Caro Fabio, se sei d’accordo e visto il suo inizio straordinario di stagione, partirei da Rafa Nadal.
“All’epoca lavoravo per la IMG e ricordo che il primo a parlarmi molto bene di Rafa fu il suo attuale manager Carlos Costa (ex n.10 ATP; ndr), ma la realtà in quel caso superò la fantasia. Ebbi modo di vederlo per la prima volta nel 2000 a Tarbes, dove si svolge Les Petis As. L’anno prima aveva vinto Richard Gasquet e pensai di non aver mai visto un under 14 così forte. Dodici mesi dopo cambiai idea… Nadal era già un alieno, impressionante, un predestinato. Fisicamente era già piuttosto prestante, era come oggi ma in miniatura”.
In quale circostanza, da giovane, ti impressionò maggiormente?
“Due anni dopo si presentò a Wimbledon per il torneo juniores, aveva 16 anni e non era mai stato sull’erba. Il sorteggio gli mise davanti la testa di serie numero 1 Brian Dabul, un argentino che da under 18 era molto forte. E occhio che gli argentini sui prati sono bravi, in pochi sanno che è un paese strapieno di campi in erba. Nadal non stava in piedi, durante ogni scambio finiva per terra e non sembrava minimamente competitivo. Non chiedetemi come, perché non l’ho capito nemmeno io, Rafa finì per vincere 5-7 6-4 6-2. E non si fermò lì, arrivando sino in semifinale. Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto, ma si capiva che in lui c’era qualcosa che andava oltre il tennis, la sua forza di volontà era incredibile”.
Passiamo al tuo racconto di Roger Federer.
“Me ne parlò per la prima volta Zoltan Kuharszky (giocatore ungherese, n.53 negli anni ’80; ndr), che lavorava per la federazione svizzera. Ricordo benissimo che mi disse: ‘Fabio, c’è un ragazzo che ancora non vince tanti match, ma ti giuro che non ho mai visto nessuno giocare così bene a tennis’. Mi fidavo molto del giudizio di Zoltan, un grande conoscitore di questo sport. Capii che questo Federer doveva avere qualcosa di speciale, come giocatore ma anche come persona. Ebbi anche la fortuna di premiarlo dopo la sua prima vittoria ATP a Milano. Vi racconto un aneddoto: il primo anno che Roger vinse a Melbourne era solito scaldarsi prima dei match con un giovane svizzero che stava partecipando al torneo juniores: Stephane Bohli. Il giorno delle ‘semi’ però i loro orari erano molto diversi, poiché Bohli aveva match pomeridiano e Federer serale. Gli dissero che avrebbero trovato un altro sparring, ma Roger non ne volle sapere: ‘Ma che siete matti, Stephane lo scaldo io prima del suo match, non c’è nessun problema’. Roger Federer è una grande persona, ma tutti e quattro i cosiddetti Fab4 sono persone straordinarie, altrimenti non sarebbero diventati i campioni che ancora oggi vediamo in giro per i campi di tutto il mondo”.
Vincenzo Santopadre me lo ripete da sempre, prima si forma l’uomo e poi il tennista.
“Lo ripete oggi Vincenzo così come, tanti anni fa, faceva Riccardo Piatti. Federer, Nadal, Djokovic e Murray sono tutti grandi uomini. Io negli anni ho avuto la fortuna di lavorare con tennisti veramente forti come Ivanisevic, Ivanovic, Hingis, Seles, Clijsters, McEnroe ti assicuro che erano tutte persone straordinarie. Chi rompeva le palle sai chi erano? Quelli intorno al numero 20/30 del mondo. Giocavano bene, ma creavano sempre qualche problemino. I campioni, anche quando una difficoltà è seria, te lo fanno notare con il sorriso sulle labbra. E sono sempre super disponibili, sempre”.
Hai citato Riccardo Piatti, quindi passerei alle tue prime sensazioni legate a Novak Djokovic.
“Nole è un tesoro di persona. Gli diedi una mano, quando seguivo Ana Ivanovic, per iniziare la collaborazione con Riccardo Piatti. Ricordo gli europei under 16 a Genova, quando perse se non erro con Gael Monfils ma mi impressionò non solo tennisticamente. Volevo parlare con il padre, che mi fece capire di aver bisogno di soldi per la carriera del figlio. Aveva quindici anni ma volle fare l’interprete in quella conversazione, voleva sapere e avere tutto sotto controllo già da così giovane. Eravamo titubanti nel farlo partecipare, ma lui rispose: ‘la carriera è la tua o la mia?’. Non serve altro per descrivere la sua grandezza. È anche una persona molto generosa, che senza sbandierarlo ai quattro venti aiuta tantissimo il prossimo. Anche McEnroe era così”.
“Cito nuovamente Monfils, che da juniores e anche nel primo futures in cui si affrontarono, era solito sconfiggere Nole senza problemi. Ero presente invece durante il primo turno che giocarono a New York nel 2005. Djokovic aveva 18 anni e Gael 19. Fu una lotta pazzesca che vinse il serbo 7-5 al quinto. Era la prima vera sfida importante tra i due, e da quel momento Nole ne ha vinte 17 su 17. Perché i tornei giovanili, i futures e i challenger vanno considerati come fossero la scuola, ma non è detto che se sei il primo della classe in terza media poi eccelli nella vita. Stessa cosa nel tennis. Djokovic e il papà, un po’ matto ma ti assicuro buono, hanno sempre lavorato per costruire il professionista, non il campione juniores. A proposito di questo ti dico che tutti e quattro hanno avuto alle spalle famiglie fantastiche. Molto diverse tra loro ma nella stessa maniera importanti”.
Passiamo a sir Andy Murray?
“Posso dirti che è quello che ammiro di più. Andy è nato nell’epoca sbagliata, altrimenti avrebbe vinto molto molto di più. Non tutti sanno che Murray sembrava fosse costretto a smettere di giocare da giovanissimo per un rarissimo problema al ginocchio. Quello che ha vissuto mentalmente negli ultimi anni con l’anca lo aveva già vissuto da ragazzino. Sinceramente, seppur molto bravo da giovane, non pensavo che avrebbe raggiunto tali risultati. Credo che sia uno dei tennisti più innamorati di questo sport, Murray ama il tennis in maniera incredibile. Sono rimasto impressionato da quanto sia diventato forte sull’erba. E pensa che gli inglesi all’inizio non se lo filavano: adoravano Tim Henman, fecero di tutto per naturalizzare Rusedski e non credevano granché in Murray”.
Usciamo per un momento dal mondo dei grandissimi campioni per farci due risate. Qual è stato il tuo più grande abbaglio da talent scout?
“Tanti ne ho ‘indovinati’, se così possiamo dire, ma tanti ne ho sbagliati. Il più eclatante è stato sicuramente Miroslava Grolmus, uno slovacco che a 14 anni sembrava un fenomeno assoluto; me lo sengnalò anche Mecir dicendomi ‘questo è meglio di me’. Era un ragazzo anche molto serio, ma più passavano gli anni e più faceva il gambero: non migliorava, andava all’indietro; il Benjamin Button del tennis. Non ha più vinto una partita. Un altro fu il croato Luka Kutanjac, giocava come Federer, vinsi importanti tornei juniores. Ci sentiamo ancora e ogni tanto glielo chiedo: ‘Luka, perché ti sei fermato?’, risposta banale ma definitiva ‘sembravo forte ma ero scarso’. E poi più recentemente l’ungherese Mate Valkusz, che però è stato molto sfortunato con gli infortuni”.
E invece chi dei grandissimi non ti colpì da giovane?
“Beh uno è clamoroso. Non mi faceva impazzire Andre Agassi. Immaginavo che sarebbe diventato bravo, ma non così forte. Mi pareva un Krickstein (best ranking n.6, ndr). Ne parlai con mio padre che mi chiese cosa ne pensassi e non ero così ottimista. Lui mi rispose che Agassi avrebbe rivoluzionato il tennis. Poco da dire, ebbe ragione lui. Presi una toppa clamorosa! Devo dire che anche Ana Ivanovic, con cui poi ho lavorato per anni, non pensavo potesse diventare così brava. Da piccola era inguardabile, ma aveva una voglia fuori dal comune. Una delle giocatrici che, umanamente, insieme a Clijsters e Azarenka, mi è rimasta nel cuore”.
Grazie Fabio, la prossima volta parleremo dei nuovi giovani in arrivo, come le piccole della Repubblica Ceca che sono tante e fortissime.
“Grazie a te e ne parleremo con piacere. Vorrei chiudere però parlando di un aspetto che mi preoccupa molto nel tennis di oggi: il circuito giovanile è troppo importante e il gioco viene rovinato perché si pensa troppo al risultato. Chi inizia a fare il professionista a 12 anni poi a 25 non ce la fa più. Molta gente, anche addetti ai lavori, trascura questa aspetto. Adoro Riccardo Piatti, perché questo concetto lo ha capito già da tanti anni. Quinzi si è massacrato e ha smesso e come Gianluigi tanti altri. Jannik Sinner e Matteo Berrettini invece sono lì in alto perché hanno saputo gestire al meglio, seppur in due maniera diverse, la loro costruzione come atleti professionisti. La Federazione Italiana Tennis sta lavorando davvero molto bene in questi ultimi anni, ma deve fare grande attenzione a non caricare di importanza il mondo juniores”.
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