Di Giulio Gasparin (@giuliogasparin)
Barbara Grassi è ormai a pieno titolo uno dei nomi giornalistici più famosi sulla piattaforma di Sky, per cui segue diversi tornei, non ultimo lo slam entrato nella storia del nostro movimento un mese fa a New York. Noi di Spazio Tennis l’abbiamo contattata per scoprire di più su di lei, la sua storia giornalistica e la passione per il tennis, in questa intervista da leggere tutta d’un fiato.
Innanzitutto, grazie per avermi concesso un po’ di tempo per questa intervista. Come ci si sente ad essere gli intervistati, anziché gli intervistatori?
In effetti è una situazione un po’ strana. Sono abituata a fare io le domande di solito. Chissà, magari questa esperienza mi potrà essere utile in futuro. Posso provare a mettermi nei panni delle persone che intervisto e capire cosa si prova.
Ho scoperto recentemente che, prima di dedicarti al giornalismo, ha studiato lingue. È stata una scelta fatta in funzione della carriera poi intrapresa o cos’è successo poi per farla approdare al lavoro attuale?
Ho studiato lingue perché mi piace saper comunicare con le persone non solo nella mia lingua. Credo che al giorno d’oggi conoscere almeno l’inglese sia fondamentale. È una passione nata molto prima di diventare giornalista e devo ammettere che si è rivelata molto utile nel mio lavoro, soprattutto nel mondo del tennis in cui la lingua ufficiale è l’inglese.
Quando e come è nato l’amore per il tennis? L’ha mai giocato? Colpo migliore?
Il tennis mi è sempre piaciuto, di questo devo ringraziare una mia amica d’infanzia che era grande fan di Gabriela Sabatini e mi ha trasmesso questa simpatia. Simpatia che è diventata amore quando occuparmi di tennis è diventata una professione. Poter conoscere da vicino questo mondo meraviglioso ha fatto scattare subito la scintilla. Ho giocato poco, quando ero già adolescente ma purtroppo ho dovuto smettere presto per problemi di cervicale. Da vedere, il colpo che mi esalta di più è il rovescio lungolinea. A una mano però. Alla Wawrinka o alla Gasquet per intenderci.
Prima di entrare nello specifico, ci sono altri sport che la appassionano e nel cui ambito le piacerebbe lavorare?
Prima di diventare un’appassionata di tennis ero appassionata di calcio e lo sono tutt’ora. È anche grazie al calcio che deciso di voler diventare giornalista. Ho avuto la fortuna di occuparmene, prima a Tele+ e poi a Sky. Per qualche anno sono stata inviata sull’Inter. È uno sport di cui ormai mi occupo solo di rado, sono troppo occupata con il tennis, ma in futuro chissà.
In tema tennis, qual è stata la prima partita vissuta come inviata? Si ricorda le emozioni di quella “prima volta?”
Non vorrei deludere nessuno ma non mi ricordo la mia prima partita da inviata. Però mi ricordo il torneo: Internazionali d’Italia del 2004. Un’esperienza meravigliosa, per fortuna la prima di tante altre. Però devo ammettere che l’emozione più grande l’ho provata qualche mese dopo con il mio primo Wimbledon. Il mio torneo preferito.
Senza trascendere l’obiettività, che comunque deve essere una delle qualità fondamentali di un giornalista, secondo lei è giusto rendere note le proprie preferenze su alcuni giocatori o stili di gioco, oppure è meglio negare l’esistenza di gusti personali? Perché?
Io ritengo che non ci sia niente di male a rivelare le nostre simpatie. Siamo essere umani ed è bello avere delle passioni. Ci fanno sentire più vivi e più partecipi. Io ad esempio adoro Roger Federer, ma a chi non piace? L’importante è essere obiettivi.
Quali sono gli aspetti più difficili del suo lavoro? E quelli più piacevoli?
Per quanto riguarda il tennis, l’aspetto più difficile riguarda la distanza. È difficile fare bene il lavoro del giornalista se non si è sul luogo dell’evento, così come mantenere i contatti e crearne di nuovi. Quello più piacevoli, al contrario, è proprio poter interagire con i giocatori e gli addetti ai lavori quando c’è la possibilità di seguire un torneo dal vivo. Per avere così una fotografia più chiara e precisa di ciò di cui si deve scrivere o parlare.
In questi anni di esperienza nel mondo del tennis, c’è un match che si colloca prima degli altri nei sui ricordi?
Sarà scontata ma metto a pari merito la finale vinta da Francesca Schiavone al Roland Garros del 2010 e la finale tutta italiana allo US Open di quest’anno con Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Anche se merita un posto speciale anche la splendida vittoria di Roby su Serena Williams in semifinale. Che giornata, il trionfo del tennis italiano a New York! Tutte partite che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo. Momenti di grande emozione e commozione. Conosco da tanti anni queste ragazze, quindi l’aspetto affettivo non può non condizionarmi nella mia scelta.
Il rapporto tra giocatori e stampa è sempre molto delicato, l’episodio di Serena Williams a New York dopo la sconfitta per mano di Roberta Vinci ne è l’esempio, ma anche sua sorella Venus e Agnieszka Radwanska che quest’anno non si sono presentate in sala stampa e vari altri casi. Nella sua esperienza personale ci sono state situazioni spiacevoli con giocatori e/o giocatrici? Anche senza fare nomi, come hai risolto?
Per fortuna non mi sono capitate situazioni troppo spiacevoli. Il problema è generale e diffuso: il giornalista è visto come il ficcanaso. Quindi la tendenza è “se si può si evita”. Si generalizza e questo è sbagliato. L’atleta dovrebbe saper distinguere tra chi cerca di fare bene il proprio lavoro, con obiettività, e chi non lo fa. Il giornalista è il tramite tra il giocatore e gli appassionati, la persona che ha il compito non solo di raccogliere le parole dei protagonisti ma anche di raccontarne le storie e le prestazioni, nel bene e nel male. Un ruolo che ad esempio negli USA è capito e rispettato. In Italia, purtroppo, non è proprio così.
Mi sembra giusto pareggiare la domanda scomoda di cui sopra, con il corrispettivo positivo. Sicuramente ci sono stati casi piacevoli o sorprendentemente positivi, un esempio?
Sono stata piacevolmente sorpresa dai così detti big. Federer e Nadal su tutti. Ragazzi che da fuori potrebbero sembrare inarrivabili e invece sono estremamente educati e disponibili. Certo, c’è la fila per riuscire ad intervistarli, ma questo è normale. I momenti più piacevoli sono quelli prima dell’intervista, in cui non mancano mai una stretta di mano o una pacca sulla spalla e un “ciao, come stai” (in italiano!). Semplice educazione dirà qualcuno. Ma non è fatto scontata purtroppo.
In un ambito più generale, secondo lei cosa fa un buon giornalista? Che consigli darebbe a chi volesse intraprendere questa carriera?
Il buon giornalista deve fare in modo di essere informato su tutto, quindi leggere da più fonti. Ma non solo. Deve avere una rete di contatti da poter chiamare per avere delle conferme o addirittura delle anticipazioni. La passione per quello che si fa è l’arma in più perché, soprattutto al giorno d’oggi, è una professione difficile. Si investe sempre di meno nel mondo dell’informazione e della comunicazione e tanti giovani sono costretti a lavorare praticamente gratis. Quindi è fondamentale sapersi distinguere, nella scrittura, la padronanza della materia e anche nell’intraprendenza. Saper scrivere di tutto, anche di quello che non ci interessa particolarmente per poter arrivare, un giorno, a realizzare i nostri sogni.
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