di Giulio Gasparin
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Chris Johnstone non è uno di quegli allenatori che passa alle luci della ribalta, non è tra quelli che pubblicizza il proprio brand, né cerca le luci della ribalta. Il suo è un lavoro che si basa sulla calma e la costanza, l’analisi e il lavoro a lungo termine. La sua filosofia si evince dalla calma e l’umiltà del suo tono di voce, ma la decisione con cui esprime le proprie convinzioni. Al termine di una sfortunata trasferta parigina con la sua allieva “Jarka” Gajdosova, si è lasciato intervistare portandomi attraverso una miriade di topoi, dal coaching in campo, al lavoro mentale, passando per giudici di linea che si addormentano durante il match.
Partiamo dal match di oggi che Jarmila ha perso da Amandine Hesse, come la vedi da allenatore una performance così?
Ci sarebbe molto da dire, ma di base Jarka non ha giocato per nulla bene. O meglio, ha giocato bene il primo set, ma poi si è spenta. Non voglio cercare scuse, ma si sono poi visti I problemi di salute che ha avuto di recente. Nel 2014 ha avuto la mononucleosi e non ha potuto giocare per quasi otto mesi, per cui ci è voluto molto perché tornasse ai suoi livelli. Poi, finalmente, all’incirca attorno a Wimbledon, si è qualificata e poi ha vinto il torneo ITF da $50k a Nottingham e questo l’ha aiutata a riacquisire sicurezza e poi la seconda metà del 2014 è stata sempre in crescita. Abbiamo quindi lavorato duramente a fine anno e i risultati sono arrivati tra gennaio e marzo, quando poi si sono presentati dei problemi fisici e ci siamo presentati a questo appuntamento con poco lavoro e pochi match giocati. Il fatto è che non era nelle condizioni di allenarsi e, sai, le ragazze sono più emotive dei maschi, per cui se non stanno bene fisicamente, immediatamente tutto diventa più difficile, non sono felici e questo si riflette anche sul loro tennis. Come dicevo, non cerco scuse, ma ha giocato poco e si vedeva le mancasse la convinzione, nonostante stesse giocando contro un’avversaria che avrebbe dovuto battere, diventando troppo insicura, sperando negli errori dell’avversaria più che cercando i propri vincenti. Per me è stata una giornata deludente perché so che può giocare meglio di così.
Sei stato allenatore nell’ATP dopo la carriera da giocatore, ma poi hai lavorato molto con giocatrici del circuito WTA. Come hai fatto notare tu, tra le donne sembra essere l’aspetto mentale molto più centrale che tra gli uomini. Da coach, come lavori su questi aspetti?
A fine match ne parliamo, bisogna fare così perché non è che puoi metterti ad urlarle cose perché ha perso. È un lavoro costante, come dicevo, le ragazze sono più emotive. Con tutti i giocatori si lavora sulla testa, che è fondamentale anche per i ragazzi, ma nelle donne le emozioni sono più forti e si fanno sentire di più ed è il motivo per cui è più complicato allenare una ragazza. Si parla comunque di tennis, ma per gestire le emozioni bisogna lavorare costantemente anche in allenamento, proprio come per il dritto, non puoi solo dire cosa fare ed è fatta, solo se ti alleni lo migliori. Per l’aspetto mentale è più difficile perché in allenamento ci sono condizioni diverse, ma già da lì devi partire, parlandone e rinforzando certi aspetti. Oggi, per esempio, le avevo detto già prima del match che il pubblico sarebbe stato rumoroso e di certo non a suo favore, ciononostante si è fatta sorprendere e dal di fuori sembrava stanca, ma per me è stato più quello che noi chiamiamo ‘Flat feet’, ovvero l’essere schiacciati dai nervi. Per cui anche se stava vincendo non aveva un linguaggio vincente, anzi, sembrava stanca e lenta, questo è quello che possono fare i nervi. Di solito lei riesce ad uscire da quelle situazioni partendo dal servizio, ma oggi non le entrava la prima e da lì si accontentava di colpire a mezza potenza, spaventata dalla possibilità di sbagliare.
Lo si capiva oggi dal rumore della palla, che uscendo dalle corde di solito fa un rumore pieno e quasi scoppiettante quando colpisce bene, oggi invece sembrava piatto…
Sai, la fiducia è anche importante. Non avendo giocato molto ed essendosi allenata poco, era difficile potesse giocare al meglio. Ci siamo allenati molto a fine anno ed ad inizio stagione ha pagato, ma ora ne paga un po’ il prezzo. Però poi le ragazze si fanno anche prendere da mille altre cose, oggi per esempio Jarka stava vincendo agilmente eppure si vedeva non ci stesse credendo. Io la conosco, quindi posso vederlo facilmente, e oggi si è innervosita per nulla, ad un certo punto la Hesse ha breccato dopo aver trovato un paio di linee e Jarka mi ha guardato come se questo fosse impossibile e non corretto, ma in realtà devi solo mettertela via e ricominciare a giocare.
La prossima settimana tornate sull’erba e questo potrebbe darle motivazione per riprendersi, no?
Lei gioca sicuramente molto bene sull’erba, ma per assurdo l’anno scorso di questi tempi lei mi disse di odiarla, poi però ha poi vinto Nottingham e cambiato idea. Ora ha un po’ di pressione perché deve difendere dei punti, ma l’obiettivo è fare bene e creare un po’ di momento favorevole in vista di Wimbledon.
Essendo stato un giocatore, prima di iniziare la carriera da allenatore, quanto è importante per te l’esperienza accumulata in anni da atleta?
Guarda, ci sono molti ottimi allenatori che non sono mai stati dei tennisti, ma io penso che sia di grande aiuto, perché ci sono delle dinamiche che, avendo l’esperienza di anni nel circuito nei panni di giocatore, faresti fatica a comprendere. È un po’ come l’università, puoi avere la migliore educazione del mondo, ma poi devi raffrontarla all’esperienza nel mondo vero, altrimenti non conta nulla. Puoi imparare moltissimo dall’esperienza, così è per i coach, puoi imparare le basi della tecnica e tutto, ma del lato mentale, è diverso aver provato cosa vuol dire dover servire una seconda su un match point, una palla che vale 10, 20 o 40 mila dollari, o un titolo. Cosa vuol dire vivere questa pressione ogni settimana. A volte mi sembra che ci siano dei coach troppo duri, proprio perché non sanno cosa significhi tutto questo, se l’hai vissuto riesci a capire cosa stia passando per la testa di un giocatore e riesci ad essere più empatico. Ci sono anche gli psicologi, ma anche loro spesso non hanno vissuto nulla di simile, per cui possono essere d’aiuto ma non su tutto. Al contrario, non si può passare immediatamente dall’essere giocatore ad essere allenatore, perché ci sono tantissime cose che bisogna imparare prima del passaggio.
Ci sono molti allenatori che in passato sono stati tuoi avversari. Come ci si sente quanto i propri atleti si scontrano?
A volte è divertente, perché nei tornei WTA è ammesso il coaching in campo, per cui so che se l’altra giocatrice ha un ex in panchina, so che tatticamente anche lui saprà che cosa vedere e quindi è un problema in più per me con cui relazionarmi. Per cui so che dovrò prendere in considerazione anche quanto diranno loro durante l’intervento. Altri invece sono decisamente meno esperti e sai che qualunque cosa diranno non sarà così fondamentale. Ovviamente non puoi esserne certo, ma se l’altro allenatore è un ex giocatore c’è un maggior rispetto reciproco.
Riguardo alla possibilità di chiamare l’allenatore in campo, ci sono state molte discussioni a riguardo, perché si può fare solo nei WTA…
Penso sia molto sciocca come cosa e che non dovrebbe essere ammessa. Da quel che so è stata una scelta fatta sotto pressione delle TV americane che volevano rendere più interessanti i cambi campo. Il tennis per me è fatto di due giocatori che si sfidano l’uno contro l’altro e l’aspetto tattico e di adattamento dovrebbero essere parte delle qualità di un giocatore. Poi, io ho fiducia di quello che dico in campo, quindi non mi faccio problemi, ma per altri può essere inibente.
In Fed Cup, però, il capitano è sempre in panchina…
Vero, però è un caso diverso se sei in panchina a tutti i cambi campo o solamente ad uno per set. Da allenatore, sarebbe comodo essere in campo tutto il tempo, perché puoi continuamente dare suggerimenti tecnici e tattici, prima che il tuo allievo ricada nei soliti errori. Ma resta una cosa diversa dai match del circuito.
Ora sei il coach di Gajdosova, che ha avuto una carriera fatta di molti alti e bassi, una serie di buoni risultati e poi i problemi fisici e quelli della vita privata. Ma come coach, è più difficile gestire un giocatore che ha avuto un ottimo trascorso e vuole ritornare a quei livelli, o prenderne uno ad inizio carriera?
Sono due cose completamente diverse, ma egualmente difficili. Jarka ha avuto alti e bassi, soprattutto per motivi che non riguardano i campi da tennis, mentre con un giocatore giovane speri in un progresso costante. Di base comunque il discorso è che per il successo devi avere un buon giocatore ed un buon allenatore, entrambe le cose sono fondamentali. Lo dico sempre, potrei essere il miglior allenatore del mondo, ma se dal’altra parte non c’è materia prima, non andremmo lontano, ma anche il contrario è vero, tranne per i grandi talenti, Roger Federer sarebbe diventato numero uno anche con pessimi allenatori. Riuscire a far combinare il giusto allenatore con il giusto giocatore poi è un’arte, perché ci sono ottimi allenatori che non “funzionano” con ottimi giocatori, perché la loro forza non sta in quello di cui hanno bisogno o vogliono quei giocatori. È quindi importante trovare la giusta combinazione, perché le mie qualità possono essere tali per qualcuno ma non per qualcun altro. Poi c’è anche un fattore personale, perché dovendo spendere così tanto tempo assieme sui campi, e fuori, bisogna che ci sia della sintonia.
Parlando di tattica, il tennis è fatto di scontri diretti, puoi essere il più forte del mondo, ma ci sono dei giocatori che sembrano essere la tua nemesi. In quei casi, quando il tuo giocatore gioca contro qualcuno il cui gioco è fatto a posta per demolire uno dei tuoi, ti focalizzi sulle armi del tuo o cerchi qualcosa di nuovo per evitare di ricadere nei precedenti?
Bisogna sempre tenere a mente due cose: conoscere le forze e le debolezze del tuo giocatore, e conoscere quelle del tuo avversario. Bisogna focalizzarsi sulle sue debolezze e su come il tuo giocatore può esporle. A volte però questo non è possibile perché il tuo giocatore non ha le armi necessarie, e questo è un problema. Con i maschi è solitamente più facile, perché loro hanno più varietà nel gioco, ma anche in quei casi non è detto. Per prima cosa è fondamentale conoscere bene il tuo allievo, anche per sapere cosa porterà in campo l’avversario e come contrastarlo. Per questo cerco sempre di parlarne con i miei giocatori prima del match, cercando però di non insinuare negatività. Per esempio, ci sono giocatrici con un dritto poco affidabile, ma che vacilla soprattutto sotto pressione, in quei casi gli dico di non preoccuparsi se ad inizio match il dritto sembra migliore del previsto. Oppure, soprattutto nei maschi sono in molti che sulla terra si girano di dritto per colpire lo sventaglio. Allora l’obiettivo non è colpire ripetutamente nell’angolo del rovescio, perché poi gli servi la palla che vogliono, ma trovare l’angolo sul dritto e poi girare su quello del rovescio. Certo questo è facile, ma è un esempio. Quando si fanno questi discorsi, poi, è fondamentale non è essere troppo complicati e sapere quanto il proprio giocatore può tenere a mente senza entrare in confusione.
Da un punto di vista più goliardico, qual è stato l’avvenimento più divertente che hai vissuto sul campo?
Ero a Wimbledon, un anno, e stavo giocando in singolare. Era un match molto lungo al termine di un lungo pomeriggio. Ricordo che il mio avversario colpì uno smash decisamente largo, nel mezzo del corridoio del doppio, ma non ci fu la chiamata. Mi girai e vidi il giudice di linea che dormiva. Eravamo a Wimbledon e il giudice stava dormendo durante il match! Sia io che il mio avversario la buttammo sul ridere e l’arbitro fece un over rule
Da coach, invece, qual è stato un momento di grande soddisfazione?
Direi che proprio qui, al Roland Garros, alcuni anni fa ricevetti una grandissima soddisfazione quando Olivia Rogowska, allora 17enne, batté Maria Kirilenko al primo turno, nonostante lei fosse 250 al mondo, mentre la russa una delle più forti. Olivia era al secondo slam ed in entrambi i casi aveva avuto accesso grazie ad una wild card, per cui l’esperienza era poca e potevo vedere l’emozioni sulla sua faccia: il nervosismo, la tensione, ma anche l’immensa gioia una volta chiuso l’incontro. Sai, ho fatto da coach anche a giocatori di successo come Wayne Ferreira, ma era diverso, lì, non è che dai per scontato, ma ti aspetti certi risultati, mentre per Olivia è stato un risultato inatteso, giunto dopo grandi miglioramenti.
Ed infine, come vivi il rapporto con un giocatore o una giocatrice al termine di quello professionale?
Sai, a volte un cambiamento è qualcosa di positivo, perché il rapporto tra coach e giocatore è più che professionale, ma comunque bisogna ricordare che deve essere sempre basato sul giocatore e non su di te, e quindi sul bene di quello. Poi dipende dalle circostanze e da come si chiude il rapporto: a volte è meglio cercare un cambiamento perché il giocatore ha bisogno di nuovi stimoli, o comunque il giocatore non ti ascolta più quanto all’inizio, un po’ come succede tra figli e genitori. Poi ci sono casi in cui, come nella vita, il rapporto non finisce bene, poi ci sono momenti in cui gli obiettivi e le priorità sono diverse, magari il coach ha una famiglia e non più abbastanza tempo. È proprio come nella vita, ci sono relazioni che una volta finite restano come amicizie ed altre che finiscono male.
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