Prosegue la serie di interviste di Spazio Tennis ai giornalisti specializzati nel tennis. Dopo aver parlato con Riccardo Bisti di Ubitennis e Matteo Cirelli di Tennis Oggi, è il turno di Lorenzo Cazzaniga, telecronista di Eurosport e direttore di Tennis Magazine (oltre a varie altre cose…)
di Gianfilippo Maiga
Lorenzo Cazzaniga è senz’altro un uomo di multiforme ingegno: giornalista e brillante commentatore televisivo di molti incontri di tennis, collaboratore di XM, società di management di importanti tennisti, organizzatore di tornei ma, soprattutto, innamorato perso del nostro sport. Da una chiacchierata con lui sono nati molti spunti stimolanti sul tennis in genere e, ovviamente, sul tennis italiano.
Giornalista, Manager, Commentatore televisivo, Organizzatore di tornei: quale di questi è più Lorenzo Cazzaniga degli altri?
Nasco giornalista e naturalmente tale mi sento. Fatta questa premessa, devo dire che non solo mi piace poter vedere il tennis sotto angolazioni diverse, ma che giudico questa esperienza essenziale per il mio mestiere. Ho più volte avuto modo di constatare come non solo i giocatori non sempre comprendano i giornalisti, ma anche come la cosa sia assolutamente reciproca. Avere diversi ruoli mi mette a confronto con una pluralità di interlocutori: dal grande campione al tennista che frequenta i circuiti minori, dal grande manager al coach itinerante, dal direttore di un grande torneo a quello che organizza un challenger. Ognuno di loro vede le cose dal proprio punto di osservazione e la sua visuale ne influenza ovviamente il giudizio. Ecco perché è così importante rendersi conto delle esigenze di ognuno degli attori del tennis, se si vuole essere in grado di esprimere valutazioni il più possibile equilibrate. Nel mio futuro c`è comunque certamente, sempre il giornalismo. Giusto per non rinunciare però ad una certa ecletticità, il mio sogno nel cassetto non è giornalistico, ma è quello di organizzare una grande manifestazione tennistica a Milano, che coinvolga i migliori giocatori italiani e i nostri migliori giovani.
Accademie, Federazioni, giocatori ex-professionisti che diventano coach, genitori, qual è la ricetta giusta per un giovane che vuole diventare professionista, anche considerandone i costi, (assunzione di un coach privato ovviamente a parte)?
Se non si hanno le risorse finanziarie per pagarsi un coach privato, checché si dica, una Federazione resta la soluzione migliore, perché offre al giovane tennista che decide di intraprendere la carriera una struttura e il supporto, anche – ma non solo – finanziario, che sono strumenti essenziali per raggiungere un traguardo fondamentale: le soglie del professionismo, ossia il livello di ranking in cui si riesce a godere di una sufficiente indipendenza economica. A quel punto sarà il tennista a decidere, anche al di fuori dell’ambito federale, come vuole proseguire la sua attività. Altre soluzioni rischiano di essere forzatamente imperfette. In alternativa una ricetta possibile, ancorché non ottimale, è forse quella che più tennisti dividano le spese di un allenatore, anche se l’esperienza insegna che poi le esigenze di ciascun giocatore evolvono nel tempo a seconda dell’andamento della sua carriera e, di riflesso, i programmi divergono. Quanto alla struttura in cui allenarsi, meglio le Accademie dei Circoli. In questi ultimi si è ospiti e di solito si entra presto in conflitto con le esigenze dei soci paganti, che restano comunque – va ricordato – al centro del progetto di un circolo di tennis. La scelta di un allenatore è comunque sempre un’operazione difficile e rischiosa. Difficile, perché l’alchimia caratteriale, prima ancora che tecnica, con un giocatore, è molto difficile da prevedere. La si può misurare solo sulla base della concreta esperienza. Vorrei anche dire che raramente coloro che si propongono come coach, tipicamente gli ex giocatori, “studiano” da coach. Un ex-giocatore conosce il circuito e ha certamente competenze tecniche: essere allenatore è però un altro mestiere, perché il centro delle tue attenzioni non sei più tu, le tue esigenze, la tua sensibilità, ma un altro, il giocatore. Occorrerebbe che i giocatori che si propongono di diventare coach avessero modo di frequentare dei corsi, ma soprattutto di affiancare altri coach affermati, per dotarsi delle necessarie conoscenze. Dovrebbero, insomma, investire su loro stessi, cosa che purtroppo vedo spesso non fare né quando sono giocatori, né tanto meno dopo. In questo la Federazione ha la sua parte di responsabilità, perché commette la medesima mancanza con molti degli allenatori che lavorano al suo interno”.
Tennis italiano: cosa funziona e cosa non funziona? C`è a tuo avviso una Federazione modello a cui ispirarsi nel costruire il movimento tennistico italiano?
Il numero dei praticanti in Italia è notevolmente cresciuto in questi anni e di questo va dato atto. Praticanti vuole dire anche spesso agonisti e questo non può che fare bene al nostro movimento. Purtroppo, però, le note positive non sono molte. Fra gli appunti che mi sento di muovere alla situazione attuale porrei in evidenza i seguenti: 1) la qualità del coaching all’interno della Federazione. I nostri migliori juniores non si allenano con i migliori coach italiani. La Federazione dovrebbe a mio avviso investire molto di più su questo aspetto, quanto meno – se non coinvolgendo direttamente le buone competenze che comunque da noi esistono – permettendo a chi lavora per la Federazione di “studiare” da coach, affiancandoli ad allenatori con maggior esperienza. 2) la formazione di una vera scuola italiana di tennis, come hanno Spagna, Francia e Svizzera, per esempio. Intendo con questo che i nostri maestri dovrebbero aver chiara la strada che un ragazzo deve percorrere da quando comincia l’attività tennistica a quando arriverà al professionismo. In Italia invece, ognuno va per la sua via. Quanto alla seconda parte della domanda, ossia se esista una Federazione modello, tutti pensiamo immediatamente alla Federazione Francese. D’accordo che la stessa ha il grande vantaggio delle risorse che le vengono messe a disposizione da Roland Garros, ma il minimo che si possa dire è che di queste risorse fa certamente buon uso, (altre Federazioni dispongono di risorse notevoli, ma non ottengono risultati nemmeno simili). D’altronde i risultati sono lì da vedere: Tsonga, Monfils, Gasquet e Simon, per citare quattro giocatori che in Francia vengono considerati “normali”, sarebbero annoverati, se fossero italiani, fra i nostri primissimi giocatori della storia. Il livello dei giocatori francesi, anche nel caso di tornei minori, è, ad ulteriore riprova, mediamente molto alto. Questo successo non esiste per caso, ma ha matrici chiare: una scuola di base diffusa capillarmente secondo l’imprinting federale, sostegno anche ai talenti che vogliono restare con il proprio allenatore, coinvolgimento degli ex-campioni a vario livello, permettendo loro, qualora lo vogliano, di imparare il mestiere di allenatori e per finire, un movimento impressionante, largamente superiore al nostro, naturalmente in proporzione e non solo in valore assoluto. L’obiettivo non è generare il fuoriclasse numero 1 al mondo, ma tantissimi giocatori molto bravi, veri campioni comunque, come accade in questo momento.
Tennis italiano: una proposta nuova?
1) Innanzitutto, punterei ad un centro tecnico di prim’ordine, che si avvalga dei migliori coach, preparatori atletici e mentali, fisioterapisti ecc., dove far allenare le nostre migliori speranze. 2) Darei un diverso aiuto agli juniores. Uno junior alle soglie del professionismo va incontro a costi elevatissimi sia per arrivarci, sia per poter poi passare al tour ATP o WTA. Credo sia opportuno aiutare i top junior con contributi più sostanziosi (al massimo tagliando altre spese “dirigenziali”) per poter consentire loro di fare le scelte più opportune e non quelle obbligate da questioni economiche. 3) Mirerei ad una grande crescita qualitativa del tennis di base, ossia alla formazione di una vera e propria scuola tennis italiana, che sappia accompagnare un giocatore dai 6 ai 20 anni, che sappia spiegargli fin dall’inizio quello che serve per diventare un professionista, che gli inculchi non solo una tecnica, ma una mentalità, dando piena dignità alla parola “disciplina” sportiva. Per fare questo bisogna avere ben chiaro che ogni fase della crescita ha esigenze diverse e disporre di maestri specializzati nel coprirle. Come ben sa chiunque insegni, una cosa è dialogare con un bambino, un’altra con un adolescente, ecc. 4) Tornerei precipitosamente sui passi percorsi per quanto riguarda la serie A. Proprio quando questa competizione cominciava a raggiungere un livello interessante sia tecnicamente, sia come ritorno di immagine, lo stravolgimento della sua formula le ha inferto un durissimo colpo. La serie A è una delle poche fonti di guadagno che permette ad un giocatore professionista di medio livello (o un giovane in crescita) di finanziare i pesanti oneri di un’attività professionistica. 5) Infine, propongo un’operazione di marketing importante per migliorare l’immagine del nostro sport: abbiamo un milione di praticanti e una visibilità internazionale con pochi eguali, eppure l’immagine del tennis è meno brillante di quella di altri sport come golf e rugby che hanno una diffusione decisamente inferiore. Sarebbe ideale che in Federazione agissero figure professionali di alto livello che possano aiutare in questo senso. Prendiamo gli Stati Uniti: anche là esistono i dirigenti federali, ma per risollevare lo US Open e trasformarlo nel più grande evento sportivo su base annuale, hanno chiamato un professionista come Arlen Kantarian che, quando si è dimesso, ha lasciato in eredità una situazione straordinaria. Avere però dirigenti professionisti nelle nostre Federazioni mi pare per adesso un’utopia.
Coppa Davis: va bene così com’è? Qual è la posizione dell’Italia? Quali difficoltà incontra la nostra nazionale, sia accomunata ad altre, sia in modo specifico?
Il tennis non rinuncia mai volentieri alle sue tradizioni, come abbiamo visto per l’introduzione a suo tempo del tie-break (un successo) e del “killer point” (un parziale insuccesso). Quindi perché rinunciare alla Coppa Davis? Tutti sappiamo, però, che così com’è congegnata oggi, non funziona. Inserita nel calendario professionistico, obbliga i campioni a interrompere, se non a snaturare, la propria preparazione, o ad affrontare i tornei successivi senza essersi potuti acclimatare, magari arrivando all’ultimo momento o giocando su una superficie diversa, con la conseguenza di perdere più di un’opportunità, se non di infortunarsi. Questo spiega qualche “rifiuto” che offende i tifosi, ma non è certo dovuto a mancanza di amor di patria. Risultato: presenza dei “titolari” intermittente ed esito sportivo sovente falsato, con la conseguente perdita di valore della competizione (ve la ricordate la finale Croazia-Slovacchia?). L’Italia ama la Coppa Davis, perché è sensibile alle competizioni a squadre: la Coppa Davis nel nostro Paese, più che in altri, può quindi essere un formidabile veicolo mediatico. I nostri giocatori, per portarci alla serie A, si sono sottoposti a più di un sacrificio in termini di carriera, consci che essere nel World Group può portare vantaggi a tutto il nostro movimento. Peraltro, l’Italia ha tutte le caratteristiche per poterci restare. Se avanzare nel tabellone può dipendere da un sorteggio più o meno fortunato, in uno spareggio per non retrocedere la nostra Nazionale sarebbe favorita con la gran parte delle avversarie. Poiché ho una sensibilità molto “televisiva”, (sono uno sponsor del punto secco e del super tie-break anche nei tornei del circuito maggiore, che ritengo funzionerebbe esattamente come ha funzionato l’eliminazione del cambio palla nella pallavolo), unendo considerazioni pratiche a valutazioni “mediatiche” penserei ad una Coppa Davis che si svolga ogni 4 anni, secondo le modalità dei Mondiali di Calcio, per fare un esempio. A questo punto l’intero circuito si fermerebbe e il torneo potrebbe essere degnamente preparato, con la presenza dei migliori e una copertura mediatica superiore all’attuale.
Sponsor: un tennista non affermato, (e forse anche uno che ha già raggiunto una certa indipendenza economica), se non può contare su aiuti familiari, deve cercare di finanziarsi con i campionati a squadre o trovare sponsorizzazioni. Cosa ci dici del mondo delle sponsorizzazioni oggi?
Ovviamente il momento non è dei migliori. In un clima di profonda crisi economica le aziende non vogliono investire su un titolo “volatile”, per usare un termine borsistico, come un giocatore di buon potenziale, ma che non dà alcuna sicurezza in termini di ritorno economico o anche solo di immagine, Un giocatore di belle speranze è una scommessa facile da perdere: meglio allora sponsorizzare una manifestazione in cui copertura televisiva e spettatori sono certi, meglio sostenere giocatori già affermati, che ti assicurano un ritorno, anche se costano più cari. Una volta si investiva abbastanza diffusamente sui giovani talenti: oggi questo è un fatto eccezionale e limitato a quei pochi soggetti che sembrano quasi garantire una ricaduta positiva di immagine, al punto che la sponsorizzazione è indissolubilmente abbinata ad un progetto di comunicazione. Se si vuole avere la dimensione di come i tempi sono cambiati si osservi che i contratti (fatto salvo quelli degli sponsor tecnici) non si stipulano quasi mai in termini pluriennali…
Fra i personaggi che ti è capitato di avvicinare nel tennis attuale, chi ti ha colpito particolarmente e perché? Senz’altro Toni Nadal; per me è l’emblema della determinazione e della disciplina che occorrono per sfondare in questo sport. Se vuoi diventare un campione, devi ripercorrere la stessa strada che lui ha tracciato per suo nipote, con la stessa intensità, con la stessa forza mentale, con lo stesso lavoro duro. Temo fortemente che un problema endemico del tennis italiano sia l’assenza di questa mentalità.
Lavori anche per una società che cura gli interessi di alcuni giocatori importanti. Quanto conta nel tennis di oggi la figura del manager? Come interagisci con le persone di riferimento di un giocatore (familiari, allenatore, ecc.)?
Il compito primario è reperire le risorse finanziarie per sostenere l’attività di un giocatore, curarne l’immagine e programmare nel modo migliore l’interazione fra il giocatore e gli sponsor. Al manager spetta solo una percentuale sulle sponsorizzazioni procurate: è quindi chiaro che il manager è la persona che più di ogni altra agisce nel bene del giocatore, affinché possa avere successo: semplicemente perché guadagna solo se diventa forte! E’ importante avere un buon rapporto anche col coach e la famiglia del giocatore, in quanto sono le persone che lo aiutano a rendere al meglio. In questo ho avuto la fortuna di poter seguire Seppi e Fognini che hanno alle spalle famiglie straordinarie. Una chiosa finale: non so perché, ma ho sempre trovato molto più facile svolgere il mio lavoro con i tennisti che con le tenniste….
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