di Gianfilippo Maiga
Cristian Brandi è una voce interessante e qualificata nel panorama tennistico. Lo è perché è stato un tennista di alto livello, scegliendo una via particolare, quella del doppio, su cui ci fa riflettere. Lo è perché ha vissuto alcune esperienze fondamentali nella storia del nostro tennis, facendo per esempio parte del mitico gruppo dei 4 moschettieri di Riccardo Piatti. Lo è perché conosce a fondo il nostro movimento tennistico, dato che ha lavorato a Tirrenia. Lo è, infine, perché è innamorato del tennis e per fortuna ha deciso di fare tesoro delle sue grandi esperienze, non disperdendole, ma mettendole al servizio del tennis professionistico di alto profilo.
Finalmente, fra tanti singolaristi, guardando la tua carriera tu risulti essere un raro specialista nel doppio. Ti riconosci in questa definizione?
Se è vero, come è maturata la scelta di concentrarti sul doppio? Ritengo di essere stato prima di tutto un giocatore di tennis che poi forse giocava benino il doppio. Mi piaceva il singolo, mi divertivo molto, ma sin da quando ero junior avevo un punto debole nella scarsa capacità di recupero fisico. Il numero di volte che ho giocato il turno decisivo di qualificazioni di tornei importanti, perdendo perché non reggevo due partite in un giorno, non si conta. Spontaneamente, dopo i 23 anni ho deciso di giocare il doppio come priorità perché riuscivo meglio, vincevo di più e guadagnavo di più. Inoltre, una considerazione non secondaria era che avrei avuto una chance di giocare in Davis ed andare alle Olimpiadi solo dedicandomi al doppio.
Il doppio è organizzativamente una specialità più complessa del singolare, perché la programmazione di un giocatore è in parte condizionata da quella dell’eventuale partner fisso o dalla possibilità di trovarne sul posto uno valido. Come funzionava in realtà e come funziona oggi? Sei d’accordo con quanti dicono che il doppio è una specialità in decadenza?
È vero che avere un partner fisso è in qualche modo limitante dal punto di vista della programmazione, perché devi condividere con lui le scelte agonistiche. Io tuttavia non avevo dubbi e ho sempre preferito giocare con un compagno stabile perché ritenevo questo un presupposto molto più professionale. Nel tennis non si improvvisa nulla : avendo un compagno fisso puoi allenare gli schemi di gioco e guadagni moltissimo in continuità. Purtroppo è vero che il doppio è una specialità in decadenza e questo declino era già ben visibile negli anni in cui giocavo io. Sfortunatamente, rispetto ad allora, la situazione è addirittura peggiorata. Paradossalmente ci sono forse più singolaristi che abbinano il singolare al doppio, rispetto al passato. Il punto è che lo fanno per motivazioni che nulla hanno a che fare con l’interesse per il doppio: provare i campi, esercitare le volées, allenarsi… Il risultato è che i tornei di doppio ne vengono snaturati, perché alla prima occasione si”scioglie”. I Challenger sono addirittura in alcuni casi ridicoli: estremizzando, vincendo una partita “vera” si rischia di vincere il torneo. Il livello dei doppi si è nella media abbassato. Ci sono pochi giocatori che lo fanno sul serio, (i Bryan, Nestor, Zijmonic, Knowles,ecc.) e che – raggiungendo naturalmente in questo campo un livello di eccellenza – ne traggono anche un notevole beneficio, (le coppie più forti del ranking mondiale guadagnano significativamente), il resto è spesso avventizio. Una volta, invece, pur se i più grandi singolaristi tendevano a disertare il doppio, il livello medio delle coppie partecipanti era più alto e soprattutto chi partecipava giocava il doppio più seriamente: non è un caso se allora per la maggior parte le coppie erano fisse. Un aggravante oggi sono anche le regole che determinano la formazione di un tabellone. In passato contava la classifica del doppio per determinare la composizione di un tabellone e le sue gerarchie. Oggi, invece, se hai una classifica di singolo più alta di quella del doppio vale quella. I Direttori di Torneo sono oggi molto riluttanti ad organizzare i doppi, ma i giocatori non vogliono che il Doppio sia toccato, proprio per le ragioni utilitaristiche cui ho fatto cenno. Che fare? Io sarei o per cambiare nuovamente le regole o per dividere le specialità, trovando sponsors disposti a sostenere un circuito separato dal singolo. Capisco che sono i grandi nomi che “tirano”, ma l’attuale mancanza di serietà di molti tornei rischia di essere un boomerang.
Sei stato un allievo di Piatti, in quanto facevi parte del mitico gruppo delle Pleiadi di Torino: Furlan, Caratti, Brandi e Mordegan. Cosa ricordi di quell’esperienza e dei componenti di quel gruppo?
Sono stati gli anni più belli della mai vita,(sarà contenta la mia fidanzata). Abbiamo vissuto in simbiosi: casa, scuola, allenamenti, tornei… sempre insieme. Abbiamo vissuto in diverse città: Roma, Torino, Milano, Como, Montecarlo, insomma siamo cresciuti insieme. Ricordo allenamenti massacranti, ma sempre con il sorriso. Siamo arrivati a mettere in fila 12 settimane di preparazione, con 7/8 ore di allenamento al giorno tra tennis e atletica, e questo tutti i giorni, salvo il sabato pomeriggio e la domenica. Dopo pranzo Riccardo andava in sala tv, spegneva le luci e metteva il video di qualche partita da studiare…. Le luci si riaccendevano solo quando si sentiva Caratti russare! Siamo stati i primi, credo, ad affiancare alla medicina tradizionale il supporto di un chiropratico: nel caso specifico, uno specialista valido come Caronti. Non solo: abbiamo sperimentato lo Yoga, l’appoggio ad un maestro di respirazione e Van der Meer che già da allora studiava i gesti metodici per richiamare l’attenzione. Seguivamo anche una dieta ferrea, che escludeva le bibite gassate, le caramelle e le patatine fritte. Una volta a casa di Riccardo sua mamma, persona eccezionale, per errore ci preparò una cotoletta con le patatine. Ricordo ancora vividamente la bava che avevo alla bocca quando Riccardo mi portò via il piatto… Questo è solo un capitolo del libro che dovrei aprire per far riaffiorare tutti i miei ricordi: non basterebbero giorni. Il gruppo è sempre unito, ora purtroppo ci vediamo poco ma ci sentiamo per telefono molto spesso. Ci siamo davvero sparpagliati: Furlan segue Bolelli, Caratti vive ad Austin (!), Mordegan insegna a Vicenza, ma ben presto dovrà abbandonare la vita tranquilla, perché ha una figlia che gioca bene e dovrà girare sempre di più con lei.
Dato che sei arrivato a 50 atp in doppio, hai frequentato i tornei del circuito maggiore. Com’erano i rapporti fra te e gli altri giocatori, dediti per lo più al singolare? I doppisti erano una casta a parte o non c’era differenza?
Naturalmente non c’erano caste, ma solo esseri umani che si intendono più o meno tra loro, persone sensibili e meno sensibili. Ero molto amico di Sanchez, Corretja e molti altri. Come si vede, i primi erano noti singolaristi e il fatto che io giocassi prevalentemente il doppio non è stato certo un ostacolo tra noi. Vale anche il contrario: con qualcuno la mia confidenza era inferiore, ma non certo per il fatto che giocassi il doppio e loro il singolo.
Hai avuto naturalmente molti compagni di doppio, ma – salvo errore – i tuoi partners preferiti sono stati nel tempo Bertolini, Furlan, Messori,Mordegan e Pescosolido. Con chi hai ottenuto i successi più grandi, dei 5? Con chi, tecnicamente e/o umanamente parlando, ti trovavi meglio?
I migliori risultati li ho ottenuti con Bertolini. Anche se non abbiamo mai vinto un grande torneo, con lui abbiamo raggiunto molte volte la finale in tornei importanti. Con Ghigo (Mordegan) ho vinto Estoril, con Filippo (Messori) l’Atp di San Marino e con Stefano (Pescosolido)ho giocato e vinto belle partite in Davis. Con Renzo (Furlan) ricordo una gran partita contro Rafter / Fitzgerald a Melbourne. Insomma, sono legato a tutti loro: ognuno rappresenta un momento molto specifico della mia carriera. Con Pescosolido, per esempio, ho giocato due anni, perché quello era il momento in cui provavamo a costituire un doppio per la Coppa Davis, un’esperienza molto motivante.
Hai lavorato a Tirrenia per un certo tempo. Cosa ritieni che funzioni bene e cosa ritieni potrebbe essere migliorato nel nostro Centro federale?
Mah…credo che il centro sia ormai ben avviato. C’è tutto ciò che serve per lavorare bene. Forse la Fit dovrebbe avere più coraggio nell’ investire sui tecnici, formarli come si deve, pagarli molto più di un maestro di circolo, lasciarli lavorare e chieder loro risultati tra 5 anni.
Un accenno all’esperienza con Fabbiano è d’obbligo. Come valuti il lavoro fatto? Perché il rapporto si è interrotto?
Vorrei premettere che giudico l’esperienza con Thomas molto positiva e che ritengo la sua scelta condivisibile: tutti, in un percorso di crescita come il suo, dovrebbero prima o poi fare un’esperienza all’estero, non in quanto l’Italia non offra qualità, quanto per confrontarsi con una realtà completamente diversa. Questo vale a mio avviso soprattutto quando – come nel suo caso – hai la possibilità di stare vicino a giocatori di alto livello. Dico questo non tanto riferendomi ai ” colpi” o alla possibilità di palleggiare e fare punti quotidianamente con loro, (questo è un fattore che non ritengo così importante) quanto perché confrontarsi quotidianamente con professionisti affermati permette di raggiungere quella consapevolezza e quella mentalità professionale che ti aiutano a fare il salto di qualità decisivo. Un cambiamento di “ latitudine” e di ambiente così radicale richiede naturalmente una assoluta determinazione, la convinzione verso la scelta fatta e spirito di sacrificio e di adattamento, vorrei dire senza se e senza ma. Solo così puoi sfruttare appieno le potenzialità che un’opportunità come quella ti dà. Personalmente, mi sono reso conto che il rapporto “1 a 1”, come quello che vivevamo quotidianamente, rischiava di essere controproducente per un ragazzo così giovane e un tennista bravo e con potenziale, ma pur sempre in formazione. Avrei voluto aiutarlo maggiormente e fargli apprendere determinate cose che secondo me sono indispensabili nel tennis moderno. A volte questi elementi sono difficili da trasmettere “a parole”, mentre il confronto quotidiano con professionisti che li hanno fatti propri e il loro esempio sono veicoli spesso efficacissimi. Per questo credo che la scelta fatta sia quella giusta. Sono comunque sicuro che Fabbiano prima o poi troverà il giusto equilibrio e riuscirà ad esprimersi secondo le sue potenzialità.
Essere un bravo doppista ti ha permesso di giocare 3 incontri in Coppa Davis, (in coppia con Pescosolido) vincendone 2. A parte le ovvietà sulla particolarità di giocare in Davis, per te è stata un’esperienza significativa?
Indubbiamente giocare in Davis era il mio sogno da bambino. Mi svegliavo la notte per vedere Panatta & C. in Australia. All’obiettivo Davis ho dedicato molti sforzi e pensieri. Guardandomi indietro, forse ho qualche rammarico e mi dico che avrei potuto giocare a buon diritto qualche partita in più. Non sono bravo a ricordare date e le circostanze, ma ho in mente almeno un incontro con la Spagna e uno con la Svizzera in cui sento che avrei potuto dire la mia, (giocarono Gaudenzi e Nargiso).
Come doppista hai giocato nei tornei del Grande Slam. In quale ti sei trovato meglio? Quale aveva l’atmosfera più speciale?
Giocare Wimbledon è sicuramente diverso. L’atmosfera è particolare, tradizione e fascino la fanno da padroni. Se invece guardo all’organizzazione, all’attenzione verso i tennisti, il torneo che mi piace di più è Melbourne, ancora oggi quello meglio gestito dei 4.
Dopo l’esperienza con Thomas Fabbiano, collabori con Piatti seguendo Ljubicic e Gasquet, che sono professionisti già affermati. Quali differenze trovi fra il rapporto con un giocatore in ascesa, ma non ancora “arrivato” e giocatori più esperti? In quale delle due situazioni ti senti più gratificato? Qual è il tuo progetto personale?
Non amo le schematizzazioni e quindi rifiuto un po’ di distinguere in modo rigido tra giocatori in ascesa e giocatori arrivati: mi sembrerebbe una banalizzazione e un errore. È ovvio che il lavoro sui giovani è a volte complicato dalle loro incertezze, mentre un giocatore affermato tendenzialmente sa meglio quello che vuole. In realtà il rapporto con ogni giocatore è davvero – al di là delle ovvie generalizzazioni– diverso e personale a qualsiasi età. La complessità di un rapporto o la sua “facilità” dipendono per esempio, oltre che dall’alchimia che si deve stabilire tra allenatore e giocatore, dalla personalità di quest’ultimo e , mi si creda,non è necessariamente l’età che pesa. Posto naturalmente che ogni persona e quindi ogni giocatore ha qualità e difetti, un elemento cruciale è la sua determinazione verso un obiettivo e quanto questa determinazione gli permette in breve tempo di acquisire la giusta mentalità, diventa la chiave che gli fa mettere il suo lavoro al di sopra della sua sensibilità personale. Ho conosciuto Djokovic a 16 anni ed era già maturo e concentrato sul suo scopo. Con Ivan Ljubicic è molto facile lavorare perché è molto schematico e determinato e questa forma mentis non gli è venuta in fine carriera: Ivan era così anche quando era giovane e in ascesa.
In conclusione, ti posso assicurare che può essere difficile lavorare con gente già “arrivata”, tanto quanto accade con i giovani. Fatta questa necessaria premessa, è evidente che con un tennista da formare il ruolo dell’allenatore credo sia quello di svilupparne le qualità il prima possibile e col tempo smussarne gli angoli, attenuare i difetti. Se questo è il denominatore comune e vale per tutti i tennisti, naturalmente il lavoro sul campo è invece diverso per ciascun atleta. Qui sì che l’età e le caratteristiche personali pesano. Credo sia evidente per tutti che il lavoro di cui ha bisogno Fabbiano, che deve crescere e formarsi, sia ben diverso da quello di cui necessita Ljubicic, che ha già costruito il suo fisico e oggi deve solo fare attenzione a non farsi male. Mi piace quello che sto facendo, mi piace essere in questo ambiente ed è stimolante starci a questo livello. Ho però anch’io il mio sogno nel cassetto. Se ne avessi l’occasione, vorrei formare un gruppo come quello che a suo tempo fu capace di creare Riccardo (Piatti) con noi: seguire 4 ragazzi , amici tra di loro, insegnar loro il mestiere e portarli al massimo delle loro possibilità. Sono anche abbastanza realista per rendermi conto che le condizioni di allora sono oggi forse irripetibili. Tenere insieme oggi 4 ragazzi per 20 anni è probabilmente cosa impensabile, sapendo che dietro ad ogni ragazzo ci sono genitori, manager, fidanzate, federazioni etc.
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