di Mario Polidori
Mi ricordo di Erik ancora piccolo, si parlava di lui al circolo dove aveva iniziato mia figlia, come di un grande esempio di passione, determinazione e talento. Se ne parlava quando qualcuno si divertiva a fare paragoni con i maestri di tennis che c’erano nel circondario, ed anche perché Erik, e suo padre Luigi, erano l’unico esempio di tennis vero, quello che poteva portarti tra i professionisti, mentre noi stavamo nella grande periferia agonistica della maggior parte dei circoli italiani.
Ero troppo curioso, e dal momento che ci separavano pochi chilometri dall’AT Vercelli, il circolo dove era maestro Luigi Crepaldi e dove si allenava Erik, decisi di andare a farmi un’idea.
Fu davvero una grande sensazione, Erik aveva circa 14 anni in quel momento, ed io avevo appena lasciato iniziare mia figlia Marta.
La parte incredibile era come facesse questo ragazzo, piccolo ed esile, a tenere il campo in quel modo, rispetto ai giganti che spesso incontri e che ti rovinano la carriera, facendo infrangere il tuo sogno contro il muro delle tante realtà che raccontano gli esperti.
L’altra cosa che mi colpì fu che non se ne curava affatto, giocava e si allenava sereno, concentrato, dando la netta impressione che l’unica cosa importante fosse quella, che il tennis non fosse legato ad altro.
Mi ero recato lì per conoscere lui, per parlare con il padre Luigi, ma non lo feci, non lo so perché, rimasi a guardare il lavoro che svolgevano e non riuscii a trovare parole per rivolgermi a nessuno dei due, ero rimasto interdetto, mi stavo interrogando su cosa volessi fare io con il tennis di Marta e non mi trovavo di fronte alla solita situazione maestro allievo, avevo bisogno di riflettere su un po’ di cose.
E me ne tornai da dove ero venuto, dove tra l’altro aspettavano che dicessi la mia rispetto a ciò che avevo visto.
Mi ricordo di aver detto che “quei due”, padre e figlio, stavano rendendo possibile una cosa apparentemente impossibile, e questo rafforzava la mia idea del tennis e, soprattutto, la scommessa che stava facendo mia figlia.
Erik Crepaldi è nato a Vercelli il 4 maggio del 1990, ha fatto il suo ingresso in ranking Atp nel 2008, con il torneo di Piombino, 15.000$ ITF, facendo quarti di finale, attualmente n°681 e best ranking n° 675, il 15 novembre 2010.
L’ho rivisto circa tre anni dopo, a Casale Monferrato alla Società Canottieri Casale, veniva ad allenarsi con Marco Bella, altra giovane promessa del tennis maschile, accompagnato dal nonno, altra straordinaria figura nella vita di Erik, che stava lì, guardava senza parlare e si godeva le gesta del nipote.
Aveva 17 anni, era il 2007, era sempre piccolo ed esile, ma con una visione di gioco ed una reattività impressionante, continuava ad essere un mistero per i più, salvo convincere che senza determinati attributi soltanto il talento poteva giustificare il livello raggiunto.
In quel momento Marco Bella era davanti a lui, altra dotazione fisica ed altri percorsi lo tenevano più in alto, mi pare avesse già qualche punto Atp, mentre Erik non ne aveva ancora raggiunti.
Ma era solo una questione di tempo. E si vedeva, anche se restava un atleta su cui difficilmente la maggior parte delle scuole avrebbe investito, perse come sono nel mito del superuomo.
Ma Erik era anche stato convocato al Centro Federale di Tirrenia, ci aveva trascorso dai 14 ai 16 anni.
Amore e passione, non sono mai sufficienti per molti, ma quando i risultati arrivano anche le proposte si fanno vive.
Furlan, Palumbo e Carnovale, sono stati per lui un’esperienza importante, che ha determinato le sue scelte future e che gli hanno indicato il percorso da seguire.
Ma cominciamo dall’inizio, addirittura tre anni prima che nascesse.
“Papà Luigi, grande appassionato e Maestro che si è fatto da sé, ricavò una racchettina corta per mio fratello Maurizio, 4 anni, sette anni più grande di me, voleva giocare, era una buona attività sportiva ed aveva dimostrato interesse alla cosa, fin da subito, e pur avendo raggiunto la classifica di 2.8, aveva intenzione di diventare anche lui maestro.
Quando poi arrivai io e raggiunsi l’età di 4 anni, Maurizio undicenne dava già i segni della sua scelta.
Papà era contento, ma non è mai stato lui a chiedere o ad insistere che giocasse.
Anch’io non era stato invitato a giocare, ad intraprendere lo stesso percorso o che altro, non è che il papà non volesse farmi giocare, semplicemente aveva lasciato che scegliessi da solo, come aveva fatto con Maurizio, e veder giocare lui aumentò la mia curiosità.
A casa del nonno trovai una racchetta lasciata lì da papà, una pallina con cui giocava il cane e cominciai a giocare contro un muro bianco, che man mano si sporcava sempre di più. Il nonno non disse niente, lasciava che mi divertissi, ma alla quarta volta che fu costretto ad imbiancare il muro andò da papà e gli disse testualmente: “Senti Luigi, tuo figlio mi ha rotto le palle, portatelo in campo!”
E così fu, e la sera stessa del mio esordio in campo, poco prima di addormentarsi, emozionato e commosso disse a mia madre: “Erik sta giocando.”
A 5 anni iniziò la mia vera avventura, con anche Peppino Balocco, il preparatore atletico che mi segue da sempre, ed il papà-coach, bravissimo a separare le due cose.
Sempre in campo e sempre sul pezzo, Peppino Balocco aveva due gruppi di preparazione atletica, facevo prima il turno con un gruppo e quando questo riposava per dare spazio al secondo gruppo, io mi aggregavo anche a loro.
A 9 anni torneo di Cambiano, primo turno 60 60 e secondo turno 46 36 da Alberto Giordano, mio rivale per i prossimi anni.
Mi divertivo da morire, giocare per me era tutto, non mi preoccupavo neanche un po’ che fosse uno sport difficile, una professione durissima e tutte quelle cose che sappiamo, e mio padre è sempre riuscito a darmi questa serenità. Non si arrabbiava mai, non parlava mai di match, performance, risultati, qualsiasi partita facessi mi faceva solo complimenti e sorrideva sempre, persino quando io mi incazzavo per un match andato male, era lui che mi faceva sdrammatizzare e mantenere il giusto equilibrio sulle cose.
Finché giocavo così, sempre da outsider, non mi facevo problemi, ma quando iniziai a vincere ed a fare qualche finale, cominciai anche a sentire il peso delle responsabilità, avevo da solo maturato la difficoltà che si incontra a gestire una realtà che fino a poco prima era soltanto un gioco, ma che sempre di più diventava una roba seria.
Ed era sempre papà ad indicarmi la strada ed il modo.
Quando sono andato via da Tirrenia per andare in giro per il mondo dei tornei, non mi è mai mancata la sua serenità.
Il fatto di non avere un fisico competitivo, mi dava problemi, di diverso tipo, soprattutto crederci era una cosa estremamente difficile, in questo credo che papà sia stato davvero un grande. Ho sviluppato un modo di giocare molto più strutturato e complesso di chi invece aveva fisico da spendere, ed ho evitato di appesantirmi con massa e pesi, quando ancora non aveva la possibilità di farlo, ho rispettato il mio corpo e soltanto oggi, a 20 anni, ho raggiunto la maturità atletica per spingere in quella direzione e mi trovo con grandi margini da poter colmare.
Quello che sembrava uno svantaggio si è tramutato in vantaggio, perché, andando in pari da un punto di vista atletico, il mio gioco ha oggi una solidità diversa da molti giocatori e mi sta permettendo di fare la differenza.
Sta andando così, nel 2008 sono andato fortissimo, passando dal 1320 al 675, ma ero ancora un giocatore che poteva vincere con il 400 e perdere con un 900. Era merito della struttura di gioco, ma non della consapevolezza di un percorso, era come se fossi ancora un bimbo alla conquista del mondo.
Ed il 2009 fu la conferma di questo, non vincevo più niente, un anno difficile, anche con infortuni dovuti alla tensione che avevo nel gestire un tetto che mancava di fondamenta.
A fine anno, l’incontro con una meravigliosa ragazza conosciuta a Santo Domingo, cinque ore passate a chiacchierare con lei prima di ripartire ed i sei mesi successivi, in cui abbiamo continuato sentirci ad 8.000 chilometri di distanza, mi hanno fatto capire cosa era l’amore, per ciò che sei, per ciò che fai, ed ho tramutato la mia passione, in fede, ho capito che non dovevo lasciarmi prendere dalle emozioni, ma che dovevo percorrere la mia strada con il lavoro ed il sacrificio necessario per assumermi la responsabilità di un dono che faceva di me un tennista, a prescindere da ciò che ne derivava, era un viaggio da fare, tutto qui.
Questo mi ha dato un 2010 pieno di soddisfazioni, fatte della certezza di esserci, di non essere più un turista divertito e divertente, ma di essere un tennista.”
Secondo me tutti dovrebbero vederlo giocare e dovrebbero parlarci, Erik è un ragazzo adorabile, gentile e disponibile, per chiunque e con chiunque.
In questo è già un campione.
In maniera un po’ interessata, pensando alle similitudini con mia figlia Marta, ti auguro davvero tutto il bene possibile, e mi auguro di vederti alzare qualche coppa importante.
Grazie Erik. Ringrazia papà anche da parte mia.