di fondo: se posso dirla tutta, la palla non arrivava mai. Quel gioco non le aveva comunque impedito di ottenere risultati, come provano i quarti al Roland Garros e a Roma. L’allenatore aveva comunque lavorato bene: il gioco di Francesca aveva ora ordine, cosa importantissima per una tennista piena di opzioni come lei. D’altronde, la classifica mondiale parlava chiaro, con un best ranking di 23 al mondo. Quando il rapporto di lavoro con quell’allenatore si è interrotto, nel novembre del 2002, la sua scelta è stata a quel punto di avviare una collaborazione full time con me. Io parto dal presupposto che chi è venuto prima di me abbia dato del valore aggiunto e che questo valore aggiunto vada preservato. Nel caso di Francesca, ogni allenatore che ha avuto ha dato un apporto che ha contribuito a completarla e migliorarla. Anch’io ho cercato di dare il mio: il suo gioco, per esempio, era fondamentalmente basato sul rovescio, ritenuto il suo colpo migliore. Io ho ritenuto di spostare il centro gravitazionale del suo tennis sul dritto, un colpo a mio parere devastante, senza naturalmente rinunciare al suo ottimo rovescio. Inoltre, ho preteso che Francesca ritrovasse il suo tennis aggressivo, e soprattutto la linea di fondocampo. Queste conquiste non si ottengono facendo la rivoluzione, ma piccoli, essenziali aggiustamenti. Nel suo caso, avevo corretto l’impugnatura del dritto e aumentato esponenzialmente la quantità e l’intensità di lavoro. Ricordo che la prima settimana la mano destra era grande il doppio della sinistra! Un altro aspetto che è cruciale per permettere ad un allenatore di lavorare proficuamente con uno sportivo è capire e entro certi limiti assecondare la sua personalità. Francesca Schiavone ha una personalità molto forte ed è alla costante ricerca di nuovi stimoli. Chi le sta vicino deve quindi mettere in conto che il suo consenso si conquista con una costante volontà di persuasione, con una continua offerta di nuove esperienze e anche con una buona capacità di imporsi. Questo ultimo aspetto sembra ovvio , ma non lo è. Molti allenatori, devo dire, per mantenere il proprio posto di lavoro tendono a “star dietro” alle inclinazioni del tennista che seguono: io ragiono in modo affatto diverso. Tu, sportivo, mi paghi perché io ti dica quello che devi fare e non per sentirti dire quello che ti fa piacere. Come si può immaginare, il nostro rapporto è stato pieno di scontri, seguiti inevitabilmente da altrettante riappacificazioni. Tutti e due volevamo in fondo le stesse cose: Francesca era animata dalla ferrea volontà di vincere il Roland Garros e io dalla determinazione di portarla a sfruttare il suo immenso potenziale e poi, va detto, Francesca è una gran brava ragazza. Seguendo il suo impulso alla sperimentazione io le consentivo periodicamente collaborazioni con grandi campioni perché per esempio le apportassero le proprie conoscenze su un terreno che io non avevo mai battuto in prima persona: quello della gestione delle tensioni e delle emozioni nei grandi appuntamenti. Ricordo tra le collaborazioni quella con Navratilova per due settimane a Eastbourne e a Wimbledon nel 2006. Avevamo stabilito che Francesca, notoriamente abituata alla terra, dovesse comunque migliorare le proprie performance nei tornei su superfici rapide, (il cemento in primis), perché remunerativi e in questo percorso era rientrata anche un’avventura sull’erba. Martina Navratilova pretendeva di inculcare rapidamente a Francesca il serve and volley da lei così ben praticato; naturalmente Schiavone non riuscì a impadronirsi in così breve tempo di quella tecnica, (oltretutto visibilmente non congeniale alle sue caratteristiche) e finì fuori al primo turno, perché veniva impietosamente passata ogni volta che si avventurava a rete. Cionondimeno quella breve esperienza è risultata altamente formativa e stimolante per lei. Dopo 6 anni di lavoro, di vita, insieme, ero – lo ammetto – un po’ scarico. Mi rendevo conto che Francesca aveva bisogno di avere vicino qualcuno che potesse dare il 100% e io sentivo di mancare delle necessarie energie: ho quindi ritenuto onesto da parte mia passare la mano alla fine del 2008. Francesca credo abbia trovato in Barazzutti un interlocutore giusto, e mi riferisco non tanto al piano tecnico, quanto a quello caratteriale, perché i due sotto questo aspetto sono simili. Temo che lei abbia pensato che io non volessi più allenarla, ma non è così: semplicemente ero un po’ logoro e francamente stanco della vita dello zingaro, qual è in fondo quella dell’allenatore. Francesca, poi, a quel punto poteva continuare con le sue gambe. Dico sempre che un campione, per essere tale, ha bisogno delle 3 “d”: desiderio, disciplina, determinazione. Francesca ha dentro di sé innati tantissimo desiderio di vincere e altrettanta determinazione a raggiungere i suoi obiettivi. Bisogna darle atto che ha saputo imparare moltissimo sul fronte della disciplina, facendo violenza al suo temperamento un po’ anarchico.
Oggi Daniel Panajotti è un allenatore affermato: in questi anni ha però molto investito sul suo mestiere, accettando di essere un coach itinerante. Qual è il bilancio tecnico e umano di questa scelta? Sacrifici o gratificazioni? Come è riuscito a riconciliare il suo lavoro con le relazioni familiari?
Ho sempre avuto la vocazione dell’allenatore, in pratica da quando avevo 20 anni e a questa vocazione ho sacrificato (volentieri) la mia vita: io infatti non ho una famiglia. Per me essere allenatore non ha rappresentato un ripiego rispetto ad una mancata carriera da giocatore. Così come da giocatore dovevo confrontarmi con altri atleti più talentuosi, così anche da allenatore – o aspirante tale – ho dovuto misurarmi con una grande concorrenza, fatta da ex-giocatori di grido o da gente di esperienza, incluso per es. Infantino, di cui ho già parlato. Incontrare Francesca Schiavone è stata per me una grande fortuna e mi ha ripagato – anche, ma non solo, economicamente – di tutte le rinunce. Nel ’92 avrei potuto anche allenare Pistolesi, che però dovette operarsi e smettere. Nell’essere allenatore non ho d’altronde visto solo la ricerca del successo intesa come notorietà, ma anche la gratificazione di portare un giocatore a toccare i propri massimi e di intrattenere con lui un rapporto che sul piano umano alla fine è difficilmente ripetibile. Vorrei ricordare per esempio la breve esperienza con Brizzi quando era junior: l’ho accompagnato ad alcuni tornei ed abbiamo legato molto.
Torniamo all’Italia. Vorrei una valutazione sul contesto italiano e sulla mentalità del Paese in ambito tennistico.
Ho già detto che non ritengo che il problema italiano, fondamentalmente, sia tecnico. Penso piuttosto ad altri aspetti, chiedendo in anticipo perdono per quelle che possono sembrare ingenerose generalizzazioni. Se si entra sul mio sito, (www.danielpanajotti.it n.d.r.), si trova subito un video di Velasco che parla della “cultura degli alibi”. Metto questo aspetto al primo posto, fra i mali nazionali. Non è la luce, non il campo, non la racchetta a farti sbagliare un colpo, ma sei tu. Prenditi le tue responsabilità e non scaricarle sugli altri. Attenzione: NON MI RIFERISCO SOLO AI TENNISTI, LO STESSO VALE PER MAESTRI E ALLENATORI, mutatis mutandis. Un altro aspetto negativo è senza dubbio la nostra grandissima verve polemica: siamo maestri nelle critiche, ma raramente costruttivi. Criticare è giusto, se poi si agisce, ma siamo poco portati al fare, come una volta mi disse il Presidente Binaghi, facendomi in quell’occasione un complimento. Io non sono contro nessuno, voglio costruire qualcosa. Da ultimo, noto un diffuso sentimento di gelosia fra chi allena, tale da inaridire alla fonte la linfa vitale per la crescita di un movimento: lo scambio di informazioni sul proprio lavoro, il confronto fra esperienze e metodi di insegnamento. Non si cresce, se la preoccupazione dominante è che ti freghino un ragazzo. In Argentina, se devo cercare un termine di paragone, il confronto è normale: non c`è niente di male ad ispirarsi l’uno all’altro e solo così può nascere una “scuola”. Per essere costruttivi, vorrei che ci fossero più circoli votati all’agonismo e una base allargata di tennisti da competizione. Solo così l’orticello diverrebbe abbastanza grande per tutti perché non nascano preoccupazioni e si otterrebbero risultati ancora maggiori degli attuali, (che non sono poi male: allibisco quanto sento nei commenti degli esperti considerare campioni solo 3 o 4 giocatori)
Parliamo dell’esperienza di Verona. Quali sono gli accorgimenti fondamentali che la sua esperienza ha suggerito? Quali sono i tennisti, affermati e di prospettiva, che segue e come li segue?
Ho chiamato questo progetto New Tennis Experience e la sua realizzazione, che desideravo da tempo, ha trovato il momento decisivo nell’incontro con il signor Carlo Piccoli, (esperto di amministrazione). Un po’ stanco di vagabondare, sono tornato alle origini: io sono e resto essenzialmente un uomo di campo, e a me sul campo con i ragazzi piace stare. A Verona io voglio ricreare Tandil, nel metodo e negli obiettivi. Questi ultimi sono chiari fin dall’inizio: creare degli agonisti. Sento purtroppo a volte dire che da me possono arrivare solo i fenomeni. Non è vero, ma da me, a cominciare dai bambini, ci si prepara alla competizione. In questo che è l’anno zero per noi, ai genitori che hanno figli alla scuola tennis ho detto che a 5-6 anni devono venire minimo due volte alla settimana, perché senza questo impegno non si otterrebbero risultati e che lo stesso aumenterà nel tempo, man mano che l’età cresce. Il numero degli aderenti si è dimezzato, ma questo non mi spaventa, perché so che è il prezzo che devo pagare in attesa che si sviluppi con chi viene un rapporto di fiducia su quello che si fa e su come lo si fa. Noi d’altronde vogliamo essere estremamente trasparenti verso le famiglie. I nostri allenamenti possono essere visti dai genitori, che sono i benvenuti e parlo letteralmente: la nostra struttura permette di osservare tutto dall’esterno anche d’inverno. Ebbene: devo dire che raramente vedo che qualcuno viene “a controllare” , perché chi mi conosce si fida, sa che lì si lavora. Seguo naturalmente anche alcuni agonisti/professionisti, tra cui Bortolotti (che vale certamente più del ranking attuale), Giulia Remondina, una ragazza Colombiana e diversi seconda categoria: in totale 10 full time e 8 part time, un bel gruppo.
Per finire: un sogno nel cassetto?
Più che un sogno, un progetto concreto. È vicino il lancio di una Fondazione dedicata alla formazione e all’educazione dei tennisti. Questa mi è sempre stata a cuore. Troppo spesso mi capita di notare che ai tennisti italiani manca completamente una cultura sportiva adeguata e che sul campo si perdono in scene invereconde, (assecondate a volte dai propri familiari…) che non si vedono in sportivi di altri Paesi. Troppo spesso inoltre mi capita di vedere tennisti all’estero incapaci di comunicare, o infine anche solo sprovveduti di fronte ai problemi pratici della vita quotidiana. Per queste ragioni già oggi, soprattutto con l’obiettivo di capire cosa vuol dire “umiltà”, obbligo i miei giocatori a cambiare pelle, a calarsi in altri panni, che siano quelli dello sparring a altri giocatori o del servire a tavola al nostro ristorante. La Fondazione dovrà fare in modo che essi abbiano le giuste conoscenze e la giusta educazione sia nel corso della loro attività, sia dopo, non trovandosi disadattati nel mondo. Dovranno per esempio conoscere l’inglese, senza il quale difficilmente potranno spiegarsi sul campo durante una partita, ma anche saper affrontare il problema dell’amministrazione dei propri risparmi, solo per fare due esempi pratici molto diversi. Spero proprio che entro la fine del 2013 la Fondazione sia una realtà.
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