Marina Crescenti è stata una giocatrice di alto livello nel settore giovanile, ma il tennis, per quanto amatissimo, è stato ed è solo una delle sue molteplici attività. Laureata in Economia – per diversi anni è stata ricercatrice universitaria – attualmente si dedica a tempo pieno, compatibilmente con il suo ruolo di mamma, alla letteratura, in particolare alla scrittura di thriller, la cui estetica risente della tradizione cinematografica italiana del giallo e del poliziesco degli anni settanta. Oggi, i suoi romanzi riscuotono opinioni positive di pubblico e di critica. Chiacchieriamo un po’ con lei, per conoscere meglio il suo particolare percorso, fra tennis e scrittura.
Marina, esiste secondo te una qualche affinità tra tennis e letteratura? A me vengono in mente la solitudine, la creatività, la strategia, la sfida con sè stessi… Ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi in base alla tua esperienza.
“Solitudine, creatività, strategia, sfida con se stessi, Paolo, hai fatto centro, e aggiungo ‘ovviamente’, essendo anche tu un tennista e un letterato nell’animo, oltre che nella vita. Hai colto tutte le prepotenti emozioni che balzano fuori quando si scrive o si è in campo. Per quanto mi riguarda, ne aggiungerei solo alcune. Capacità di estraniarsi: in base alla mia esperienza, l’affinità più importante tra tennis e scrittura sta nel dovere riuscire, in entrambi i casi, a entrare in un altro mondo, chiudendo fuori a doppia mandata tutti gli altri. Il tennis mi ha insegnato che, quando hai chiuso il cancelletto, tutti i problemi restano fuori, ne va della concentrazione e della tranquillità in campo. Sofferenza (tanta): una continua lotta interiore. Esprimere se stessi (fino in fondo): all’epoca, era l’unico posto, il campo da tennis, dove mi concedevo di essere ‘io’ completamente, dove sapevo di essere accettata per quello che ero; idem per la scrittura. Fantasia: ero nota per avere un gioco molto fantasioso, che col tennis “ci sta”, trattandosi di uno sport di situazione. Non giocavo mai una palla uguale all’altra, sarei soffocata nel gorgo della noia. A volte, è stato un limite, come quando c’era bisogno di “remare” da fondo, ma ero troppo giovane, non riuscivo a farlo: una smorzata, un pallonetto, un lungolinea, una palla in diagonale e poi di nuovo una smorzata. Un omicidio, una falsa pista, dettagli che non quadrano, capovolgimenti di certezze e poi di nuovo un omicidio. Io scrivo esattamente come giocavo a tennis! Paolo, tu hai parlato di creatività e io di fantasia. Sembrerebbe una ripetizione, la mia. In realtà, credo che a volte si possa essere creativi in forme poco fantasiose. Ossia, produrre storie sempre diverse, ma con scarsa capacità di deragliare. Ecco, in questo senso, io mi considero fantasiosa nella mia creatività. Nella scrittura lascio esplodere tutte le mie emozioni, me lo ha insegnato il tennis, salvo poi in campo saperle gestirle in modo saggio: pur volendo spaccare in testa la racchetta a qualche avversaria, mi sono sempre guardata bene dal farlo. Nella scrittura, invece, non mi faccio grossi problemi: uccido! Solo provando intensamente e lasciando divampare senza limiti le proprie emozioni, si può trasmettere ciò che si ha dentro in chi ti legge. Questa, a mio parere, è l’essenza dello scrivere. Gialli o non gialli. In caso contrario, lo scritto rimarrebbe asettico come una stanza d’opedale: pulito, senza errori, funzionale allo scopo, ma freddo”.
Nel tuo caso, questi due aspetti così importanti hanno un legame di continuità o li senti come due tappe, due “set” diversi nella tua vita?
“Tennis e scrittura sono due aspetti differenti, ma di una stessa medaglia, la vita. Se devo pensarli come due “set” distinti, posso farlo solo sul piano di un diverso dosaggio e rilascio di emozioni, positive o negative che siano. Con il tennis, come suol dirsi, i fuochi d’artificio, per rispetto verso le mie avversarie (anche se in campo: mors tua vita mea!), me li sono sempre fatti dentro, anzi, a volte, quando vincevo cercavo di consolarle. O chiedevo scusa quando chiudevo un punto, pensa. Al contrario, quando scrivo, le emozioni esplodono in una miriade di colori. Ma le lascio fare. Per questo, la scrittura è da considerarsi terapeutica, mentre il tennis lo è stato solo in parte, almeno per me. Nella scrittura, perciò, non mi impongo regole, se non quelle – alla fine della narrazione – di fare collimare tutti gli indizi sparsi, come migliaia di pezzi di uno stesso puzzle che devono trovare la giusta allocazione per un risultato finale verosimile e inattaccabile. Il lettore di gialli è nel pieno diritto di conoscere la verità, non potrei mai essere così ‘cattiva’ dal lasciarlo nel dubbio. Ma con l’avversario in campo è diverso… Nel tennis, ho imparato in fretta a “spersonalizzare” le mie avversarie: troppe volte, in campo, ho dovuto essere cattiva (ma mai scorretta) con amiche del cuore”.
Sei stata forte a livello giovanile, hai anche fatto parte delle nazionali under 16 e under 18. Ci vuoi raccontare brevemente la tua storia tennistica?
“Ho cominciato a giocare contro il muro a 5 anni e non ho più smesso. Ho avuto il primo maestro a 11, avevo già vinto i Campionati Regionali under 12. Mi allenavo contro il muro anche quando ero in prima categoria. L’avevo inventato io, si chiamava “il gioco delle 1.000 palle”: 250 a colpo, lungolinea, diagonale, smash, volée, senza interruzioni. Una macchina! Sono un’artigiana della racchetta – come lo sono nella scrittura (e nella vita) – ho avuto giusto qualche dritta importante da parte di mio padre, ai tempi seconda categoria. E ho avuto la fortuna di avere un grande preparatore atletico, con il quale sono arrivata in Nazionale. Il momento più bello della mia carriera tennistica è stato in Coppa Sophia quando, con il mio incontro decisivo, ho fatto vincere la squadra italiana. Le mie compagne sono corse in campo, mi hanno presa e fatto saltare per aria due o tre volte! Mi emoziono ancora al pensiero di ciò che ho provato”.
Da ragazza sognavi di diventare una professionista? In questo caso quali sono i fattori che ti hanno poi portata su una strada diversa?
“Sognavo di vincere. I tempi erano molto diversi da adesso e, parlo per me, vivevo alla giornata: vincere qui e ora. Pensare a una carriera futura da professionista non ricordo di averlo mai fatto, anzi, credo mi facesse paura. Non è mai stato il mio obiettivo. Lo so, è strano, me ne rendo conto, ma è così anche per la scrittura. Dove mi porterà? Chi lo sa? Comunque sia, mi piace vivere in un cantuccio. Ciò che mi ha portata a smettere di giocare a tennis sono state principalmente le difficoltà che avevo in famiglia, ho sempre avuto un difficile rapporto con i miei familiari. Con mio padre ci intendevamo solo nel campo da tennis. A volte, mi sono chiesta se questo non fosse stato addirittura il primo motivo per cui giocavo: era l’unico modo per avere la sua attenzione. Più vincevo, più mi sentivo considerata e, di fatto, lo ero. Vincere, per me, era il mezzo per arrivare a ciò a cui ambivo di più a quell’età: essere amata. Ho smesso a 18 anni: chi fa sport a quei livelli deve avere intorno solo tanta tranquillità, solidarietà e solidità che ti giungono soprattutto dalla famiglia, ma erano cose che purtroppo ai tempi io non avevo”.
Senza pensarci troppo, se ripensi a quel periodo quali sono le immagini, le sensazioni, le impressioni che riemergono in te?
“La mia Yonex verde di alluminio, tanto contestata da Orlando Sirola, ma la mia determinazione di bambina undicenne ebbe la meglio! Mi ribellavo dicendo: se non gioco con la mia Yonex smetto, perchè mi sembra di non giocare a tennis! E non erano solo parole, smisi davvero per un po’, non mi divertivo più. Altra immagine, la mia gracilità (mi chiamavano “biafrana”), che contrastava con le “mine” che tiravo di dritto e con la mia resistenza fisica e mentale, praticamente infinita. E poi fatica, sacrifici, rinunce, soddisfazioni, gioie immense. Paura. Tanta paura di perdere. Quella di vincere, tanto nominata, non ho mai saputo cosa fosse. Me lo domando tuttora”.
Anche quando facevi le cose sul serio tennisticamente non hai mai smesso di studiare, credo che sia un messaggio importante da trasmettere ai ragazzi che stanno cominciando. Tu ti sei laureata e per un periodo sei anche stata ricercatrice in università, vero?
“Sì, dopo la laurea, ho fatto ricerca scientifica per 16 anni in università. Dall’asilo, si può dire che non ho mai smesso di studiare… Al contrario, quasi tutti i miei “colleghi di racchetta” avevano interrotto le scuole. Questo lo devo ai miei genitori, entrambi professori universitari. Ho preparato gli esami di stato del 5° anno di liceo sui treni, viaggiavo con i libri, sempre. I miei insegnanti erano prevenuti – oggi, per fortuna, la realtà è un po’ cambiata – e anziché capire che rispetto ai miei compagni di classe mi facevo un “mazzo doppio”, al contrario, mi castigavano: dicevano che il tennis mi distraeva dallo studio. Per prendere la sufficienza, io dovevo sudare sette camicie. Anche per questo, per me, coordinare il tutto non è stato semplice. Ma ce l’ho fatta ugualmente, sono arrivata tra le prime in Europa: questo è il messaggio che vorrei trasmettere ai ragazzi che si stanno avvicinando a questo sport, che definirei poliedrico. Scorciatoie, facilitazioni, non vanno a braccetto con un meritato successo. Mai. Sudore e costanza, giorno dopo giorno, ragazzi, questa è la ricetta. L’unica”.
Non so se chiederti “quando hai cominciato a scrivere” perché chi ama farlo forse non è neanche cosciente di un inizio in questo senso, ma ti posso chiedere quando e come hai pubblicato il tuo primo libro, cui ne sono seguiti un lunga serie.
“No, Paolo, il periodo di inizio lo identifico molto bene: era il 2004. Anche se, come dici bene tu, scrittori si è nell’animo (non certo per il numero di pubblicazioni). Difatti, mi è sempre piaciuto scrivere e quando mi sono sentita libera di poterlo fare, bè, l’ho fatto. Lasciandomi guidare dall’altra mia grande passione: il cinema italiano dei gialli e dei polizieschi anni ’70 e ’80. Ho pubblicato il mio primo romanzo poco dopo averne terminato la stesura. Non ho fatto la “gavetta”, a cui purtroppo è costretta la maggior parte degli scrittori, anche talentuosi. Sono stata fortunata: il direttore editoriale giusto al momento giusto, che mi ha risposto quasi subito. E da lì è cominciato tutto”.
Nei tuoi libri sono molto presenti l’estetica e l’atmosfera dei film polizieschi italiani degli anni ‘70, tra l’altro hai anche scritto recentemente la biografia di un attore emblematico come Luc Merenda (Una vita a briglia sciolta, NdR), ma sono numerosi anche i riferimenti musicali, soprattutto in Joy, una giallo che è anche un omaggio al gruppo post-punk Joy Division. In sostanza è molto presente il tuo vissuto, ed è un vissuto molto passionale…
“Il mio vissuto ha molto a che fare con l’immaginazione, non a caso sono cresciuta “a pane e polizieschi”, e tennis, naturalmente! Ma anche con le forti emozioni che un certo tipo di musica mi ha sempre suscitato. Straripa di quelle immagini ed emozioni che riporto sul testo dopo averle metabolizzate e fatte mie: quando scrivo una “scena”, non faccio che riportare sul foglio ciò che vedono gli occhi della mia mente. A partire dagli indumenti che indossano i miei personaggi, dalla loro personalità e così via. Certamente, nel plasmarsi del mio vissuto, c’è di mezzo lo zampino di un’infanzia che ho percepito molto triste e in balia dell’abbandono. La mia cultura in fatto di generi – dalla quale dipende tutto il mio immaginario – è stata cinematografica, molto prima che letteraria. Tutto sommato, mi definisco una sognatrice con i piedi per terra. Se questo è possibile…”.
Quando ho letto 4 Demoni per il commissario Narducci, il tuo primo giallo, è stata per me una sorpresa continua, perché abbondano i riferimenti, più o meno subliminali, al mondo del tennis. È come un gioco di complicità, quasi volessi fare l’occhiolino a un tuo ipotetico lettore che di tennis ne mastichi un po’. Oltre al nome del commissario, poi presente in altri romanzi e che tra l’altro ha anche una figlia che gioca a tennis, hai anche “ammazzato” Alberto Tous, nel senso che hai dato il suo nome a un giovane giocatore vittima di un brutale omicidio…
“Mentre scrivevo 4 Demoni, ovvero, dopo più di 20 anni che non bazzicavo nel mondo del mio tennis, ero convinta di non possederne più traccia. Invece, ho scoperto con mio grandissimo stupore che quel mondo era ancora vivo e vegeto dentro di me. Al punto da chiamare quasi tutti i personaggi con un cognome dei miei compagni di tennis di allora. Non solo, il mio primo omicidio di penna è stato “girato” negli spogliatoi del Tennis Club Ambrosiano di Milano. Mentre il povero Tous si faceva tranquillamente la doccia! 4 Demoni è stato il primo passo (inconsapevole) verso la mia riappacificazione con il tennis. Caro Signor Tennis, ieri mi hai tolto la vita, oggi me la restituisci”.
Attualmente qual è il tuo rapporto con il tennis? Giochi ancora, e lo fai a livello agonistico? Sei anche istruttrice, se non sbaglio.
“Oggi, il tennis è l’altra mia grande passione, sicuramente, tiene testa al giallo e alla scrittura. Gioco perchè mi piace, ma non faccio tornei… ho già dato! Solo qualche doppio negli incontri a squadre. Sono istruttrice, insegno ai bambini e ai più grandicelli. Adoro trasmettere loro quello che questo sport mi ha insegnato; amo vederli migliorare e diventare più sicuri, dentro e fuori dal campo, anche grazie a me. A “lui” ho dato tutta me stessa, ma ho ricevuto anche tanto, e voglio metterlo a disposizione dei miei piccoli grandi allievi”.
Come ti sembra il tennis di oggi? C’è qualcosa che rimpiangi del gioco degli anni ‘80?
“Il tennis è cambiato moltissimo, soprattutto nella tecnica. Si è alzato notevolmente il livello di gioco, grazie anche a una maggiore potenza fisica. Ciò che rimpiango rispetto a quando giocavo, è qualcosa che il tennis oggi fa fatica a insegnare ai più giovani: l’umiltà. Ma non è colpa sua. Credo che i genitori di adesso siano molto diversi da quelli di ieri, che se buttavi la racchetta per terra entravano in campo e te le suonavano!”.
Grazie Marina, spero che i lettori di Spaziotennis che non ti conoscono ancora come scrittrice siano incuriositi da questa intervista e lo inizino a fare (https://www.facebook.com/marina.crescenti) Quale tuo libro consiglieresti per iniziare l’avventura?
“4 Demoni per il commissario Narducci, soprattutto perchè si tratta di tennisti…”.
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