di Sergio Pastena
Undici partecipanti e un solo tennista al terzo turno, subito eliminato. Vediamo com’è messo il tennis americano all’alba dell’apocalisse di Melbourne Park.
Il disastro di Melbourne
Dopo aver perso il terzo set, per via di un colpo di Hewitt rimbalzato due volte sul nastro prima di cadere dalla sua parte, Andy Roddick si è stancato di lottare contro una condizione fisica precaria e ha stretto la mano all’avversario. Forse non sapeva che, statistiche alla mano, il suo ritiro andava a mettere il sigillo su quello che è stato il peggiore Slam del nuovo millennio sul cemento per il tennis americano. A dire il vero, dopo la sconfitta di Roddick, era ancora in gioco John Isner, che però per rovesciare le statistiche avrebbe dovuto battere non solo Feliciano Lopez ma anche Rafa Nadal: si è fermato al primo ostacolo.
Poteva anche andare peggio: chi ha visto Isner-Nalbandian sa che l’americano ha passato il turno un po’ per caso. Per carità, Long John è stato stoico come sempre, ma era esausto, tanto che aveva cominciato a sparare le sue “seconde a mò di prima” e a un certo punto ha dovuto fronteggiare una palla break che puzzava di match point lontano un miglio. La prima palla, chiamata fuori dal giudice di linea, è stata giudicata buona dall’arbitro Kader Nouni che ha decretato un overrule senza possibilità d’appello per il povero argentino, che si è visto negare l’hawk-eye. Nel game successivo è arrivato il break decisivo, frutto di complicate congiunzioni astrali: Isner sparava mattonelle da ogni posizione che manco Fognini contro Montanes mentre Nalbandian, nel giusto tentativo di far correre l’avversario, gli ha consegnato il match con due drop shot dalla bruttezza allucinante, una roba che manco Granollers con le convulsioni…
Numeri impietosi
Tornando a noi, i record negativi sono questi:
– Peggior Slam del millennio sul cemento
– Terzo peggior Slam sulle superfici veloci
– Slam sul cemento con meno atleti al terzo turno (definitivo)
Eppure gli Australian Open, per i tennisti a stelle e strisce, sono stati sempre terreno di conquista: addirittura nel nuovo millennio quello australiano è lo Slam con più trionfi americani (3). La parabola discendente si vede chiaramente analizzando la “Win Ratio”, ovvero il rapporto tra partite vinte e partite giocate in quel di Melbourne.
Ora… di fallimenti “made in Usa” negli Slam se ne trovano a iosa, ma sono quasi tutti concentrati in Francia, sull’odiata terra del Roland Garros. Si pensi al 2007, quando su nove americani presenti neanche uno passò il primo turno. Per ciò che riguarda gli altri tornei il discorso è sempre stato differente.
Nella tabella in alto a sinistra vediamo i dieci peggiori Slam su superfici rapide del nuovo millennio: come si può notare questo Australian Open è stato, come detto, il peggiore sul cemento e solo due disastrose edizioni di Wimbledon lo precedono in classifica. Se nella graduatoria includessimo anche lo slam francese comunque questa edizione di Melbourne rimarrebbe nella Top Ten dei dieci peggiori Slam. Se poi andiamo a guardare anche il rovescio della medaglia, ossia i dieci majors nei quali gli americani hanno ottenuto i migliori risultati dal 2000 in poi (a destra in alto), possiamo renderci facilmente conto di tre dati:
– Ben cinque su dieci tra i Best Tournaments sono Australian Open, cosa che dà l’idea di quanto lo smacco sia stato forte
– Solo un torneo giocato dopo il ritiro di Agassi è entrato tra i migliori, Melbourne 2007 (peraltro al decimo posto)
– Solo tre tornei giocati prima del suo ritiro sono tra i peggiori, tra cui gli AO 2006 nei quali il “Las Vegas kid” non c’era
Il punto di frattura
Abbiamo parlato in questi due anni della corsa contro il tempo del tennis americano, che aveva toppato un’intera generazione tennistica a cavallo tra quella di Roddick, Blake e Fish e l’ultima di Harrison, Young e Basta (no, Basta non è un giovane… è che proprio non ce ne sono altri). Quando il meglio che riesci a produrre si chiama Querrey o Isner, con tutto il rispetto per due tennisti che hanno contribuito notevolmente a tenere in piedi la baracca, l’unica speranza è che i “vecchi” reggano fino all’arrivo dei giovanissimi. Senza voler sputare sentenze definitive, pare ragionevole dire che non sia stato così.
L’A-Kid visto in campo contro Hewitt era a dir poco malinconico: alla fine di questo torneo scenderà verso la ventesima posizione in classifica con due grandi incognite. Da un lato ci sono i 500 punti in scadenza a Memphis, tutt’altro che facili da confermare, dall’altro ci sono i due Masters americani sul cemento nei quali il buon Andy non dovrà difendere troppi punti ma che dovrà affrontare senza essere testa di serie, cosa che lo farà dipendere fortemente da un buon sorteggio. La sensazione è che, col servizio che non va più come prima da tempo e un diritto che a sua volta sembra sempre meno risolutivo, i prossimi Us Open potrebbero estromettere definitivamente l’americano dal tennis di vertice.
E’ già successo con Blake, che ha retto fin troppo a lungo per quello che ha passato nella sua tormentata carriera e ora battaglia onorevolmente nei 250, mentre l’unico punto fermo “made in Usa” al momento è Mardy Fish. Un punto fermo che, però, ha 30 anni compiuti e non sembra in grado di andare oltre i quarti di finale in uno Slam. Cosa riuscita anche ad Isner negli Us Open del 2011, al termine di una sessione estiva che, grazie anche ad un buon Wimbledon, era stata la migliore dal 2006 per gli statunitensi. Fuochi di paglia, come l’ottavo raggiunto da Querrey nel 2010 prima di inabissarsi nelle sabbie mobili del ranking.
In sintesi, il tennis americano sembra essere arrivato impreparato al famigerato “punto di frattura” che lo stoico Roddick e il sorprendente Fish hanno ritardato fin troppo.
Il nuovo che avanza (lentamente)
A chi toccherebbe ora? Senza dubbio ad Harrison, che contro Murray è stato gagliardo: 19 anni, però, sono pochini ed è alto anche il rischio di caricare troppo questo ragazzo di responsabilità. Certo, c’è Donald Young in versione “restyled” che può fare qualcosa di buono e qualche speranza la lasciamo anche a Jack Sock, che a 19 anni è numero 380 del ranking e sembra aver trovato finalmente una buona costanza, così come per Kudla che ha fatto qualcosa di buono ed è entrato nei 300. Un plauso anche per Sweeting, capace di migliorare oltre quanto si potesse immaginare. Per il resto, però, non si vede molto e, se escludiamo i primi due, tra i nomi citati non ci sono potenziali Sampras (ma neanche potenziali Roddick, a dirla tutta).
Il nuovo che non avanza
L’anno scorso analizzammo le prospettive del tennis “made in Usa” in uno speciale in due parti intitolato “Quale futuro?”. A rileggere i nomi fatti all’epoca si vede come gran parte di loro abbiano fatto pochi passi in avanti. I più “aged”, Smyczek e Levine, sono attualmente ben distanti dai primi 100, Steve “Cannavaro” Johnson a 22 anni è a stento nei 400, Austin Krajicek a 21 non è mai entrato nei 600, mentre la generazione di ventenni ai quali avevamo lasciato il beneficio del dubbio ha fatto ben pochi passi in avanti: Cox è al numero 666, Britton al 714, Domijan al 750, Buchanan all’868. Il migliore è Collarini, che 20 anni li farà tra qualche giorno ed è fermo al 487, Con tutto il rispetto, Giannessi, Gaio e Travaglia han fatto nettamente meglio di lui. Lo stesso Novikov, una delle tante “big next thing” americane, a 18 anni non regge il passo del nostro Eremin.
Quale futuro? Ritiro, Challenger o Wild Card Man?
Tutti questi nomi, per inciso, rischiano di fare la stessa fine di Jenkins e Evans, costretti a gettare la spugna, oppure se va bene di Reynolds e Russell, che in due fanno 62 anni, 20 Challenger vinti, 12 Us Open giocati e 1 turno passato (Reynolds nel 2008, contro un Tomas Zib in disarmo). Oppure rischiano di entrare nel lungo elenco di “wild card sprecate” che si può rileggere scorrendo le edizioni passate degli Us Open. L’ultima infornata decente è stata quella del 2007, con Isner, Young, Levine, Odesnik e Sweeting, per il resto tra Alex Kim, Jenkins, Morrison, Baker, Yim, Warburg e compagnia bella non si trova un giocatore “arrivato”. Anzi, a dirla tutta uno di loro è passato alla storia, la wild card del 2004 K.J.Hippensteel, ancora noto universalmente come “Colui che perse da Volandri sul cemento”.
Cosa c’è da fare
Lavorare. Tanto. E pregare. Tantissimo. Sperando che Harrison e Young facciano un altro salto di qualità per non rischiare di doversi giocare col Messico il World Group di Davis.
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