Per la serie “Campioni da non dimenticare“, il nostro sempre abile Gianfilippo Maiga ha intervistato Marzia Grossi.
di Gianfilippo Maiga
Chi si ricorda di Marzia Grossi? Di lei non si parla molto, né molto si è parlato forse nel suo momento di massimo splendore. E sì che ci sarebbe stato parecchio da dire e non solo per la sua (a parer mio) notevole avvenenza. Un best ranking di 68 WTA, a 22/23 anni, rimarchevole (secondo me chi arriva nei primi 100 è senz’altro un grande campione), ma non tale da destare scalpore, si direbbe. Il punto è che tutto il meglio Marzia l’ha dato da subito, in una carriera folgorante anche per la rapidità con cui è finita, a soli 25 anni. Un vero e proprio astro nascente a 20 anni, ma una stella rapidamente spentasi: insomma, una grande Incompiuta. Perché? L’ho “scovata” a Firenze e gliel’ho chiesto.
Marzia, ricominciamo da capo. Qual è la tua storia personale e tennistica?
Ho iniziato a 8 anni e certo le premesse non erano tali da lasciar pensare che il tennis sarebbe stato la mia vita. Mio padre, che professionalmente faceva tutt’altro e non era neppure stato giocatore, era appassionatissimo di tennis e all’inizio si era improvvisato anche mio allenatore. Ricordo che andavo a giocare un paio di volte la settimana e che la domenica papà portava me e mio fratello sul campo con un cesto di palline. Il tennis mi piaceva e avevo una buona predisposizione: certo però che, quando da under 12 mi confrontavo con le mie coetanee ero un po’ indietro,(non ho disputato neppure la Porro Lambertenghi), ma ho ben presto recuperato il ritardo, non appena ho potuto allenarmi con una maggiore sistematicità al Match Ball di Firenze, il circolo dove sono cresciuta tennisticamente. Ho vinto il campionato italiano under 16. Mi hanno dato una WC per il torneo di Arezzo (un 10,000) e l’ho vinto. Poi, grazie ad uno “special exempt”, ho giocato anche il successivo 25,000, accedendo direttamente al tabellone principale e giungendo fino ai quarti, dove me la sono giocata fino in fondo con una certa Mary Pierce (ho perso 75 75!). A 20 anni mi sono trasferita a Torino (Sporting Club) dove mi seguiva Vittorio Crotta, che mi allenava, ma – anche per i suoi incarichi a livello provinciale – non poteva seguirmi nei tornei, dove, molto raramente peraltro, al massimo veniva il preparatore atletico De Palo; più spesso giravo con mia madre. Il passaggio a Torino, in una dimensione più professionale (lavoravo 8 ore al giorno), mi ha permesso rapidamente di conseguire risultati più importanti. A 21 anni ho vinto il WTA di San Marino; successivamente ho raggiunto il terzo turno al Roland Garros, (il mio miglior risultato in un Grande Slam) e subito dopo ho vinto un 25,000. Ho vinto anche la Coppa Europa con Cecchini, Grande e Farina, capitano Panatta. Raggiunta una posizione interessante nel ranking mondiale, (ero anche prime 80 in doppio) molti fattori hanno cominciato a farmi perdere via via motivazioni: problemi alle ginocchia, che ho dovuto operare, un po’ di usura psicologica avendo cominciato molto – forse troppo – presto a girare e a fare risultato e – da ultimo – un incontro fatale, con l’uomo che avrei sposato (e da cui avrei rapidissimamente divorziato dopo un solo anno di matrimonio), e che non era per nulla contento di vedermi girare il mondo per giocare a tennis. Ho anche un po’ pasticciato, tornando per un mese in Toscana (Forte dei Marmi) ad allenarmi, salvo ritornare sui miei passi.
Nata a cavallo fra la Golarsa e la Cecchini e la Garrone da una parte e la Farina dall’altra, tanto per fare dei nomi, qual era il tuo rapporto con loro e con il mondo del tennis italiano? Eri fuori dal giro della Nazionale?
Il mio rapporto con le mie colleghe italiane è sempre stato buono, forse anche per un mio carattere socievole e disponibile. Allora il panorama italiano, come d’altronde quello internazionale, era popolato di buonissime giocatrici: oltre ai nomi già detti, ricordo anche Perfetti, Lapi e Caverzasio. Con alcune di loro mi capita ogni tanto di sentirmi, anche se ci si incontra raramente perché giro poco per tornei e in questo devo dire grazie anche a Facebook. Laura Golarsa tra tutte è sempre stata di molto aiuto per me, che non parlavo l’inglese, quando giravo per tornei internazionali. Sandra Cecchini, che mi era capitato di battere nel torneo di San Marino, rimase a vedere la finale contro Barbara Schett, 29 WTA, segno che fra noi prevaleva un sentimento di solidarietà e colleganza alla rabbia sportiva di una sconfitta. Come ho già detto, ho disputato la Coppa Europa; vanto però anche presenze in Fed Cup: non ero quindi fuori dal giro della Nazionale, anche se dalla federazione non ho avuto mai alcun aiuto economico, salvo qualche gettone di presenza in quelle occasioni. Se devo recriminare su qualcosa, è sul trattamento che la stampa mi riservava. Tommasi, nel raccontare di una mia vittoria a Roma contro Brenda Schultz, 40 WTA, alluse al successo della “figlia del macellaio” contro una donnona olandese, minimizzando tutto sommato il valore della mia vittoria (e della mia avversaria, che aveva invece un eccellente ranking mondiale) e facendo invece un riferimento davvero poco elegante al mestiere di mio padre. Ho pagato a caro prezzo il mio nervosismo di un momento con Ubaldo Scanagatta. Si era agli Australian Open: perdo al terzo turno di quali contro la Sugiyama, sprecando 6 (dico 6) match point a mio favore: e pensare che se mi fossi qualificata avrei incontrato Steffi Graf, il mio idolo di sempre! Fuori dal campo ho risposto un po’ bruscamente a Scanagatta, comprensibilmente aggiungerei, visto che a caldo, appena fuori dal campo, mi aveva chiesto”come mai?” avessi perso così. Il giorno dopo accennava a me come ad una scaricatrice di porto, ponendo in secondo piano gli aspetti sportivi…
Cosa racconti del mondo del tennis internazionale di quel periodo? Confronta il tennis femminile dei tuoi anni con l’attuale, sia sotto il profilo tecnico, sia a livello strutturale, sia infine da un punto di vista ambientale.
Tra me e le tenniste di altri Paesi c’era da subito una grande barriera: parlavo solo l’italiano. Spesso, quindi, erano grandi saluti e sorrisi, ma poche conversazioni. Nonostante questo, era possibile percepire chi avevi di fronte: Arantxa Sanchez era certamente una simpaticona, quanto Steffi Graf, pur gentile, era riservata. Fraternizzavo più facilmente con le brasiliane, delle cordialone e con le argentine, tra cui ricordo con piacere Bettina Fulco e Patricia Tarabini. Di Marie Pierce, una ragazza un po’ tesa, con un padre caratteriale e problematico (a Palermo furono chiamati i Carabinieri per allontanarlo dal torneo), ricordo gli interminabili minuti che passava in bagno a truccarsi. Devo però dire che, anche se sul campo mi facevo valere, guardavo a quelle ragazze come a dei miti: pensate d’altronde che a Wimbledon le top 10 avevano lo spogliatoio per conto loro! A parte questo, sono convinta che, quanto a presenza di talenti, di giocatrici di punta, il tennis femminile di oggi sia più povero rispetto al passato. Oggi il livello medio delle top 100 è forse più elevato che in passato dal punto di vista professionale e atletico e le differenze appaiono livellate: la 1 può perdere con la 50. Questo una volta sarebbe stato difficilmente possibile, a mio avviso, dato che si avvertiva addirittura una grande distanza fra la 1 e la 10. Se è vero che, come dicevo, il livello medio delle giocatrici è più alto, è altrettanto vero secondo me che mancano le vere punte nelle nuove generazioni: inoltre, tutte le protagoniste tendono a giocare un po’ allo stesso modo, annullandosi a vicenda, mentre la tua partita cambiava completamente a seconda che ti trovassi di fronte l’una o l’altra dei fenomeni di allora, tutte con caratteristiche marcate quanto personali. Correndo il rischio di essere impopolare, esprimo il dubbio che la Stosur o Francesca Schiavone avrebbero potuto vincere un torneo del Grande Slam a quei tempi. Non parliamo poi del livello attuale dei tornei di fascia più bassa. Al DFL, la struttura dove lavoro, organizziamo un 25,000: mi sembra di poter dire che valga un open di allora.
Hai mantenuto rapporti con il mondo del tennis? Cosa fai attualmente?
Dopo il mio ritiro ho naturalmente continuato a giocare: credo di aver vinto qualcosa come 70 open, oltre a svariati campionati a squadre. Sono rimasta fondamentalmente una donna di campo, e sul campo trascorro il mio tempo professionale. Per anni ho lavorato al mio circolo, il Match Ball di Firenze, finchè io e mio fratello non siamo dovuti venir via, perché quella struttura è stata travolta da problemi finanziari, che oggi spero in via di soluzione. Operavamo naturalmente fuori dalla struttura di Fanucci, che segue Volandri. Allenavo gli agonisti e questo continuo a fare nel piccolo circolo dove ci siamo trasferiti, il DLF, dove però a girare per tornei è piuttosto mio fratello. Fino all’anno scorso seguivo la Kustova, una ragazza che da 800 WTA era salita a ridosso delle prime 100. Non mi sento però di prendere l’impegno di seguire giocatori/trici professioniste. Preferisco lavorare con i più giovani: ho ragazze 97/98 e un promettente ragazzino del 2000, Mattia Carassai.
Per finire, hai qualche rimpianto?
In tutta sincerità sì. Ero una tennista completa, con un gran diritto e un buon rovescio bimane, ma un po’ tutti i colpi, dalle smorzate al back di rovescio. Ero, soprattutto, una tennista aggressiva, a cui la palla “viaggiava”, più che a tante mie colleghe che hanno raggiunto risultati ben superiori ai miei. Mi mancava però, rispetto a loro, una mentalità veramente professionale, una concentrazione e una determinazione piena verso obiettivi sempre più alti. Avrei dovuto incontrare qualcuno che mi spingesse a osare di più, a volere di più. Questa figura mi è invece completamente mancata; anzi, il mio futuro marito è stato piuttosto un dissuasore in questo senso, forse perché di tennis non aveva alcuna cognizione.
Di norma non aggiungo nulla a quanto dicono le persone intervistate: vorrei fare un’eccezione per Marzia. Gli ex-campioni con cui ho parlato raccontano del mondo in cui hanno vissuto come del proprio mondo, da cui in fondo – quanto meno psicologicamente – non si sono distaccati. Con Marzia prevalgono sensazioni diverse, “mixed feelings”. Parla delle sue amiche e colleghe come tali, ma anche come atlete poste su un altro gradino, cui rapportarsi con una certa timidezza rispetto al proprio livello, quasi senza rendersi conto che la posizione che ha raggiunto può essere conseguita solo da chi ha tanto tennis nel proprio DNA e che le sue caratteristiche tecniche lasciano pochi dubbi sul suo talento. Mi sorge il dubbio quasi che abbia visitato il tennis che conta, ma senza credere fino in fondo di appartenerci. Non è stata mai aiutata economicamente dalla Federazione, ma non c’è traccia di polemica nelle sue parole, un po’ come se in fondo se lo fosse aspettato. Avrebbe dovuto trovare qualcuno che credesse in lei al punto da investire, ma non le è capitato. Le è mancato un incontro.
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