di Gianfilippo Maiga
Omar Camporese, pur con qualche rimpianto, voltandosi dietro può, rispetto ad altri, dire che il suo talento ha avuto sufficientemente su di sé la luce dei riflettori e che le soddisfazioni hanno superato le delusioni. Omar è forse il campione più rappresentativo avuto dall’Italia dai tempi dei “4 Moschettieri” (Panatta & C.), sia per aver raggiunto il ranking più alto, seguito a ruota da Renzo Furlan, sia in definitiva per il suo indubbio e non comune talento. L’intervista è riuscita “facile” per la sua grande disponibilità a raccontarsi, sia per la sua semplicità e passione nel racconto.
Nel 1992 hai raggiunto un best ranking (fantastico) di 18 al mondo. Forse avresti potuto salire ancora, se tu avessi meglio recuperato da un infortunio patito nel 1993 e che ti ha tenuto lontano dai campi per 6 mesi. Più rimpianti o soddisfazione, guardando al passato?
“Entrambe le cose, naturalmente. Una grande soddisfazione per i risultati raggiunti, con la consapevolezza di poter competere con i più grandi e più di uno “scalpo” importante. Un forte rimpianto perché una epicondilite fortissima mi ha tenuto fuori gioco 6 mesi proprio quando ero al massimo del mio livello e quando sono rientrato, pur avendo lavorato molto bene e dato tutto per recuperare, mi sono trovato in grande difficoltà. Non è stato solo un problema di recupero di condizione o di livello agonistico ma, paradossalmente, di cambiamento in pochi mesi proprio del tennis che si giocava. Avevo lasciato un circuito in cui prevaleva il fattore tecnico su quello fisico e i miei avversari spagnoli, per esempio, (i Sanchez, per fare un nome) non mi infastidivano particolarmente. Ritrovavo un ambiente in cui era improvvisamente esploso il giocatore “muscolare”, in grado di imprimere alla palla rotazioni molto pesanti; per restare nel campo spagnolo, al solo Bruguera, (grandi gambe e poca tecnica) si erano aggiunti i Corretja, i Berasategui e, in modo diverso, i Moya.”
Di te si ricorda la grandissima velocità di braccio e l’accelerazione che sapevi imprimere alla palla, dote non così comune anche solo 15 anni fa. Qualche mala lingua dice però che eri anche molto pigro e restio alla disciplina monacale che il tennis impone a quei livelli. Quanto c`è di vero?
“Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, tengo a sottolineare che io sono stato uno dei primi, (e pochi, allora) ad usare il diritto anomalo, o dritto a sventaglio. Avevo in effetti nel diritto la mia arma migliore e cercavo di usarla appena mi era possibile anche dal lato da cui normalmente si colpisce con il rovescio. Per quanto riguarda la mia presunta pigrizia, nego recisamente. Mi allenavo con impegno 8 ore al giorno. Ammetto che amavo fare tardi la sera, ma senza che il mio tipo di vita mi abbia mai condizionato in allenamento, impedendomi di dare il 100%.”
Non te la sei mai “tirata”. Il tuo discorso dopo il primo torneo vinto a Rotterdam iniziò con un candido “I am dreaming”. Ma cosa si prova veramente quando sei “là”, hanno srotolato il tappeto rosso, si deve fare un discorso davanti a migliaia di persone e tocca a te parlare? Tra l’altro, come te la cavavi con l’inglese in quel momento?
“In effetti è proprio dopo la vittoria di Rotterdam e contro Lendl che ho avuto consapevolezza dei miei mezzi e della possibilità di battere chiunque. Prima mi ritenevo un buon giocatore, in grado di impensierire ogni avversario anche difficile, ma è la vittoria che ti dà fiducia. Quando sono stato premiato e mi sono rivolto per la prima volta a migliaia di spettatori tutti in piedi ad applaudire non realizzavo a pieno quello che mi stava succedendo; credo che mi abbia sostenuto l’adrenalina, che scorreva a fiumi, oltre ad un inglese discreto. Tra l’altro la finale si è risolta, come spesso a cade a quei livelli, per pochi punti a mio favore. Il colpo che probabilmente ha deciso il match nel tie-break del terzo set – per dire come la sorte a volte gioca un ruolo determinante – è stato un possibile smash di Lendl: lo avesse eseguito forse oggi racconteremmo un’altra storia. Ha invece optato per una “finta”, improvvisamente cambiando il movimento per eseguire una palla corta. Ero molto concentrato e ho avuto la lucidità di capire la finta, anticipare la mia entrata in campo, e fare punto, girando il match a mio favore proprio nelle ultime battute. Un piccolo aneddoto per quanto riguarda Lendl: ci conoscevamo benissimo, anche per un tour di esibizioni in Italia, organizzato da Palmieri e Dalla Vida, cui aveva partecipato anche Goran Ivanisevic,. Mi stimava come giocatore e mi richiedeva sistematicamente come partner di allenamento; inoltre insieme formavamo una coppia di burloni notevolissima. Dopo la sconfitta di Rotterdam, (e il bis successivo ad Amburgo nei quarti) di me come sparring non ha più voluto sapere.”
Hai vinto anche il torneo di Milano, da raro “profeta in patria”. È stato importante per te?
“Certamente, sia perché insieme alla vittoria di Rotterdam mi ha dato quella fiducia, che è la benzina essenziale per un tennista, sia perché Milano veniva di solito dopo la Coppa Davis e vi arrivavo molto stanco e snervato, facendo una magra figura.”
Tra tanti ricordi belli ci sono, paradossalmente, anche due sconfitte: quelle con Boris Becker a Melbourne (14-12 al quinto) e subito dopo in Davis. Hanno avuto importanza per te quelle partite? Becker le ha a sua volta considerate vittorie di routine, anche se sofferte, o ne è nato in qualche modo un rapporto con lui?
“In effetti quelle partite, pur se perse, sono un bel ricordo. In particolare Melbourne, dove ho perso vincendo più games di Becker! Becker, in quella occasione, è stato un signore. Alla fine del match, quando siamo andati a rete per stringerci la mano ha alzato, oltre al suo anche il mio braccio per salutare il pubblico. È stato un grande gesto e da lì siamo diventati amici. Tutte le volte che ne aveva occasione, in seguito, chiedeva di me e ci siamo spesso allenati insieme. Il rapporto è durato anche quando entrambi frequentavamo il senior tour. La sconfitta in Davis è un altro affare. Il clima di quell’incontro era completamente falsato dall’ambiente ostile, prova ne sia che, caso unico nella storia del tennis, hanno sostituito l’arbitro (l’inglese Huttington con francese bruno Rebeux) durante l’incontro perché aveva perso il controllo della situazione. Non esito a dire che in quell’occasione la vittoria ci fu rubata. Un piccolo ma eloquente esempio mi riguarda è la ripetizione del servizio concessa al mio avversario dopo un doppio fallo e palla break a mio favore nel 3° set!”
Fra i ricordi più drammatici c’è invece la famosa spedizione di Maceiò in Davis (1992). Di quell’incontro dell’Italia si ricordano molte cose, a cominciare della durata record del tuo match con Mattar (oltre 6 ore), da te vinto. La pesante sconfitta dell’Italia ha sollevato critiche livorose e, forse, come spesso accade, ingenerose. Puoi aiutarci a ricostruire un po’ di “verità” su quella vicenda?
“Quella trasferta è nata sotto una cattiva stella e non poteva che finire nello stesso modo. Già in fase di arrivo un giornalista RAI (Fiocchetti) è finito sotto un dune buggy rompendosi le gambe. Io ho giocato 6 ore con Mattar, con un caldo e un’umidità frastornanti, ma soprattutto una “torcida” che faceva più rumore delle vuvuzelas ai mondiali di calcio. Per dire come l’ambiente non fosse quello “caldo” di una normale trasferta e gli avversari non proprio materasso, occorre ricordare che questi ultimi prima di noi avevano battuto in Brasile la Germania di Becker e che Boris e Pilic (il capitano di Coppa Davis tedesco) avevano raccontato che i tifosi locali avevano liberato durante gli allenamenti della Germania dei serpenti… A aggravare una situazione davvero estrema ci si sono messe anche le circostanze. Io ho giocato 6 ore, vincendo, ma soffrendo: Panatta, (peraltro un eccellente capitano, che sapeva “leggere” molto bene le partite) mi aveva scherzosamente minacciato di aprirmi la testa come una mela se avessi perso quell’incontro! Avevo però iniziato a soffrire di quel male al braccio che poi in pratica ha posto fine alla mia carriera. Dopo una partita di sei ore il braccio faceva un male terribile; non mi sono allenato il sabato, quando si è disputato il secondo singolare (con Paolo Canè, a sua volta in campo per 5 ore!) e ho giocato il doppio con Nargiso la domenica. Eravamo 3-2 al quinto e servizio Nargiso. Panatta gli raccomanda di mettere 4 prime e Diego, evidentemente tesissimo, fa 4 doppi falli! Il crollo finale è stata la necessità di far giocare nell’ultima giornata, perché io non ero più in grado neppure di stringere la racchetta, Pescosolido, che era un eccellente giocatore, ma “sentiva” la Coppa Davis esageratamente da un punto di vista emotivo, (in Brasile aveva saputo di giocare la mattina stessama ricordo che successivamente contro la Danimarca, dove era secondo singolarista e quindi sapeva di giocare, dovette essere sostituito da Pistolesi perché completamente in ansia). A Pesco, (che Canè aveva umoristicamente definito Big Jim, tanto era rigido per la tensione) vennero persino praticate delle iniezioni rilassanti! Peccato che alla sconfitta di Maceiò, oltre agli inevitabili attacchi della stampa, sia seguita anche qualche polemica tra noi, (io per esempio sono stato accusato di aver taciuto del mio male al braccio, mentre non era così), per dire quanto quella vicenda abbia pesato.”
Fra le tue esperienze professionali ci sono Riccardo Piatti e le Pleiadi. Cosa puoi dire di quel periodo e soprattutto dell’iniziativa delle Pleiadi? Anche se è a un certo punto naufragata, ha avuto successo per un certo periodo di tempo. Perché è fallita e perché non è stata ripetuta altrove?
“Ho trascorso 5 anni alle Pleiadi,(1990-1995), la prima iniziativa privata al di fuori dell’ambito federale che si interessasse di tennis. I primi 3 anni, in particolare, sono stati a mio avviso eccezionali. Con Piatti si allenava un gruppo di professionisti quali Furlan, Brandi, Caratti e Mordegan, oltre al sottoscritto. Grazie a questo gruppo che faceva da traino, però, ben presto si è formata una vera e propria Accademia, la prima, con ragazzi che venivano da tutta Italia e da paesi esteri. Per il tennis le Pleiadi era un ottimo modello da un punto di vista organizzativo e un meraviglioso spot. Non conosco in dettaglio le ragioni per cui l’esperienza è andata male, ma immagino che siano fattori economici. L’insegnamento che se ne può trarre è che Accademie decentrate possano funzionare e siano un bene, ma cha hanno bisogno del supporto finanziario Federale, qualora rispondano a determinati parametri, (sono personalmente più flessibile sui metodi di insegnamento).”
Cos’hai fatto negli ultimi 10 anni da quando hai smesso (2001)? Di cosa ti occupi attualmente? Quali sono i tuoi obiettivi futuri e le tue aspirazioni? Frequenti ancora l’ambiente ATP?
“Dopo aver smesso di giocare, ho da subito insegnato. Non mi pento di questa scelta, che mi piace e per la quale mi sento tagliato. Anche il fatto di avere una famiglia naturalmente ha pesato sulle mie decisioni e mi ha portato un po’ fuori dal giro internazionale, anche se di tanto in tanto ricevo inviti e presenzio volentieri a qualche manifestazione. In Federazione, con cui mantengo un buon rapporto, in ruoli sono in questo momento stabili e definiti e non vedo particolari spazi per me. Il mio sogno nel cassetto è diventare capitano di Coppa Davis, ruolo per il quale mi sentirei tagliato e visto l’ottimo rapporto che ho con i ragazzi che oggi giocano. Ma è chiaro che il posto è ben presidiato, dati i risultati di Fed Cup….”
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