di Luca Brancher
”Te lo ricordi Tim Mayotte, quello alto, faccia simpatica, il proverbiale “gigante buono”, che giocava bene sull’erba?”
“Mica tanto, quando lui era sulla cresta dell’onda io ero piuttosto piccolo.. l’unico frammento di memoria riguarda un suo incontro a Wimbledon, ma era già un po’ in là con gli anni ed era veramente tardi, di sera, quando da noi, in Italia, le partite le avrebbero già sospese da un pezzo vista l’oscurità e la cena era ormai giunta al dessert. Forse lo vinse, ma più probabilmente lo perse, penso fosse veramente agli sgoccioli la sua carriera. Perché, adesso, questa domanda?”
“Perché era alto e veniva da Springfield, Massachussets, la città del basket e lui, in barba a quanto la logica avrebbe imposto, è diventato un giocatore molto rappresentativo negli Stati Uniti degli anni ’80 – quando erano la prima potenza mondiale – in un altro sport, il tennis. Curioso, no?”
Curioso, ma fino ad un certo punto. Tim Mayotte veniva da una famiglia dedita al tennis, aveva frequentato il centro cittadino di Forest Park, dove aveva appreso i rudimenti, e si era affermato in questo sport. Insomma, le vere storie, quelle curiose che piacciono a noi, sono ben altre. Ad esempio quella per cui se un uragano non avesse distrutto una piscina a cielo aperto, un ragazzino di nome Tim non si sarebbe concesso al basket, diventando uno dei giocatori più dominanti dell’ultimo ventennio, oppure se un dottore, visitando una giovincella di Saint Louis, non avesse prescritto un po’ di tennis (proprio così) per curare un’infiammazione al ginocchio, oggi non avremmo una delle tre detentrici del Super Slam (vale a dire la vittoria, in carriera, di tutti i tornei dello Slam nelle tre prove, singolo, doppio e misto). Questi sì che sono episodi, storie che apparentemente sono scritte con la s minuscola ma che andranno, in un futuro più o meno prossimo, a modificare la storia con la S maiuscola. Per esempio, pensate a Steffi Graf. Lei, pur non avendo vinto il Super Slam, la Storia di questo sport non solo l’ha scritta, ma l’ha incisa sul marmo, avendo fatto segnare record che sono il sogno di ogni ragazzina alla ricerca di gloria in questo ambito. Ha vinto, stravinto – come nel 1988, con il Golden Slam, o come con le 66 vittorie consecutive tra il 1989 ed il 1990 – conquistato trofei quando era ad un passo dal ritiro dalle scene, ma anche allori che oramai apparivano francamente irraggiungibili. Persi. Volatilizzati.
Ci sono incontri che aleggiano nell’immaginario collettivo, impressi a fondo sebbene la valenza e la posta in palio non siano così determinanti. Un esempio calzante su tutti è l’ottavo di finale del Roland Garros del 1989 tra Ivan Lendl e Michael Chang, l’incontro delle banane e delle battute da sotto, partita che, pur essendosi giocata di lunedì pomeriggio, ogni appassionato asserisce di aver visto. Tutti si ricordano i fatti salienti, non altrettanto – e ne ho avuto riprova sula mia pelle – che quella partita, per quanto storica, valesse soltanto un posto nei quarti di finale. Di partite da batticuore, da ricordare, ne ha giocate svariate Jimmy Connors, il vecchio Jimbo, che nell’estate del 1987 si rese protagonista di una rimonta che ha fatto scuola. Ottavi di finale (toh, il caso) di Wimbledon, dall’altra parte della rete Mikael Pernfors, due volte campione NCAA nel 1984 e nel 1985, finalista a Parigi nel 1986, 20esimo giocatore del ranking in quel momento, assoluto dominatore di una contesa che ad un certo punto sembrava una mera esecuzione da parte dello svedese: 6-1 6-1 4-1. Connors, però, di mollare, nonostante le quasi 35 primavere, non ne aveva alcuna intenzione, tanto che, dopo aver vinto per 7-5 il terzo parziale, nemmeno un nuovo acuto dello scandinavo, portatosi sul 3-0 ad inizio quarto, lo scalfiva minimamente. E scampato pure questo pericolo, il prosieguo della corsa era piuttosto agevole: per Pernfors, nonostante i soli 24 anni, si sarebbe trattato del penultimo Wimbledon in carriera, mentre Jimmy si sarebbe fermato in semifinale, al cospetto di Pat Cash. Quell’anno, a Londra, andavano di moda le bandane a scacchi.
Prima di Steffi Graf il tennis in Germania rispondeva al nome di Clauda Kohde-Kilsch (nata Kohde, diventata Kohde-Kilsch dopo che da piccolissima venne adottata), semifinalista a Parigi ed in Australia nel 1985, capace di spingersi fino alla quarta posizione della classifica mondiale. Claudia non aveva mai visto di buon occhio l’ascesa della sua connazionale, che da giovanissima era destinata a cancellare dalla memoria teutonica quanto di comunque buono era stato fatto registrare dalla più anziana collega. Soprattutto, a dire il vero, erano i padri delle due a non sopportarsi e a non mancare occasione di punzecchiarsi a distanza. Peter Graf e Jurgen Kilsch erano due tipini che definire ambiziosi era quantomeno eufemistico e non si tiravano di certo indietro nel ribadire quanto di meglio potevano sulla proprio protetta, non mancando di spargere veleno sull’avversaria. Eppure l’avvento della giovane Steffi poteva essere provvidenziale, perché Claudia aveva realmente l’opportunità di rompere il tabù che rispondeva al nome di Fed Cup. Nel 1982 e nel 1983 la Germania Occidentale si era classificata per la finale della competizione che fino al 1994 si disputava in un’unica settimana, tra Wimbledon e i tornei sul cemento americano, ma, in entrambi i casi, le tedesche si erano dovute arrendere, contro nazioni decisamente più forti, fino a quel momento. Prima gli Stati Uniti e poi la Cecoslovacchia: per quanto potesse farsi valere Claudia, Bettina Bunge ed Eva Pfaff, le sue compagne di squadra, non si erano mostrate affatto all’altezza. Con la figlia di Peter Graf tutto poteva essere diverso, perché lei aveva quel qualcosa in più.
Nel 1987, la Fed Cup si svolgeva all’Hollyburn Country Club di Vancouver, Canada, la Germania oltre alla Kohde-Kilsch ed alla Graf vantava in rosa la Bunge e Silke Meier, che venivano schierate in doppio sia nel primo turno che nei quarti di finale – a completare le contese rispettivamente contro Hong-Kong ed Argentina, già peraltro decise dopo i due turni di singolare – mentre nel secondo turno, conto le malcapitate coreane, per provare l’affiatamento tra le migliori giocatrici, venivano fatte scendere in campo Graf e Kohde-Kilsch: un trionfo. Un solo giocato lasciato alle avversarie, al termine di un round in cui le asiatiche in tre incontri ne avrebbero racimolati appena sei. Le difficoltà cominciavano a manifestarsi nelle semifinali, perché la più anziana tra le due tedesche incappava in una sconfitta contro Helena Sukova, Cecoslovacchia – conquistando gli altri due punti, si salvarono comunque – ma tutto si dimostrava più complicato nella finale contro gli Stati Uniti. Perché Steffi Graf, in quell’anno, aveva vinto ogni timore reverenziale nei confronti Chris Evert, ma la Kohde-Kilsch si rivelava inferiore a Pam Shriver ed il doppio a stelle e strisce era comunque più forte di quello della Germania Occidentale. Si stava così materializzando la terza sconfitta in finale negli anni ’80: il primo titolo non era ancora maturo.
1-6 0-4. Passivo pesante, a Vancouver. Peter e Jurgen si guardavano come non mai in cagnesco, per quanto le circostanze li avessero portati a sedersi uno di fianco all’altro. Seppur vicini idealmente erano più lontani che mai. A Saarbrucken, paese natale di Claudia, sua madre, vinta dalla stanchezza (le 9 ore di fuso si erano fatte inesorabilmente sentire) si era appisolata sotto i colpi che Evert e Shriver infliggevano alle due ragazze mitteleuropee: niente da fare, avrà pensato, e il sonno ebbe il sopravvento. Quando tutto era prossimo a finire le due ragazze si guardarono negli occhi e cominciarono a parlarsi, a dirsi che non tutto era perduto, riempiendosi bocca e testa di quelle classiche frasi di circostanza che vengono pronunciate quando la situazione sta effettivamente precipitando – “Dobbiamo giocare punto su punto, gioco dopo gioco, non pensiamo al punteggio, dai, ce la possiamo ancora fare”. Fu allora che un pensiero si palesò nella mente di entrambe. Perché non potevano emulare Connors? “Ci siamo ricordate all’istante di quell’incontro di poche settimane prima, e il pensiero, ancora vivo, ci ha aiutato non poco ad uscire da quella situazione disperata”. Un’ora dopo, quel quadro di disperazione era completamente stravolto. Le due ragazze, che chiusero vincitrici per 1-6 7-5 6-2, si abbracciavano come se fossero migliori amiche da sempre, Peter e Jurgen, per una volta, lasciarono i dissapori da parte e si misero a battere le mani, sorridendosi vicendevolmente. Un armistizio storico, come storico era l’avvenimento che si era manifestato: la Germania Occidentale si era aggiudicata la Federation Cup. Il risveglio, in quel primo lunedì agostano, in Germania, fu particolarmente piacevole, non solo per la madre di Claudia, incredula mentre ascoltava il racconto della figlia, ma anche da parte dell’intera popolazione, che in tante cose poteva credere, ma mai nel buon esito di quella rimonta clamorosa.
Queste storie sono belle da raccontare, perché, in fondo, tutti i nodi, come si suol dire, vengono al pettine. Se la vittoria della Germania è idealmente frutto di quanto compiuto da Connors solo un mese prima, c’è da sorridere al pensiero che quell’incontro era stato reso possibile da un altro recupero il cui autore fu lo svedese Pernfors. Mikael, al turno precedente, aveva estromesso dal torneo la decima testa di serie, Tim Mayotte, che in quei giorni, complice la sorprendente eliminazione al secondo turno di Boris Becker, un pensiero di gloria lo aveva pure coltivato: sogno infranto dallo scandinavo, che sarebbe poi diventato vittima a sua volta del destino beffardo. E quella partita, di cui avevo uno scarso ricordo, il buon Tim non l’aveva persa: era il primo turno di Wimbledon 1991, il suo avversario, Michael Chang, appena 19enne, non sfruttò ben quattro match point, prima di capitolare al quinto parziale. Una bella vittoria, che di slancio lo portò fino agli ottavi, ma la sua campana, ormai, era suonata da un pezzo.
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