Intervista di Gianfilippo Maiga
«Con una racchetta in mano, sognavo un mondo migliore»
A Bellinzona gioca, nella serie A delle “Ladies” (le Veterane in Svizzera), una certa Monica Cerutti. Una totale sconosciuta, si direbbe. Un po’ meno, se si osserva che il suo nome completo è Monica Cerutti Giorgi. Ancor più se è vero che Gianni Clerici, in occasione della recente esplosione di Camila Giorgi, ha richiamato alla nostra memoria di aficionados non più giovanissimi una sua omonima, di cui avrebbe decantato la mostruosa bravura a rete. È così, mosso da curiosità, che ho scovato in Ticino Monica Giorgi, vincitrice tra gli anni 60 e gli anni 70 di non meno di 10 titoli italiani assoluti di doppio e fra le migliori giocatrici italiane di quell’epoca. È così che ho trovato una storia da raccontare.
Monica, qual è stato il tuo percorso agonistico?
Al tennis a Livorno, città in cui sono nata nel 1946, mi ha portato una famiglia benestante (era quasi inevitabile a quei tempi) e due sorelle gemelle maggiori (di 6 anni più vecchie), le tenniste che mi hanno erudito. Sono stata soprattutto una doppista. Giocavo bene anche in singolo, ma sono piccola e leggera e volare in campo, come a volte facevo letteralmente, non bastava neanche allora, pur in un tennis più tecnico e meno fisico di quello di oggi. Ho avuto ottimi risultati in singolo fino a che mi confrontavo con le junior (ho vinto la Porro Lambertenghi under 14 nel 1960, gli assoluti junior a 16, 17 e 18 anni e il torneo di Montecarlo under 21, allora importante a livello giovanile), ma poi, con la crescita fisica dell’età adulta, ho subito la differenza di “stazza” con le altre. In doppio era tutt’altro affare. Lì mi sentivo a casa e facevo cose che pochissime altre donne osavano fare: intervenivo per esempio continuamente a rete, “tagliando” il campo e non limitandomi ad attendere staticamente di poter giocare una volée. Smashavo spesso e volentieri; non avevo la potenza di un uomo, ma tecnicamente non avevo niente da invidiare ai maschi. In doppio ho vinto una decina di titoli italiani tra doppio femminile e doppio misto, ma anche in singolare mi sono cavata qualche soddisfazione, e non solo a livello nazionale. Ho giocato quasi tutti i Tornei del Grande Slam, senza passare dalle qualificazioni, ad eccezione dell’Australian Open. Al Roland Garros sono arrivata al terzo turno (gli ottavi) nel 1969. Ho poi raggiunto la finale di doppio a Montecarlo con Graziella Perna e a Roma con Maria Nasuelli. Ho infine anche disputato le Universiadi di Tokyo, nel 1967, riportando 2 argenti (con Maioli nel misto e la Nasuelli nel doppio femminile) e un bronzo in singolare: le Universiadi a quel tempo potevano sembrare in apparenza un po’ elitarie, ma non lo erano poi così tanto, se si considera che in pratica vi partecipavano tutte le atlete dell’est, universitarie “d’obbligo”.
Com’era il tennis di allora, dal punto di vista dell’ambiente e dei personaggi che lo popolavano? Com’eri tu in quell’ambiente?
Devo premettere che ho un carattere solare, che mi ha permesso di avere buoni rapporti con tutti. Nel tennis c’erano però due anime: quella sportiva, con una forte competizione e, perchè no, rivalità, sul campo, che era quella nella quale mi riconoscevo, cui sentivo di appartenere e quella mondana, un po’ un portata dall’estrazione sociale abbastanza alta da cui proveniva una buona parte dei giocatori, che ritenevo invece fatua e da cui rifuggivo. Ritenevo la prima quella più autentica, anche se a volte ruvida e senza l’asettico fair play che oggi caratterizza gli incontri professionistici. La seconda invece mi vedeva regolarmente assente: non ho mai partecipato alla festa dei giocatori, di Wimbledon, per esempio. Questo lato più frivolo obbligava spesso gli atleti a mostrare un volto che non era necessariamente il loro: se Nicola Pietrangeli era perfettamente a suo agio in quell’ambiente, era come si mostrava, charmeur calato nella sua parte, Lea Pericoli sapeva nascondere dietro alcuni atteggiamenti glamour un senso dell’ironia, anzi direi soprattutto una grande autoironia, che me la faceva sentire particolarmente amica. Poi, intendiamoci, era bello anche per me approfittare delle raffinatezze e degli agi che ti consentiva lo status di ammessa per esempio a un torneo così importante come Wimbledon. Ancor più che le 800 sterline di appannaggio per chi giocava il primo turno (non male davvero in ogni caso), o gli spogliatoi raffinati, anche se divisi in tre livelli a seconda della tua bravura (!), faceva sinceramente piacere essere ospitati gratuitamente in alberghi fantastici e scoprire che la “transportation” veniva effettuata in Rolls Royce! Io mi consideravo diversa, comunque. Insomma, più che ribelle, direi che sfuggivo – anzi, andavo contro – ai clichés. Allora le donne dovevano vestire rigorosamente in gonnellino: e io usavo degli scandalosi pantaloncini, altro che le mutandine di pizzo! Le donne giocavano da fondo campo, senza avventurarsi oltre la riga del servizio: e io giocavo serve and volley, rara avis nel circuito, insieme a Maria Bueno e a pochissime altre. Non ho citato Bueno per caso: Maria Esterita Bueno era per me un esempio da imitare e con le dovute, incolmabili differenze, l’ho considerata l’icona di un tennis femminile a cui adeguarmi. Quanto al mio gioco, voglia di anticonformismo a parte, io mi sono formata e allenata con gli uomini che a rete andavano e come… penso a Giuliano Fanfani, un giocatore livornese degli anni 50-60 divenuto prima categoria, il cui gesto nell’eseguire la volée mi si è impresso nella mente. L’attacco a rete è stato per me una maniera di difendermi dalla pressione di un gioco pesante da fondo, insomma contrattaccavo sfruttando la mia velocità e appoggiandomi sulla forza della palla avversaria: l’imprevista discesa a rete disorientava e rompeva la linearità dello schema di gioco. Inoltre se il gioco dell’avversaria non riusciva a pressarmi più di tanto era davvero difficile farmi punto perché ero regolare, mi muovevo bene e correvo su tutte le palle intuendole con anticipo. Quanto alla linea della “diversità”, anche in termini di fair play non ero la prima della fila e, a volte, facevo un po’ il “maschiaccio”. Naturalmente, tutto questo aveva un prezzo. La Federazione mi convocava solo se non poteva proprio farne a meno e io comunque una convocazione dovevo meritarla due volte… Io non sopporto le ingiustizie e nella vita le mie scelte morali e ideologiche hanno avuto questo aspetto ben chiaro e in prima linea. L’atteggiamento delle Federazione, che ritenevo ingiusto e lesivo nei miei confronti, proprio non mi andava giù. A mio modo, in un’occasione intesi fargliela pagare: ero in semifinale con Lea Pericoli nei campionati italiani, credo nel 1975, e conducevo 5-3, 30-15 su mio servizio al terzo, quando mi ritirai. Nessun infortunio: era stato solo un gesto dimostrativo verso chi secondo me non riconosceva appieno i miei meriti. Il tennis di allora era comunque profondamente diverso dall’attuale. Ho già detto che a Parigi ho raggiunto gli ottavi. Ho omesso di dire che non li giocai (contro Billy Jean King) per ritiro. Non disputai quella partita perchè ero in permesso dalla scuola SAT di Livorno dove lavoravo come preparatrice atletica e avevo promesso che sarei rientrata per il saggio finale della scuola. A Parigi dissi che mia madre stava poco bene e dovevo rientrare: ve l’immaginate oggi?
Quanto questo tuo atteggiamento anticonformista, questa tua “diversità”, ha avuto impatto sulla tua carriera?
Molto e sotto almeno due aspetti. Uno sportivo, del quale vorrei ricordare una pagina emblematica. Ho avuto modo, nonostante quello che ho detto prima sui rapporti con la Federazione, di disputare più volte la Federation Cup, (la Fed Cup di oggi, n.d.r.). Una volta giocai a Johannesburg, in Sudafrica, con Maria Nasuelli. A dispetto del fatto che per la prima volta in un torneo che precedeva la Federation Cup fossero stati ammessi atleti di colore, (ricordo nell’occasione Arthur Ashe e Evonne Goolagong), l’Apartheid, che faceva orrore al mio modo di pensare, era di fatto ancora pienamente in essere. In un mercatino avevo trovato una provocatoria maglietta con due piedi bianchi e due neri sovrapposti nella posizione di due che fanno l’amore e la indossai per l’incontro. Allo stadio, tolto un settore destinato ai neri, gli spettatori erano in larga prevalenza bianchi e sollevarono un forte brusio quando mi videro. Al mio ritorno, a seguito di un esposto della Federazione Sudafricana, venni squalificata dalla Federazione italiana e non potei disputare tornei internazionali per un po’. Un altro aspetto decisivo è che a un certo punto ho cominciato ad attribuire più importanza ad altre cose. Il senso della giustizia, l’antipatia per il conformismo e l’autoritarismo e soprattutto il modo che il mondo aveva di intendere le donne hanno fatto di me un’anarchica in senso letterale. Mi ero avvicinata al mondo anarchico, dove ho anche conosciuto il mio futuro marito, un mondo totalmente anti violenza nel quale più che militanza politica conducevo militanza culturale. Ho costituito un collettivo (“Niente più sbarre”) che aveva al centro la questione delle condizioni dei detenuti, di cui molti allora erano politicamente schierati. Questo impegno mi ha assorbito sempre di più e in particolare il desiderio, vorrei dire la rabbia, che a volte mi ha fatto prendere posizioni molto radicali, che dall’Autorità venisse fatta di ogni erba un fascio, che per esempio i fascisti venissero confusi con gli anarchici e che questi ultimi, che in realtà professavano la non violenza, venissero tacciati di terrorismo. Ho pagato un prezzo molto caro per questa mia posizione, ma oggi posso dire di essere stata coerente con me stessa, unendo impegno culturale e tennis, in modo che le due cose mi completassero, senza entrare in conflitto. Vorrei dire infine che il mio modo di pormi non mi ha sempre solo giocato contro. Oltre ai buoni rapporti che avevo con gli altri giocatori, ho vissuto la mia esperienza più esaltante alle Universiadi di Tokyo. Sarà stato per la mia statura un po’ “giapponese”, sarà stato per il mio impegno guerriero, sarà stato per il mio carattere estroverso, fatto sta che ero sui quotidiani e in televisione tutti i giorni, godendo di una popolarità che non ho assaporato in nessun’altra occasione.
Hai detto che il tuo impegno ti è costato caro. Cosa è successo?
Nel 1978, in pieno periodo di “pentitismo”, era stato messo in atto un tentativo di sequestro di un amico, mio e di famiglia, Tito Neri. In apparenza responsabili del crimine erano dei sedicenti anarchici. Un “pentito” (un delinquente comune) mi aveva indicato come basista del sequestro e, sebbene io non conoscessi gli autori materiali, in 1° grado ero stata condannata a 10 anni. In un secondo grado di giudizio, dopo due anni, venni completamente prosciolta e scarcerata, anche perchè il pentito non si era rivelato credibile. Questo dà però l’idea del clima che si respirava a quesl tempo. Io sono rimasta me stessa e non ho rinunciato ad una vita semplice, e al tennis, per una carriera nelle istituzioni, per esempio. Mi sono sposata e ho seguito mio marito, Ticinese, quando ha terminato l’università in Italia ed ha fatto ritorno definitivo in patria. Qui, laureata in filosofia, ho insegnato storia e filosofia al liceo e qui vivo anche ora che sono separata. Qui, soprattutto, non ho mai smesso di fare la cosa che mi piace di più al mondo: giocare, o meglio come dicono gli inglesi “to play”; nel senso di impugnare ancora una racchetta da tennis, naturalmente, ma anche di interpretare ogni aspetto della vita, intrigarmi nel mondo, insomma.
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