di Luca Brancher
Read the English version (by Giulio Gasparin)
Il mondo del college-tennis, per noi italiani, per quanto col tempo diversi nostri connazionali vi si siano avvicinati, resta una materia di difficile comprensione, principalmente perché, cresciuti nel nostro sistema scolastico, non è semplice pensare ad un organismo studentesco che concede ai propri affiliati di curare sia il proprio percorso educativo che quello sportivo col medesimo zelo. Senza voler effettuare paragoni e comparazioni che hanno poco senso, abbiamo avuto l’onore di poter avvicinare uno dei coach che, nonostante la giovane età – ha da poco compiuto 43 anni – vanta già un palmares che gli permetterà gloria imperitura quando deciderà di abbandonare questa carriera. Lo avevamo già citato nell’articolo riguardante i fratelli Shane, poiché Brian Boland, questo è il nome del protagonista di questa intervista, ha permesso alla sua università, quella della Virginia, di portare a casa ben due titoli di livello nazionale, quello a squadre e quello di singolare: si trattava della quarta finale in cinque anni nella competizione collettiva – ed il secondo titolo, dopo quello del 2013 – e del terzo alloro, vinto da Ryan Shane, in singolare, dopo la doppietta di Somdev Devvarman nel 2007 e 2008: niente male, se si pensa che l’Università della Virginia, prima dell’arrivo di Boland, non era classificata tra le prime 75 nella graduatoria inter-collegiale ed a fatica portava atleti al campionato conclusivo NCAA, mentre ora almeno 3, se non 4, dei 64 atleti di questa competizione fanno parte dei Cavaliers – il loro soprannome.
“Sono stato molto fortunato: non appena mi laureai ad Indiana State, nel 1996, mi diedero l’opportunità di allenare, come head coach, e la colsi al balzo: cinque anni più tardi, passiamo quindi all’estate del 2001, mi giunse l’offerta da Charlottesville, per conto dell’Università della Virginia appunto, e scelsi di accettare”. Allenare presso un’università non è esattamente come allenare in un’accademia privata o federale, la priorità, accanto al tennis, è che i ragazzi frequentino e seguano dei corsi, per cui tutto quanto deve essere studiato nei minimi dettagli: non è un caso quindi che una giornata di Brian cominci molto presto. “Solitamente sono già in ufficio per le 7 del mattino per sbrigare tutte le pratiche che il lavorare all’interno di un college impone: dare una risposta a tutte le richieste scritte, risolvere alcuni problemi di natura accademica e tutti gli altri aspetti burocratici. La squadra di allenatori, di cui sono a capo, è composta da altre due persone, e dalle 8 fino alle 3 del pomeriggio programmiamo con ciascuno dei ragazzi che fa parte della nostra squadra un’ora di pratica singola, in modo che questa non si sovrapponga con alcuno dei loro corsi, mentre dalle 3 e mezzo fino alle 6 è tempo del lavoro di gruppo, che si sviluppa sia sul campo che in palestra.”
E’ fuor di dubbio che pianificare e programmare bene le sessioni di lavoro aiuta ad ottenere risultati di un certo livello, ma è altresì vero che per avere un team di successo, a livello collegiale, è altrettanto importante il lavoro che viene fatto prima, ovvero nel reclutamento. “Questo è un segreto che sta alla base, non solo delle squadre sportive, ma di ogni impresa di successo, a qualsiasi livello: per avere grandi risultati devi avere le persone che ti permettano di raggiungerli. E così la pensiamo noi, che scegliamo con accuratezza quali siano i giocatori che possono unirsi al nostro team, con un occhio di riguardo alla loro attitudine. Così nascono le vittorie.” Senza dimenticare il rapporto col territorio “A Charlottesville, dove ha sede la UVA (abbreviazione dell’ateneo), abbiamo la fortuna di avere vicine tante scuole, in cui lavorano allenatori molto bravi, che hanno prodotto svariati giocatori di buon livello nel corso degli anni. E, come sapete, quando a questi ragazzi, che escono dalle high-school, gli offriamo l’opportunità di venirsi ad allenare nelle nostre strutture durante il college, l’idea di non allontanarsi troppo da casa è un fattore non così secondario nella ricerca della soluzione accademica migliore.”
La classica domanda che alleggia attorno al college tennis, a cui è difficile trovare una soluzione, riguarda il quanto valga la pena preferire questa strada rispetto alla possibilità di diventare immediatamente, allo scoccare dei 18 anni d’età, professionista, dal momento che le due scelte sono in antitesi. I detrattori sostengono sia folle sacrificare un quadriennio così importante al professionismo, ma c’è da dire che l’attuale numero 1 americano, John Isner, ha concluso regolarmente il suo corso di studi alla Georgia University, così come John McEnroe, a metà degli anni settanta, è stato due volte campione NCAA. Visto che è inutile proporre tale quesito, siamo comunque curiosi di sapere da Brian quale sia il livello attuale del college tennis. “Dal mio punto di vista è sempre stato molto competitivo e di buona fattura, ma devo ammettere che c’è stato un periodo in cui la qualità era piuttosto latente, all’inizio del secolo per essere precisi. Se torni indietro agli anni ’70, ma anche i primi ’80, la maggioranza dei tennisti statunitensi classificati nella top-100, era costituita da giocatori di college, John McEnroe raggiunse la semifinale di Wimbledon da studente, per cui non possiamo dire che oggi sia meglio di allora, ma rispetto a quando mi sono laureato io, vale a dire nel 1996, siamo sicuramente su livelli migliori. In sostanza, credo che negli anni in cui Georgia e Virginia, spinte da Isner e Devvarman, dominavano – quindi tra il 2006 ed il 2008 – tutti i top-10 della classifica nazionale potessero ambire ad essere dei top-100 ATP, mentre ora noto che ce ne sono tanti anche fuori da quelle posizioni che possono lavorare per arrivarci.”
Se, stando alla posizione di Boland, vale la pena per un tennista proseguire il proprio iter scolastico alla conclusione delle high-school, quali sono i vantaggi che dovrebbero spingere ciascun giocatore a far sì che tale eventualità diventi “la scelta”? “Ci sono svariati motivi per cui un tennista dovrebbe aspettare a diventare un pro’, a prescindere dalla possibilità di completare il proprio percorso educativo: innanzitutto l’università mette a disposizione di ciascun atleta gli allenatori, i campi, le strutture e le finanze per proseguire la propria attività: da noi, per esempio, ogni atleta ha, come ho già detto, tre allenatori, un preparatore atletico di caratura mondiale come Pat Etcheberry – in passato ha seguito anche Pete Sampras e Justine Henin – un massaggiatore sempre presente e tanto altro personale che si dedica esclusivamente a loro ed alla loro crescita. Da un punto di vista più competitivo, far parte di un College team vuol dire affrontare di sicuro 50 incontri nel giro di 6 mesi, oltre ad avere la possibilità, quando non ci sono questi avvenimenti, di prendere parte a qualche torneo del circuito professionistico. E poi non dimenticherei che, dal momento che il tennis è divenuto uno sport sempre più fisico, non tutti i diciottenni sono pronti ad affrontare questa realtà, per cui frequentare per qualche anno il college ti permette di crescere fisicamente, tecnicamente and anche emotivamente. Nel frattempo, poi, hai la possibilità di conseguire un titolo di studio che potrà essere utile una volta conclusa la tua carriera: si può pure essere fortunati e giocare fino a 35 anni, magari oltre visto l’andamento del tennis attuale, ma c’è ancora molto da vivere una volta conclusa l’attività, per cui il college ti prepara strade alternative a prescindere dal fatto che tua abbia una carriera ricca di successi o meno. Il fatto che però mi preme di sottolineare, magari a volte sottovalutato, è quanto un giocatore possa crescere come persona facendo parte di un team: impari ad essere meno egoista, aiutare gli altri e capire che non sei importante soltanto te. Penso che sia fondamentale questo aspetto, sia come sportivo professionista che come persona”
Entrando più nello specifico nell’annata 2014-2015, sarei curioso di conoscere quanti dei giocatori che ha visionato possano fare il salto di qualità a stretto giro “E’ una domanda a cui è difficile rispondere, ma non posso negare che un buon numero di giocatori che si sono esibiti ha le carte in regola per fare una buona carriera in futuro. Escludendo i miei ragazzi, di cui vi parlerò più avanti, di certo non posso non nominare Noah Rubin (vincitore dello scorso Wimbledon juniores), che è stato uno dei migliori freshman – gli studenti del primo anno – che io abbia mai visto da quando alleno: gioca davvero bene, ha un bel tennis ed è un ragazzo molto maturo anche fuori dai campo. Penso che si toglierà svariate soddisfazioni in futuro. Un altro ragazzo che mi piace è Mackenzie McDonald, che qualche anno fa riuscì addirittura a qualificarsi per il Masters 1000 di Cincinnati e che potrà riprendere il discorso da dove lo aveva lasciato. Ma non ci sono solo tennisti americani, per esempio lo spagnolo Alex Alvarez di Oklahoma ha un tipo di gioco che lo avvicina a Del Potro, poi ci sono il tedesco Julian Lenz di Baylor, l’australiano Andrew Harris sempre di Oklahoma, il danese Soren Hess-Olesen di Texas e il tedesco Sebastian Stiefelmayer da Louisville, tutti ragazzi che possono davvero ben figurare”.
Mentre sul versante dei giocatori che ha allenato? “Siamo davvero fortunati a poter lavorare con un gruppo di ragazzi che ha grandissime qualità. Limitarsi a guardare la nostra line-up non è utile a comprendere il vero valore, perché non c’è un ragazzo che ha più chances di un altro, tutti possono diventare degli ottimi pro’ e non è noto quale sia il potenziale che possono raggiungere. Potrei comunque iniziare col parlarti del nostro “senior”, Mitchell Frank, che quest’anno si è laureato e nel giro di qualche mese comincerà a giocare costantemente sul tour. Ha vinto tutto quello che c’era da vincere a livello universitario, due campionati a squadre, tre titoli individuali, è stato numero 1 ed ha rivestito alla grande il ruolo di capitano e leader della nostra squadra: la scorsa estate ha provato a giocare sul circuito e velocemente ha raggiunto la Top-600 dell’ATP, per cui le qualità per arrivare nei 100 le ha tutte, ora sta a lui. Dopo Mitchell, c’è Ryan Shane, il campione in carica NCAA, che vedremo allo U.S. Open ad agosto. Ha il gioco e la mentalità per poter affrontare chiunque, aiutato da un grande servizio e da un gioco da fondo molto potente; attualmente non saprei dirti dove può arrivare, ma credo che nemmeno lui possa conoscere il suo limite, per un anno resterà a Charlottesville, quindi dovremo aspettare prima di vederlo all’opera. Il numero 3 della nostra squadra è invece Collin Altamirano, che ha avuto una straordinaria stagione da freshman: nel suo passato ci sono già titoli futures in doppio, una partecipazione al main draw dello U.S. Open e sono molto contento di poterlo allenare ancora, perché non credo di aver mai avuto uno studente al primo anno che abbia mai giocato così bene. Tutti gli altri ragazzi, poi, hanno già raggiunto in passato una posizione da top 1000 ATP e hanno le carte in regola per andare oltre.
Non è un grande periodo per il tennis maschile a stelle e strisce, soprattutto se paragonato con la storia di questo sport, eppure qualcosa si muove a livello giovanile. “Sì, abbiamo un gruppo di ragazzi che può davvero risollevare le sorti; credo che ogni evento sia ciclico per cui ottimisticamente posso dirti che è solo questione di tempo che non si torni a primeggiare. Kozlov, Tiafoe, Mmoh, Rubin sono tutti tennisti che sono davvero cresciuti in questi anni, ma anche lo stesso Sock, Donaldson, sperando anche in un recupero di Harrison, oltre agli altri ragazzi di cui ti ho parlato, aiutano ad essere davvero speranzosi nel nostro futuro.
Una volta terminata l’esperienza al college, i ragazzi restano comunque legati al team. Per esempio, il fratello di Ryan, Justin Shane, che ha lasciato Charlottesville lo scorso anno “Certo, Justin lo seguiamo ancora nel suo tentativo di costruirsi una classifica da pro’, così come tutti gli altri ragazzi che sono passati da noi, come Dev Varman, Treat Huey, Dom Inglot, Jarmere Jenkins tra gli altri. E’ molto importante, ci fa capire che il nostro lavoro, anche a livello umano, è molto apprezzato, e loro si dimostrano così, oltre che grandi atleti, anche ottime persone.” Sebbene alcuni di loro oramai siano molto distanti. “Già, noi stessi, sebbene ci siano ben due eventi pro’ a Charlottesville e siamo assolutamente allineati con le proposte della USTA in fatto di tornei, li incoraggiamo a viaggiare nel mondo: è uno dei grandi vantaggi di diventare professionisti nel tennis, c’è la possibilità di girare, vedere posti e località, conoscere gente splendida, e questo non sarebbe possibile in tanti altri sport. Puoi scegliere dove andare, ed allora perché no? Scopri che cosa può darti il resto del mondo e puoi sviluppare un sacco di conoscenze e legami. Che cos’altro è, se non questo, la vita?”.
E dopo questa serie di risposte molto interessanti, capiamo perché l’Università della Virginia sia molto cresciuta nel corso degli ultimi 15 anni.
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