Wta, manager e retribuzioni. Il male oscuro del tennis in rosa.

Wta

di Roberto Commentucci

La Wta attuale: crisi tecnica, soldi a palate.

C’è qualcosa che non funziona nella rutilante giostra del circuito femminile.

Addii precoci e ritorni vincenti, troppo vincenti; numeri 1 fasulle e tenniste part time che vincono gli Slam; classifiche poco attendibili e calendario sempre più caotico, con Master di fine anno giocati nel deserto (deserto, beninteso, sia fuori dallo stadio che sugli spalti).

E in campo, uno spettacolo francamente bruttino: tennis sempre più omologato, giocatrici che sembrano fatte con lo stampino e punti spesso, troppo spesso, giocati in fotocopia. Prestanti ragazzone dai bicipiti luccicanti, grandi pallate sulle diagonali, variazioni sconosciute, noia. Al punto che il ritorno di braccio fatato Justine Henin, previsto per l’inizio della prossima stagione, ha suscitato fra gli appassionati di tutto il mondo una attesa spasmodica.

Eppure, questo circuito in crisi ha portato a casa, negli ultimi 4-5 anni, sensazionali incrementi del montepremi. Solo fra il 2008 e il 2009, il prizemoney complessivo della Wta è cresciuto del 40%. Una enormità nel momento attuale, con l’economia mondiale alle prese con la più grave recessione degli ultimi 60 anni.

Merito dei faraonici contratti stipulati dall’ex CEO Larry Scott, dimissionario lo scorso anno, e dal nuovo Grande Capo, la canadese Stacey Allaster, con sponsor generosissimi, quali Sony, Ericcson, Whirlpool, Dubai Duty Free, eccetera.

Tuttavia, come sappiamo tutto ha un costo, a questo mondo. Gli sponsor mettono i soldi, tanti soldi, ma poi vogliono anche dire la loro sulle politiche di gestione del Tour, con effetti spesso pericolosi. Le multinazionali vogliono portare il tennis (e i loro marchi) sui mercati emergenti, dove i margini di crescita del fatturato sono elevatissimi, ben più che non nella vecchia Europa, e non si curano delle conseguenze di queste scelte sull’organizzazione complessiva del circuito e sulla sua attendibilità tecnica.

Prendiamo ad esempio la riforma del calendario decisa alla fine dello scorso anno. L’obiettivo era quello di accorciare la stagione per salvaguardare le atlete dagli infortuni, e aumentare il numero dei tornei a partecipazione obbligatoria, anche per rendere la classifica WTA più aderente agli effettivi valori tecnici.

Il tutto, però, si è risolto in un inaudito spostamento del baricentro del circuito verso il medio e l’estremo oriente: sostanzialmente immutati per numero e importanza i tornei americani, sono cresciuti quelli asiatici mentre sono stati allegramente sacrificati ben 3 tornei indoor europei di ottimo fascino e lunga tradizione: Anversa, Zurigo e Stoccarda. In compenso, è stato “inventato” dal nulla l’inutile “master” di seconda fascia, organizzato manco a dirlo a Bali, e per giunta in concomitanza con la finale di Fed Cup. Da qui, poi, le relative polemiche sul danno pecuniario e di classifica procurato alla nostra Pennetta, tra l’altro scavalcata in extremis nel ranking mondiale dalla Bartoli, finalista a Bali, nell’indifferenza dei vertici della Wta.

Il problema del management.

Insomma, qualcosa non quadra. L’impressione è che, come in altri campi di attività economica (come ad esempio il settore finanziario) il difetto stia nella modalità di remunerazione del management, che incentiva il perseguimento a tutti i costi di risultati a breve termine, anche con l’adozione di strategie che a lungo andare risultano perdenti e controproducenti.

E’ il caso, per fare un esempio, delle grandi banche d’affari americane, dalla cui gestione è scaturita la grave crisi finanziaria dello scorso anno: se i manager ottengono cospicui bonus in base ai profitti conseguiti in un anno, o addirittura in sei mesi, essi sono portati a prendere rischi eccessivi, imbarcandosi in operazioni avventurose, pur di avere elevati ritorni. Una volta incassati i bonus miliardari, i manager lasciano l’azienda, nella quale però si cominciano a manifestare i danni causati dalla loro gestione “predatoria“. Da questi comprtamenti è scaturita la crisi attuale.

Qualcosa di simile, sia pure meno grave, ovviamente, accade alla Wta: l’ex CEO, Larry Scott ha sicuramente intascato percentuali milionarie sui contratti che ha spuntato per portare il Master di fine anno a Doha. Lui infatti ha lasciato l’incarico ricco e felice. Lì per lì, sono state contente anche le giocatrici, che vedono salire i montepremi. Ma poi, inevitabilmente, i nodi arrivano al pettine.

Ed ecco che il Master finale, giocato in un deserto spettrale, in un paese completamente privo di tradizione e di cultura tennistica, in un clima infame, caldissimo e umido, è risultato, sul piano tecnico e mediatico, un clamoroso fiasco. Nonostante l’impegno (per una volta) delle sorellone Williams, abbiamo avuto infortuni a ripetizione, giocatrici bollite, risultati falsati e spettacolo scadente.

Insomma, davvero un pessimo spot per la Wta, che vede la sua credibilità, il suo marchio, il suo appeal pubblicitario svalutarsi. Se si va avanti così, per quanto tempo ancora si riusciranno a trovare sponsor tanto generosi?

Conclusioni.

Come dimostrato anche dalla vicenda Agassi (con le sue sconvolgenti – ed inquietanti – rivelazioni in tema di doping) non solo nel mondo della finanza, ma anche nello sport l’eccessivo orientamento al mercato, la ricerca del profitto ad ogni costo, l’autoregolamentazione selvaggia, possono causare guasti gravi, fino a rompere il giocattolo.

Ovviamente nessuno vuole tornare all’inizio dell’era Open. Ma forse, nel complessivo governo del tennis, è necessario pervenire ad una più equilibrata divisione dei poteri fra i manager delle associazioni professionistiche e la Federazione Internazionale, in cui l‘antiquato status dilettantistico dei dirigenti, se per certi versi viene considerato un fardello, dall‘altro lato può costituire un efficace antidoto all’adozione di scelte poco lungimiranti.

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