Joao Monteiro arriva nella piccola città di Blacksburg, in Virginia, all’inizio del 2013 ed entra a far parte della squadra di tennis della Virginia Tech. È molto timido e si presenta con un inglese frammentato, bofonchiato, di chi sa benissimo di non essere in grado di mantenere una conversazione prolungata. È difficile penetrare la sua corazza ed ancora più complicato capire cosa gli passi per la testa: la chioma di capelli neri enorme e opprimente, gli occhi scuri e bassi, il pizzetto composto da qualche sparuto pelo adolescenziale e le mani perennemente in tasca. I suoi compagni impiegano qualche tempo prima di capire che quel ragazzo là sotto, nascosto sotto la frangia e con andare gobbo, è in realtà un tipo a posto con fare da Ozzy Osbourne in depressione.
Ancora più dubbioso è Jim Thompson, l’Head Coach della squadra di tennis. Da ex-ragazzo (ora cinquantenne) della Virginia cresciuto tra mille sport e una voglia di fare tipica di chi cerca sempre di mettersi in mostra, Jim pretende lo stesso da tutti i suoi giocatori: lotta su ogni punto, urla, sguardi duri, perenne movimento di gambe anche tra un punto e l’altro, continui high-five che vengono passati tra i membri della squadra come una corrente elettrica che porti tensione non solo in partita, ma in ogni allenamento. È lecito pensare che coach Thompson, dopo aver conosciuto Joao, sia rimasto più che perplesso. Solo la sua grande fiducia nei confronti di Stephen, il suo Assistant Coach, lo porta ad accettare Joao in squadra e a dargli una chance. Del resto Stephen non è un Assistant Coach qualunque, è uno che qualcosa ne capisce: Stephen Huss ha vinto Wimbledon, quello vero, in doppio, nel 2005, contro i fratelli Bryan in finale, insieme a Wesley Moodie. È un’opinione di cui ci si può fidare, pensa coach Thompson.
L’inizio non è dei più brillanti: l’atteggiamento fuori dal campo si rispecchia all’interno. Joao è spento, cupo, si piange addosso. Si lamenta, spesso. Dal punto di vista tecnico si intuisce un potenziale discreto, ma è seppellito da chili di troppo e da un fisico che non risalta né in potenza, né in altezza, né in velocità. Prova a spiegarsi, a giustificarsi, ma tra un inglese scolastico e il tono di autocommiserazione nessuno gli dà troppa retta. L’arrivo in università a gennaio sicuramente non lo aiuta, dal momento che il campionato a squadre inizia subito e i tempi per l’adattamento sono molto ristretti, mentre lui avrebbe bisogno di mesi per adattarsi davvero allo stile di vita americano e capire i cambiamenti che stanno avvenendo nella sua vita. “This is crazy, man” è la cosa che gli senti dire più spesso: riguardo ai dual match (gli incontri di campionato) intensi e rissosi; quando parla del campus dell’università, enorme e con strutture mai viste prima; sul cibo, un miscuglio di salse e grassi che neanche nei suoi sogni più remoti avrebbe immaginato. Joao è perso in un paese lontano dal suo, in un mondo che gli chiede intensità e grinta, dedizione completa e sveglie alle sei di mattina per allenarsi. Gli chiede di andare a lezione tra un allenamento e l’altro, stanco morto, e di ricominciare a studiare alla sera, prima di andare a letto. Gli chiede, insomma, di darsi una mossa. E la mossa non arriva subito.
Per le prime settimane Joao vede solo la panchina. I coach non lo reputano in grado di giocare tra i primi sei e lui non ha nessuna intenzione di contraddirli. Si sente ancora fuori posto e rimane interdetto quando percepisce il clima che si crea nei dual match. In casa lo esalta il tifo a favore; in trasferta lo spaventano le urla e gli insulti. Viene schierato in formazione dopo qualche settimana, al numero sei, dove perde al terzo set a risultato acquisito. Al cambio di campo alla fine del secondo set, quando ormai il risultato dell’incontro è già stato deciso e la Virginia Tech ha già vinto, Huss si siede sulla panchina e gli domanda se è nervoso, al che Joao, testa nell’asciugamano e busto piegato in avanti, alza un braccio così visibilmente tremante che Stephen è costretto ad abbassarglielo per paura che venga notato dall’avversario. Joao finisce per perdere quel set e ritorna a fare panchina per diverse settimane, inerme e incapace di cambiare la direzione in cui stanno andando le cose. In doppio è ancora peggio: la paura della rete lo pervade e lo blocca qualche metro troppo indietro, rendendo impossibile pensare di schierarlo in formazione.
Dopo qualche settimana, per una combinazione di infortuni e per via di una rosa non troppo vasta, Joao viene messo in campo contro l’università di Duke. Perde una partita tirata, in due set, dimostrando però un livello che non era ancora riuscito a raggiungere. Coach Huss insiste con coach Thompson per continuare a far giocare Joao in fondo al lineup, al numero sei, e lo ottiene. Joao andrà avanti per tutta la stagione giocando stabilmente al numero sei e, pian piano, comincerà a vincere la maggior parte delle sue partite.
Le stagioni successive vanno in crescendo, con Joao che arriva a giocare da numero tre e quattro della formazione l’anno successivo, prima di scavalcare addirittura i suoi compagni, arrivati insieme a lui, che l’avevano sempre facilmente surclassato negli anni precedenti. Joao finirà la sua carriera giocando stabilmente al numero uno della squadra, raggiungendo i primi dieci dell’NCAA in singolo e i primi venti in doppio (insieme al danese Andreas Bjerrehus) e passerà alla storia come il miglior giocatore ad aver mai solcato i campi da tennis della Virginia Tech, arrivando addirittura alla semifinale dei campionati NCAA e raccogliendo il titolo tanto aspirato di All-American.
Come è successo tutto questo? Dopo i lamenti, la sfiducia e la pigrizia che definivano i suoi comportamenti, Joao ha iniziato a cambiare. Il processo è durato diversi mesi e l’ha portato dall’allenarsi in maniera superficiale al prendere seriamente ogni aspetto della sessione di allenamento; da sedute in palestra cercando di svolgere meno esercizi possibili a sessioni complete e mirate; dal mangiare junk food e bere Coca Cola allo stare attento alla propria dieta, fino a diminuire drasticamente il suo peso aumentando la sua massa muscolare; dall’essere condotto, spinto, motivato, fino a diventare lui stesso il motivatore e la guida della squadra; per farla breve, Joao ha acquisito quella fiducia in se stesso che gli mancava, quella componente fondamentale della vita di ogni atleta e, in fondo, di ogni persona. Tirare fuori tutta questa fiducia non è mai un processo facile e, nel suo caso, il processo è cominciato grazie agli allenatori che credevano in lui, grazie a una squadra che lo motivava e a un ambiente, quello dei college americani, estremamente vibrante, stimolante e competitivo.
Adesso Joao si è dato un paio di anni di tempo per fare il professionista, e alcuni risultati sono già arrivati. In pochi mesi è passato dal non avere ranking ATP a vincere un torneo Futures in Portogallo, accompagnato da diverse altre finali e semifinali. Uscito dall’università a maggio 2016 con una laurea in economia e diverse offerte di lavoro (per il momento rimandate), in pochi mesi ha raggiunto la posizione numero 569 del mondo ed è pronto, adesso, a fare le scelte importanti che definiranno la sua vita. Joao ha dimostrato che, sbilanciandosi ed esponendosi senza parapetto a un’esperienza stravolgente come quella del college americano, e soprattutto fidandosi delle persone intorno a sé, è possibile raggiungere traguardi che sarebbero stati assolutamente impensabili. “This is crazy, man!”
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