Noi, italiani d’America

Liam Caruana, che nel circuito junior giocava con accanto la bandierina americana, è un ragazzo ancora poco conosciuto dalla maggior parte degli appassionati di tennis. Liam e la sua famiglia, in realtà, sono italiani anche se vivono negli Stati Uniti. Ora, italiano a tutti gli effetti anche per ITF e ATP, sta scalando molto velocemente la classifica tanto da arrivare alla attuale posizione numero 379, poco sopra il suo best ranking di 375 raggiunto il mese scorso.

Abbiamo raggiunto telefonicamente Massimo Caruana, per tutti Max, il papà factotum di Liam, che lo segue spesso nel tornei in giro per il mondo, collabora e, in un certo senso, gestisce il team di allenatori e professionisti che seguono il figlio, per farci raccontare la storia della sua famiglia.

 

Max, raccontaci come sei finito a vivere negli Stati Uniti
“E’ una lunga storia. Ho fatto il liceo fatto in Italia, poi mi sono trasferito negli Stati Uniti, in California, a San Diego, per studiare all’Università, mi sono laureato in Discipline economiche (studiando in particolare la pubblicità) e poi ho fatto un master in Business Administration. Mi sono sposato con una ragazza americana e ho avuto tre figli; poi, dopo la separazione, sono rientrato in Italia per lavorare nell’azienda di famiglia, che però poi abbiamo venduto. Nel frattempo mi sono risposato in Italia con una donna italiana, sono nati Liam e un altro figlio e a quel punto, considerando che gli altri miei tre figli vivevano negli Stati Uniti, ho cercato di riunire tutta la mia “famiglia allargata” e il modo più semplice per vivere vicino a tutti i miei figli era appunto trasferirci tutti definitivamente negli Stati Uniti. Non è stata una decisione semplice, ma comunque è stata ben accettata anche da mia moglie e, a posteriori, credo sia stata la scelta giusta, prima di tutto come padre e come uomo e poi anche da tanti altri punti di vista”.

Come ti sei trovato, soprattutto i primi anni, da emigrante italiano negli States?
“Io mi sono sempre trovato benissimo, sia in California che in Texas. Certo, mi sono formato culturalmente qua, non sono il classico immigrato in cerca di fortuna, però devo dire che sono sempre stato accolto a braccia aperte da tutti. Poi gli americani sono tutti innamorati dell’Italia, la vedono come un posto fantastico dove c’è sempre il sole, si mangia bene e tantissimo, continuano a chiedermi consigli per viaggi in Italia. Ogni tanto mi improvviso agente di viaggio e organizzo trasferte per decine di persone con il patto però che a nessuno di loro venga mai in mente di fermarsi troppo a lungo in Italia, perché l’americano medio non riuscirebbe mai ad adattarsi ai ritmi di vita e della burocrazia italiana, troppo lenta e macchinosa per le loro abitudini”.

Scelta definitiva quella degli Stati Uniti o ci sono margini per valutare un rientro della famiglia in Italia?
“La scelta è assolutamente definitiva, io mi sento italiano, amo l’Italia, torno sempre volentieri, ma ormai la nostra vita è radicata qua, ho il mio lavoro, le nostre abitudini sono basate su ritmi e consuetudini americane”.

Quindi Stati Uniti come scelta di vita, lo sport e il tennis in particolare, è arrivato dopo nella vostra vita?
“Io sono sempre stato un appassionato di tennis, in Italia avevo giocato nelle categorie giovanili, appena arrivato negli Stati Uniti nel collage tennis a San Diego, poi ho smesso per tanti anni, fino a quando siamo tornati in America. A quel punto ho portato Liam, allora un bambino di cinque anni, al circolo locale e abbiamo iniziato insieme, a giocare nel vero senso della parola, perché ovviamente per lui era solo un gioco, poi col passare degli anni i vari maestri del circolo hanno visto che Liam aveva potenzialità e talento ed era molto più bravo dei suoi coetanei che giocavano con lui, quindi le lezioni e le frequenze degli allenamenti via via hanno iniziato ad aumentare e anche io ho cominciato a fermarmi sui campi per parecchie ore la settimana, ma sempre fondamentalmente per accompagnare Liam ad allenarsi”.

Ogni tanto si legge che tu sei stato il primo allenatore di Liam e lo sei tuttora, questo non è vero quindi?
“Assolutamente no. Io ero solo un uomo di business, solo un appassionato di tennis che accompagnava il figlio prima a giocare, poi ad allenarsi, seguendo con discrezione e interesse la sua crescita. Ho avuto la fortuna di avere alcuni amici molto competenti nel tennis, un paio di ex giocatori ATP, una serie di tecnici e preparatori fisici molto bravi. Ho avuto la grande capacità di ascoltare tutti e di seguire, per mio figlio, i consigli migliori”.

Più che allenatore sei sempre stato una sorta di manager per Liam?
“Esattamente. Il mio ruolo è sempre stato quello di scegliere le persone giuste da mettergli accanto. Poi è chiaro che, soprattutto da piccolo, era impensabile che avesse a disposizione coach importanti, che giustamente seguivano ragazzi più grandi; in tanti allenamenti ero io stesso che lo portavo avanti ma facevo solo ciò che mi dicevano di fare i vari allenatori. Forse per quello si dice che io abbia allenato Liam da piccolo, in realtà ero solo un esecutore di programmi fatti da chi aveva molta più competenza di me. Credo che il rapporto tra un figlio che ha il proprio padre come coach rischia di non essere tanto semplice, quindi è vero che sono stato tantissime ore sui campi, sia di allenamento che di gioco con Liam, ma ho anche cercato di mettermi, se non da parte, almeno di lato, in tanti altri momenti della sua vita tennistica”.

Come vive Liam e come vivi tu stesso questa situazione di essere in qualche modo parte del suo staff?
“Noi siamo entrambi certi di una cosa: la figura più importante, che non può essere mai messa in discussione, è quella del padre. Se il mio essere accanto a lui nei campi avesse anche solo minimamente messo in discussione la figura paterna o comunque avesse creato conflitti in famiglia, avrei subito abbandonato il ruolo sportivo. Ci sono stati dei periodi, per fortuna brevi, in cui ho valutato se fosse necessario allontanarmi un pochino dai campi, però lui ha sempre capito la mia importanza nel suo progetto di crescita tennistica, ovviamente insieme a tutte le altre persone che gli gravitavano attorno”.

Quando vedi tuo figlio che sta disputando un match importante, come lo vivi da bordo campo? Riesci a restare freddo e impassibile oppure ti agiti e non riesci a trattenere le emozioni?
“Nel mio atteggiamento nel seguire le partite di Liam c’è stata una evoluzione e una crescita, come credo sia naturale. Liam ha iniziato a fare tornei a dieci anni, quindi lo sto seguendo da un decennio e all’inizio come la maggior parte dei genitori vivevo molto intensamente le sue partite, lasciandomi anche andare a qualche atteggiamento scomposto. Poi ho capito che lui vedeva e interpretava in modo negativo questo mio modo di fare quindi, soprattutto negli ultimi anni, ho imparato ad essere molto più professionale, anche grazie ai consigli e all’aiuto di persone molto competenti. Ora ho un atteggiamento neutro quando seguo i suoi match e non lo disturbo minimamente dal punto di vista emozionale; che ci sia o non ci sia non è che cambi molto dal suo punto di vista”.

Liam ha iniziato a fare attività internazionale con la bandierina a stelle e strisce accanto al suo nome, poi è diventato italiano, come è avvenuto il passaggio e chi lo ha deciso?
“Liam è italiano a tutti gli effetti ed è orgoglioso di esserlo, come me del resto. Liam giocherà sempre e solo per l’Italia, questo deve essere chiaro a tutti. Mio figlio è stato catalogato come americano dall’ITF Junior per errore, visto che hanno preso il suo nominativo dalle provenienze dei colleges. Poi agli Australian Open Junior di tre anni fa ho incontrato Palmieri e abbiamo fatto una lunga e proficua chiacchierata per inserire Liam nei progetti della FIT. Si è subito sistemata la questione burocratica della sua nazionalità, anche dal punto di vista sportivo, e soprattutto si è iniziata una collaborazione tecnica coni coach federali italiani, che lo vedono poco per ovvie ragioni logistiche, ma lo seguono sempre nella crescita e nei risultati. C’è un costante contatto tra il nostro staff e quello federale con scambi di idee e ci consigli. Devo dire che tutte le promesse che mi aveva fatto Palmieri in quel primo incontro sono state mantenute e rispettate. Siamo molto contenti di come la federazione italiana tennis si sia presa a cuore la crescita tennistica di Liam e credo che Umberto Rianna con tutto il suo team stia facendo un ottimo lavoro con tutti i giovani italiani, compreso Liam”.

Parliamo ora del rapporto tra sport (tennis in particolare) e percorso scolastico. In Italia ci sono tante difficoltà da parte delle famiglie di tennisti per riuscire a conciliare tennis e studio. Negli Stati Uniti, forse, c’è un’organizzazione migliore da questo punto di vista. Sei d’accordo?
“Sono contento della domanda, mi fa piacere parlare del rapporto degli sportivi con la cultura e lo studio in generale. Negli Stati Uniti indubbiamente c’è molta attenzione da questo punto di vista. Il sistema americano dei tornei giovanili, organizzato da USTA, che gestisce lo sport liceale e universitario, è sostanzialmente organizzato solo nei week end per i ragazzi più giovani. Questo permette ai ragazzi di studiare e frequentare le lezioni per tutta la settimana e poi dal venerdì alla domenica giocare i tornei, che sono distribuiti in modo molto capillare sul territorio, quindi si permette alle famiglie di non fare grandi spostamenti. Ovviamente dal punto di vista sportivo è una faticaccia, perché chi arriva in fondo ai tornei deve disputare magari 5-6 partite in tre giorni; fino ai 15-16 anni funziona comunque in questo modo. Quando si arriva a fare ITF Junior, quindi normalmente dai 16 anni in poi, allora il discorso cambia e anche qua non è più possibile frequentare le lezioni quotidianamente perché i tornei portano lontano e allora ci si iscrive a scuole online, che però, mediamente sono molto serie e forniscono una preparazione completa anche se a distanza con video lezioni, esercitazioni e tutoraggio a qualsiasi ora attraverso internet. Liam ha seguito una di queste scuole on line con ottimi risultati scolastici. In Italia sono consapevole che il sistema scolastico è molto centralizzato, qua invece la scelta del tipo di studio è sempre del singolo cittadino, l’educazione parentale è molto diffusa anche tra persone che non hanno nulla a che vedere con lo sport; è semplicemente una scelta di vita. Io sono comunque convinto che vivere assieme ai propri coetanei l’esperienza scolastica sia un importante momento di crescita di ogni individuo; tornassi indietro, forse, toglierei Liam dalla scuola tradizionale intorno ai 16 anni, non prima”.

L’Università in Italia non ha praticamente nulla a che fare con lo sport, mentre negli Stati Uniti è un aspetto molto rilevante
“Certo, negli Stati Uniti, ogni famiglia sogna la migliore Università per il proprio figlio. Lo sport, a volte, diventa il mezzo per arrivarci. Con le borse di studio legate alle attitudini sportive, spesso anche famiglie con problemi economici riescono a mandare i propri figli in Università prestigiose. Lo sport qui negli States ha senza dubbio anche una valenza culturale. Lo stesso Liam, a 16 anni, partecipava a tornei con ragazzi di 17 e 18 anni, un po’ perché aveva il livello per farlo, ma soprattutto per essere visto dai coach delle varie università, sperando che arrivasse l’invito ad iscriversi presso di loro. Ci sono state cinque/sei proposte, poi alla fine ha scelto l’Università di Austin, in Texas, dove ci siamo trasferiti con tutta la famiglia”.

Poi, però, è stata fatta la scelta di abbandonare l’Università e partecipare a tempo pieno a tornei junior per poi entrare fra i professionisti
“Liam ha frequentato il primo semestre di università poi, a dire il vero, è rimasto un po’ deluso dall’ambiente; all’interno del campus università ci sono stati diversi problemi di tipo sociale e quindi anche la crescita come atleta o come tennista in particolare non procedeva come previsto. Ai miei tempi sicuramente funzionava meglio l’organizzazione universitaria, prima di tutto dal punto di vista disciplinare e poi si poteva crescere in modo molto più efficace anche come sportivi. Ora i ragazzi si divertono molto nei campus universitari, ma spesso si perdono per strada e abbandonano lo sport anche avendo talento e predisposizione. Non credo sia un caso che gli americani non riescano più a produrre top ten da anni. Per questi motivi abbiamo deciso di uscire dall’ambiente universitario e seguire una preparazione finalizzata alla crescita tennistica. Liam non ha vissuto benissimo questa scelta, perché gli è dispiaciuto tantissimo abbandonare gli studi e la vita da universitario, ma ha anche capito che stava per perdere un treno che forse non sarebbe più passato”.

Parliamo ora del gioco di Liam. Da americano d’adozione si è sempre allenato sul duro. Quanto pesa questo sul fatto che prediliga i campi veloci?
“Sicuramente Liam predilige le superfici veloci, credo proprio per le sue caratteristiche innate, più che per l’abitudine. Liam è un giocatore di ritmo, che ama accorciare gli scambi, prendere subito l’iniziativa e questo è chiaramente più difficile farlo sulla terra. Poi la terra richiede un grande sforzo fisico e lui deve ancora formarsi completamente dal punto di vista muscolare, quindi tende a calare alla distanza. Detto questo, si sta allenando molto sulla terra, il suo attuale coach principale è un argentino, quindi terraiolo doc, per aiutarlo a crescere anche su superfici più lente e a lui meno congeniali”.

Come state vivendo questo passaggio di transizione da tennis junior a tennis professionistico? Sei convinto che sia il momento più delicato nella carriera di un tennista?
“Mentre nei tornei junior chi aveva un po’ di talento riusciva sempre ad emergere e a vincere, nei pro, invece il talento da solo non basta. E’ indispensabile avere attorno un team preparato, importante e competente che si occupi di tutti gli aspetti burocratici, organizzativi e che possa risolvere i mille imprevisti che capitano sempre in giro per il mondo. Il tennista pro deve solo pensare ad allenarsi e a giocare bene, a tutto il resto devono pensare le persone che si occupano di lui. Se non si curano tanti aspetti che vanno molto al di là delle singole partite ci si perde per strada. A seguire Liam nei tornei siamo in media tre persone e ognuno di noi ha compiti precisi. Liam non ha vissuto in modo traumatico questo passaggio un po’ perché aveva già iniziato a giocare nei futures quando era ancora junior, un pò perché era già abituato ad avere un team professionale che lo seguiva almeno da un paio di anni”.

Che sogno hai per la tua famiglia e per Liam in particolare?
“Come ogni padre di famiglia il mio sogno è quello di vivere in armonia e in serenità negli anni futuri ed è quello di vedere i propri figli felici. In particolare vorrei sempre vedere Liam contento delle scelte che ha fatto, senza rimpianti, come è stato finora. Se poi riuscirà ad emergere a livello professionistico, rappresentando l’Italia nel tennis che conta, non potrei che essere entusiasta”.

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