Intervista a Claudio Mezzadri (I Parte)
di Gianfilippo Maiga
Claudio Mezzadri è una grande occasione mancata dall’Italia di annoverare tra le sue fila un campione. Claudio impersona perfettamente il dilemma della binazionalità che dilania alcuni svizzeri che hanno passaporto italiano. Questo dilemma Mezzadri lo aveva risolto scegliendo inizialmente la voce del sangue (italiano), ma questa strada si è poi interrotta, non senza colpe da parte italiana. Claudio Mezzadri è oggi un libro di storie e in un intervista non siamo riusciti a raccontarle tutte. Per questo ho voluto mettere a fianco del titolo il richiamo ad una prima puntata, ripromettendomi di scriverne altre in futuro. La sua voce è ancora forte e chiara per chi segue il tennis attraverso le sue brillanti telecronache per la televisione della Svizzera Italiana.
Claudio Mezzadri è stato un campione polivalente, come testimonia il fatto che ha avuto un best ranking di eccellenza sia in singolo (26), sia in doppio (23).
Se si osservano i soli tornei del circuito maggiore, in doppio hai vinto il maggior numero di titoli (4, contro 1 in singolare). Guardando indietro, a quale delle due specialità sei più affezionato?
“Senz’altro al singolare. Ho sempre considerato il doppio come un complemento, come prova il fatto che ho spesso cambiato di partner. Visti in effetti i buoni risultati e una certa attitudine avrei potuto scegliere di terminare la mia carriera come doppista, ma alcuni fattori (una serie continua di infortuni, la morte di mio padre, per esempio), mi hanno tolto motivazioni e fatto desistere.”
Sei nato a Locarno e hai difeso i colori della Svizzera. Sei però anche italiano e oggi vivi e lavori in Italia. Com’è nata la scelta di essere un portacolori svizzero? E’ perché ti senti svizzero di educazione, perché a quel tempo avevi più relazioni in Svizzera, per caso o per miopia della Federazione italiana?
“Un po’ tutti questi elementi hanno determinato la mia scelta. Sono nato e vissuto in Svizzera, ma da genitori italiani, quindi molti miei riferimenti sono italiani o, per meglio dire, è italiano il sangue che mi scorre nelle vene. Il mio percorso da junior è stato ovviamente in Svizzera e tra i 13 e i 15 anni (parliamo di fine anni 70, inizio degli anni 80) ero inserito nei quadri nazionali del Paese. Non è necessariamente la Federazione Italiana ad avere il primato della scarsa lungimiranza. A 14/15 anni, dopo un test atletico che non rispondeva ai loro parametri, sono stato buttato fuori, perché la Federazione Elvetica riteneva che con il mio fisico fosse impossibile avere successo nel tennis. Ad onore della Federazione stessa va detto che Swisstennis ha fatto retromarcia reintegrandomi nei quadri quando, a 16 anni, ho vinto in Ticino il campionato svizzero under 16, battendo in finale uno dei pupilli della Federazione, Meier, concedendo il bis a Thun l’anno dopo sempre contro di lui (per colmo di ironia, a proposito di fisico, un altro beniamino federale, Lerf, aveva perso con me in semifinale anche perché afflitto da crampi in quell’occasione!). Ciononostante, quando nel 1983, diciottenne, ho ricevuto una proposta, (dopo una assidua corte) da parte italiana e un contratto che mi prometteva il rimborso di tutte le spese che avrei sostenuto per disputare tornei internazionali per tre anni a partire dal 1.1.1984, ho ascoltato la voce del cuore e detto sì, (a quel tempo avevo tra l’altro solo passaporto italiano). La Federazione Elvetica si è mostrata molto comprensiva e non ha frapposto ostacoli. Purtroppo, nonostante tanto di contratto firmato, i famosi rimborsi non arrivavano mai. Le ragioni addette erano le più astruse: ad es. non si accettavano spese sostenute con la carta di credito, (come se si fosse potuto pensare di effettuare viaggi intercontinentali di 4/5 settimane con soli contanti) o per l’uso del taxi… Dopo tre anni, grazie ai miei genitori e al loro sostegno finanziario, ero 100 del mondo: quello era il momento in cui fare il definitivo salto di qualità, anche perché avevo finalmente accesso diretto ai tornei che contano (equivalenti, per intenderci, agli atp 250 o 500 di oggi)! Ricevetti tuttavia dalla Federazione italiana una convocazione per la Coppa De Galea, una sorta di Coppa Davis con limite di età. Dato anche il danno che ne avrei subito, (avrei dovuto rinunciare a 2/3 tornei), chiesi come sola condizione per partecipare di avere rimborsate preventivamente le spese arretrate che secondo contratto dovevano venire rifuse. Di fronte al diniego della Federazione rifiutai di partecipare alla de Galea e da quel momento fui emarginato. Ricordo una Davis a Palermo alla quale avrei benissimo potuto essere convocato per diritto di classifica e per la quale mi vennero preferiti giocatori con credenziali e ranking molto minori. Tutto questo spiega perché, dal gennaio 1987, sono tornato ad essere un giocatore svizzero. La ritrovata tranquillità, il sostegno che sentivo alle mie spalle da famiglia e Federazione sono stati alla base del mio successo: in poco tempo sono diventato numero 26 al mondo.”
Il tennis dei tuoi tempi era il tennis di Gilbert e di Forget, di Muster e di Chesnokov, di John McEnroe, con cui hai perso al terzo a Roma, di Ivanisevic, Rosset ed Edberg, Noah ecc. tutti giocatori da te incontrati, con forti quanto diverse personalità. Cosa ricordi di alcuni di loro e dell’ambiente in generale, anche in confronto al mondo del tennis internazionale odierno?
“Occorre dire che da quando l’Atp è in mano a giocatori o ex-giocatori professionisti, (purtroppo proprio da quando io ho smesso di giocare) il circuito ne ha beneficiato moltissimo, sia da un punto di vista economico, sia anche sotto il profilo dell’immagine. A quest’ultimo livello, basti pensare al bene che fanno al tennis personaggi, per esempio, come quello di Federer, di Djokovic, di Nadal: ragazzi di altissimo livello competitivo, ma soprattutto rispettosi degli altri, educati e disponibili. Nulla a che vedere con le arroganti star che calcavano le scene ai miei tempi: a parte Mc Enroe, il cui modo di fare era chiaramente percepibile anche dall’esterno, ho ricordi vividamente negativi di Sampras (che pareva tanto buono, N.D.R.), Agassi, Muster, ecc. Le eccezioni (Courier, Edberg, Ivanisevic) erano poche. I miei amici erano naturalmente diversi giocatori italiani e italofoni: Camporese, Canè, Cancellotti, Colombo, Claudio Panatta, Bottazzi, ecc…”
Parlaci della tua esperienza di capitano di Coppa Davis per la Svizzera. La giudichi positiva? La Svizzera ha ottenuto eccellenti risultati con te come capitano. Come mai è terminata?
“Essere stato capitano di Coppa Davis per la Svizzera, oltre che un onore, è stata una delle esperienze più gratificanti e formative della mia vita, a cominciare dal modo in cui è maturata e anche se è durata una sola stagione. Nel 1999 sono stato chiamato direttamente dai giocatori svizzeri (a quel tempo Heuberger, Manta, Rosset e un Federer diciassettenne) per ricoprire il ruolo di Capitano non giocatore al posto dell’uscente Oberer. Quando ti arriva un segnale di fiducia così importante, non puoi dire di no e io non me lo feci dire due volte. Ebbi così modo di seguire i primi passi internazionali di Federer, (ricordo un Challenger a Grenoble), che appariva un predestinato. Per uno strano destino, il primo incontro fu con l’Italia e vincemmo. Il mio destino – lo capii quasi subito – era però segnato sin dal primo momento: Hlasek era già pronto a prendere il mio posto. Non avevo fatto infatti i conti con la Federazione Svizzera, per la quale era impensabile che ad occupare quel posto vi fosse qualcuno che non era dipendente della Federazione stessa o quanto meno non fosse germanofono. C’erano poi altre ragioni: in particolare il mio modo (estensivo) di interpretare il ruolo, assumendomi altre responsabilità quali partecipare alla riunione che radunava allora una volta all’anno i Capitani di Coppa Davis con l’intento di ridiscutere le regole del gioco e cercare di occuparmi anche dei giocatori del futuro. La sconfitta con il Belgio susseguente alla vittoria con l’Italia fu il pretesto che cercavano per esonerarmi e sostituirmi. Io capisco certi aspetti “politici”, ma recrimino ancor oggi sul fatto che tutto si sia svolto alle mie spalle.”
Come capitano di Coppa Davis hai avuto come giocatore Federer e con lui hai tuttora un eccellente rapporto. Puoi descrivercelo come persona? Come vedi il suo futuro come giocatore, ora che è vicino ai 30, ha “messo su” famiglia e soprattutto dopo averlo visto e commentato (per la tv ticinese) agli Australian Open?
“Effettivamente con Roger ho un rapporto speciale. Ancora oggi, quando ci vediamo e vado a stringergli la mano, mi abbraccia più volte, con la spontaneità che gli è tipica e che non ha perso, anche adesso che “è diventato un uomo” e nonostante la sua vita sia ormai simile a quella del Presidente degli Stati Uniti, (la gente non si rende conto di come sia “strutturata” l’esistenza di un personaggio che ha raggiunto quei livelli). Il nostro rapporto nasce da quando lui aveva 17 anni e io neo Capitano di Coppa Davis. Federer, astro nascente, era già un personaggio, con le caratteristiche che ha mantenuto nel tempo: una grande sincerità, dote molto rara, una buona educazione, ma anche una propensione birichina allo scherzo, a sondare i tuoi limiti nell’accettare la sua natura di giocherellone. Molti erano già in soggezione di fronte a lui, nonostante fosse così giovane, o forse a disagio perché la sua tendenza a combinare scherzetti, a portare il rapporto sul piano del gioco non è particolarmente diffusa nell’indole elvetica: ebbene, come faceva un po’ con tutti, lui ha subito voluto saggiare di che pasta ero fatto. Dopo aver sperimentato una certa mia fermezza a riguardo è nato fra noi, oltre a un grande rispetto reciproco, anche un profondo sentimento di umana comprensione. L’ho trovato disponibile e desideroso di imparare, non dando per scontato di essere un fenomeno cui nulla si può insegnare, ma lavorando su alcuni difetti, (il lancio di palla per il servizio, piuttosto che l’atteggiamento in campo, molto capriccioso e scomposto). In seguito, mi ha fatto estremo piacere che ricorresse abbastanza regolarmente a me sia nei suoi momenti più difficili, come per esempio dopo la morte del suo primo allenatore Carter, sia per consigli tecnici, sia persino per alcuni aspetti della sua vita privata. A prescindere dalle sue immense doti tecniche naturali, la sua arma in più è la gioia per quello che fa, per il mestiere di giocare a tennis. Per capire com’è questo ragazzo vorrei raccontare della prima volta che giocò in Davis con la Svizzera, (contro l’Italia e batté Sanguinetti). Era per lui (diciassettenne!) la prima volta in Davis, la prima volta “best of five”, la prima volta davanti a un pubblico di migliaia di persone. Chiunque si sarebbe quanto meno inizialmente paralizzato dall’emozione. Non Roger. Era completamente rilassato. Godeva pienamente delle incredibili sensazioni che una situazione a lui sconosciuta gli regalava. Ripeteva: “ah! Questo è quello che si prova!”. Insomma, mai gestione di un atleta dalla panchina mi è risultata più facile. Come giocatore oggi è ancora pienamente motivato. Per il tennis e soprattutto per le emozioni che regala, nutre ancora una profonda passione e quindi non prevedo che smetta molto presto. Per quanto ne so vuole giocare le Olimpiadi di Londra 2012, non tanto perché abbia sete di vincerle (è l’unico grande successo che manca al suo palmarès), ma forse soprattutto per riprovare la grande emozione di partecipare ai Giochi Olimpici. Se devo scommettere sul momento in cui smetterà dico che sarà quando le sue bambine inizieranno la scuola, perché a quel punto non potranno girare con lui e lui non vorrà stare così tanto lontano da loro. Io al momento lo vedo pienamente in grado non solo di competere, ma di vincere tornei del Grande Slam. L’unica maniera di batterlo è riuscire a tenere il suo ritmo e l’avvento nel circuito di grandissimi ribattitori, stradotati fisicamente, come Murray, Nadal ovviamente e lo stesso Djokovic lo espone a rischi maggiori che in passato; cionondimeno oggi colpisce di nuovo la palla come quando era giovane, in quel suo modo unico, che lo rende a tratti inarrivabile. Merito anche del suo coach Annacone: ancora una volta, la prova che Federer deve “sentire” le cose. Annacone ha trovato la chiave per fargli percepire cose che forse in tanti- allenatori e non (me compreso), – già gli hanno detto, riportandolo, a differenza dei predecessori, a riscoprire il suo tennis dopo una periodo in cui il suo gioco si era fatto meno aggressivo.”
Qual è il match (giocato o visto giocare come capitano di Davis) che ricordi con più emozione?
“Se devo scegliere dico il torneo di Ginevra, l’unico torneo di prima fascia che ho vinto. A parte la grande impresa di essere profeta in patria, per una volta, ricordo il torneo come un’impresa difficile (vittorie su giocatori come Nystrom, svedese, e il cecoslovacco Smid), e con qualche momento “eroico” come la vittoria in 3h e 45minuti contro un altro svedese, Stenlund.”
Cosa è cambiato nel tennis di oggi rispetto a quello che hai vissuto, sia dal punto di vista ambientale, sia da quello tecnico?
“È facile parlare sia dell’aspetto fisico che, genericamente, dei materiali. Vorrei però sottolineare in particolare l’importanza che hanno i nuovi telai nel dettare i ritmi e la tecnica di gioco. Sono loro che hanno prodotto, a mio avviso, la vera rivoluzione.”
Hai un’avviata attivita’, sei fondatore commentatore televisivo per la RSI, (molto competente e “centrato”, n.d.r.) e potenzialmente sempre convocabile come Capitano di Davis. Quale di queste attività ti appassiona di più e vorresti rendere prevalente sulle altre?
“Sono sincero: quella che non ho in questo momento. Essere Capitano di Davis è un ruolo che mi manca molto e che sento a me particolarmente congeniale. Mi piacerebbe senz’altro poter ripetere l’esperienza.”
C’è qualcosa che ti piacerebbe si facesse nell’ambito del tennis agonistico di alto livello?
“Avviare privatamente un progetto è praticamente impossibile senza uno sponsor disposto a mettere in gioco molte risorse; inoltre è difficile pensare di combinare qualsiasi investimento con una decente produttività. Non restano che le Federazioni. La Svizzera ha forse dato la giusta impostazione, con un adeguato decentramento. La formula è giusta e gli uomini di campo validi; forse i dirigenti non hanno la necessaria conoscenza del tennis. L’Italia potrebbe fare lo stesso, a mio avviso. Mi preme sottolineare che il decentramento non basta. Una volta identificati i punti decentrati, (in Svizzera le chiamano Partnerakademien), occorre qualcuno che ne controlli sistematicamente l’attività e i progressi, per esempio spendendo una settimana in ciascun centro e verificando la crescita dei giovani su cui la Federazione punta. Non credo ad una eccessiva rigidità di metodo, infine, poiché come tutti sanno ogni tennista è “individuo”, quindi unico, ma certamente vanno anche definiti dei parametri cui l’attività, l’organizzazione e la struttura dei punti decentrati deve rigorosamente attenersi.”
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