di Luca Brancher
“If you put your mind to it you could accomplish anything” (“Se ti ci metti con impegno raggiungi qualsiasi risultato”).
Ad Hill Valley, California, il tempo è una componente fondamentale, una variabile che qualcuno vorrebbe raggirare, a proprio piacimento. Se alla bizzarra introduzione aggiungiamo poi che questo qualcuno possiede, tutt’altro che curiosamente, un nome che è un simpatico divertissement costruito attorno a questa parola nel locale idioma (time), non vogliamo più nasconderci dietro ad un paravento e negare che, quello di cui vi sto parlando, Hill Valley, il personaggio col nome ricavato dal tempo, non è altro che materiale frutto di fantasia, ovvero persone e luoghi immaginari, creati ad arte da maestri della cinepresa, che, negli anni ’80, hanno regalato una trilogia entrata nei cuori e nelle menti delle persone, in maniera particolare di quelli della mia generazione. La fortunata serie (che di fortunato, in verità, ha avuto, stando agli incassi cinematografici almeno, solo il primo capitolo) è chiaramente Back To The Future, o Ritorno al Futuro, pellicola che, in un clima tipicamente da commedia americana, ci ha raccontato le mille trame che possono intrecciarsi se i viaggi nel tempo divenissero possibili senza alcuna controindicazione fisica. Tutto nacque quasi per caso, quando Bob Gale, produttore cinematografico giunto col tempo nel gotha internazionale, si ritrovò a sfogliare l’annuario scolastico del padre, scoprendo caratteristiche e passioni che lo incuriosirono, a tal punto da porsi un quesito “Ma io sarei mai stato amico di un tipo così, che poi sarebbe mio padre?” Stuzzicato da tale questione, si domandò se fosse possibile raccontare una storia in cui un figlio si fosse trovato faccia a faccia coi genitori quando avevano la sua età e ne parlò con l’amico Robert Zemeckis: da questa discussione al film passarono diversi anni, ma la macchina si era avviata.
In un film come Ritorno al Futuro il tempo è chiaramente fondamentale, decisivo, determinante: già, ma quando è ambientato, temporalmente, Ritorno al Futuro? Sappiamo che il primo viaggio nel passato, in cui appunto il protagonista incontra i propri genitori, ci riporta nel 1955, mentre quello nel futuro, col quale si apre la seconda pellicola, ci spinge fino al 2015, mentre la partenza, l’oggi, il presente, è il 1985. L’autunno del 1985. Più precisamente il 25 ottobre del 1985, un venerdì. Nell’Estremo Oriente, in quei giorni, si stavano disputando le prime prove che avrebbero portato i tennisti, un mese più tardi, a disputarsi lo Slam australiano, l’ultimo svoltosi nel mese di dicembre: se i big della racchetta si sfidavano a Tokyo, i giocatori di seconda fascia, invece, erano di scena a Melbourne, in una competizione indoor, in cui a vincere sarebbe stato un giocatore statunitense, californiano per giunta, di nome Martin Davis, per tutti Marty. Marty, non a caso, è anche il nome del protagonista di Back To The Future, Marty McFly – anche se in origine si sarebbe dovuto chiamare Marty McDermott, nome abbreviato per esigenze di copione, come si dice in questi casi. Non si ferma però qui il novero dei giocatori vincitori in quella settimana, dal momento che in Brasile si svolgeva l’unica prova afferente al circuito challenger della settimana, a Belo Horizonte. Non sono state poi molte, nella storia dell’ATP, le settimane in cui ad aggiudicarsi due titoli in palio sono stati tennisti che, prima, durante o dopo, avrebbero rivestito il ruolo di giocatore più forte del globo. Se a Tokyo, nella manifestazione prima menzionata, ad afferrare il titolo era stato Ivan Lendl, numero 1 ATP al 21 ottobre 1985, la prova brasiliana sarebbe stata la prima gemma nel palmares di un giocatore che a quel gradino del ranking ci sarebbe arrivato poco meno che 10 anni dopo. L’austriaco Thomas Muster.
Ora, parlare di Thomas Muster è sempre parecchio difficile, perché sfociare nel banale in queste occasioni non è un rischio, è proprio un dovere: a mio parere, ma dubito che questo non sia un pensiero condiviso, si tratta del giocatore più palluto che si ricordi. La frase che funge da incipit a quest’articolo, che sembra messa lì a caso, ma in fondo non lo è, è tratta dalle prime battute del film qui celebrato, quando Marty, bocciato con la sua band alle selezioni per suonare alla festa della scuola, è sul punto di mollare tutto e la sua ragazza gli rivolge quelle parole. Marty McFly è frutto della finzione, e quegli sproni, nei film, hanno sempre una valenza immediata, ma Thomas, nella vita, quella frase deve averla impressa non solo nella mente, ma addirittura nel cuore. Come e più che in un film.
Marty Davis chiuderà la sua carriera qualche anno più tardi, nel 1991, dopo una partita di doppio; la vita tennistica dello statunitense, infatti, fu più dignitosa nella specialità a coppie, sebbene in entrambe le discipline riuscì a varcare la fatidica soglia dei top-100. Nel doppio, però, risultò più longevo e trasse sicuramente le maggiori soddisfazioni: furono ben 4 i titoli a fine carriera, di cui uno, ottenuto guarda caso proprio nel 1985, in coppia con Brad Drewett, a Brisbane. L’ultimo alloro verrà conquistato quattro anni più tardi, nel 1989, a Los Angeles, California, patria di Hill Valley e nell’anno in cui al cinema uscirà il secondo dei tre atti della saga diretta da Robert Zemeckis. Il 1989, lo vedremo poi, sarà un anno fondamentale anche nella parabola tennistica di Thomas Muster, mentre per Davis rappresenta il classico punto che precede il climax ascendente agonistico: meno di due anni dopo appenderà la racchetta al chiodo, ma non abbandonerà completamente il mondo del tennis. Negli Stati Uniti, con la cultura sportiva che impera, con un profilo come quello di Marty non fai fatica a trovare un’occupazione, magari a livello accademico. Ed è così che Davis, da anni, è a capo della squadra tennistica dell’Università di Santa Barbara, dove ha fissato il suo buen ritiro. Nell’ultimo match, giocato a Key Biscayne – non un posto qualsiasi, nella sua vita ed in quella di un altro attore presentato in quest’articolo – lo avrebbe visto, in coppia col portoricano Joey Rive, affrontare i cechi Libor Pimek e Karel Novacek
Quest’ultimo fu anche il primo avversario di Thomas Muster in quell’opera numerata come prima nel novero dei suoi successi. Poi ne sarebbero arrivati ben altri, di maggior prestigio, ma quella settimana, per Muster, che avrebbe potuto, a fine inverno, in Nigeria, già aggiudicarsi il primo successo, ma ad impedirglielo fu il casalingo Nduka Odizor, era rivestita di un’importanza fondamentale, perché rafforzava la convinzione derivante dalla recente entrata nei top-100. Lungo il percorso dell’allora 18enne austriaco, dopo Novacek, nulla poterono il doppista brasiliano Carlos Kirmayr ed i nostri connazionali Alessandro De Minicis e Claudio Pistolesi, men che meno il peruviano Carlos Di Laura, suo avversario nell’atto conclusivo, il quale si sarebbe preso la rivincita una settimana dopo, ma a livello di secondo turno. La stagione successiva ebbe inizio dalla Florida, in cui ci sposteremo per narrare il prosieguo di questa storia: a Boca West, dove si disputava una prova di infimo livello ATP, il nostro venne battuto da… Marty Davis, su cui si sarebbe preso la rivincita due anni più tardi, a Key Biscayne.
Key Biscayne, come abbiamo avuto modo di anticipare, fu una tappa fondamentale, e non per questo piacevole, nella carriera di Thomas Muster. Immagino che chi legge queste righe sappia già a cosa io faccia riferimento, per cui levo ogni velo di mistero e mi ricolloco nel 1989, la sera del Primo Aprile, per la precisione. Dopo una rimonta contro Yannick Noah, da uno svantaggio di due set – sì, all’epoca questo torneo si disputava sulla lunghezza dei 3 set su 5 per tutta la durata della competizione – Muster centrava una prestigiosa finale, visto che, al di fuori della terra, dove ne aveva vinte diverse, non si era ancora aggiudicato alcuna ipotetica medaglia d’oro. Era stato un cammino portentoso, cominciato con una vittoria ai danni del nigeriano Nduka Odizor e proseguita senza vittorie così prestigiose, prima della rimonta perpetrata ai danni dell’istrionico giocatore francese, che lo precedeva di una posizione in classifica (14 vs 13). In finale l’avversario sarebbe stato Ivan Lendl, ed è giusto usare il condizionale, perché la sera prima dell’incontro un autista ubriaco lo coinvolse in un’incidente che portò alla rottura del collaterale mediale e del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro. Lì per lì Thomas non si rese conto della gravità dell’infortunio, ma quando, trasportato all’ospedale, venne reso noto cosa gli era successo, la sua carriera sembrava conclusa per sempre. Tuttavia, come appunto si diceva prima, se c’è un giocatore da citare ad esempio in materia di volontà, Muster è il primo nome da menzionare. Appena uscito dall’ospedale si fece costruire una sedia speciale da un falegname per poter cominciare a giocare a tennis, allenando almeno i colpi e, a meno di sei mesi dall’incidente, Thomas rifilava un doppio 6-2 al francese Henri Leconte. Il rientro, vista la drammaticità dell’avvenimento, fu sicuramente positivo anche se chiaramente Thomas non era il giocatore ammirato prima: qualche sconfitta di troppo costellava la conclusione del suo 1989 – e ci sarebbe pure mancato altro – e quella con Cassio Motta, nel primo turno del torneo di Itaparica, ne era riprova. Quel giorno, il 20 novembre, nelle sale usciva Ritorno al Futuro II.
Così come nel film gli sconvolgimenti di trama erano continui e ricorrenti, così nella carriera di Muster ai momenti bui sono succeduti quelli radiosi: ad una chiusura un pochino tormentata di 1989 seguiva una prima parte di 1990 assolutamente da capoclassifica, con la prima entrata nella top-10 successiva alla semifinale parigina, dove si fermò al cospetto del futuro vincitore Andres Gomez. Dopo la finale a Montecarlo ed il successo di Roma, tale risultato non era neppure così fuori dalle logiche, anzi, magari qualcuno, in un’annata un pochino particolare e propensa per il successo di un otusider, si sarebbe atteso il colpo grosso, ma forse era ancora prematuro. In quei giorni, mentre Thomas riusciva a raggiungere per la prima volta una posizione in classifica determinata da una singola cifra, nei cinema andava in scena la terza e conclusiva saga della trilogia prodotta da Zemeckis e Gale. Non ci furono più le condizioni per girare un quarto episodio, per quanto venne più volte messo in preventivo, ma l’età e la malattia del protagonista, unite ad altri problemi logistici, rinviarono fino alla cancellazione tale evenienza: così di Ritorno al Futuro non ci sarà mai un quarto episodio. O forse sì, anzi, c’è già stato, ma al posto di Fox c’era proprio Thomas Muster. E Ritorno al Futuro IV, a dirla tutta, non è stato nemmeno un film, è stata vita vera.
Giugno 2010. Alla vigilia del challenger di Braunschweig, Germania, ricco avvenimento che si disputa ormai annualmente durante la seconda settimana di Wimbledon, si viene a scoprire che ad aver richiesto, ed ottenuto, una wild card c’è l’-ex-numero 1 al mondo, Thomas Muster. Spesso si era scherzato sul fatto che l’austriaco non avesse mai effettivamente e formalmente annunciato il ritiro, ma, diamine, erano passati 11 anni dal suo ultimo incontro tra i pro’ ed il suo impiego nel Senior Tour sembrava aver posto una pietra sopra alla sua attività agonistica più di quanto avrebbe potuto fare un formale e freddo annuncio. Sembrava esser passato troppo tempo, ed anche lui, nelle occasioni pubbliche, si era definito “senza armi” davanti ai giocatori di oggi ed invece, eccolo lì, a rimettersi in gioco. Senza alcuna velleità, chiaramente, di classifica – a 43 anni ci sarebbe pure mancato questo – ma solo per divertirsi e vedere sin dove poteva spingersi. Thomas, però, quando ci si mette, lo fa con impegno, perché tutte le volte che ci ha provato fino in fondo, ci è riuscito, poche ciance. Così, dopo tante sconfitte, alcune più nette, altre sicuramente più valorose, l’austriaco – che fra l’altro si era fregiato già di un successo dopo poche discese pin campo, ma contro il giovane Borut Puc, a Lubiana, non era forse quello a cui ambiva – coglieva quello per cui probabilmente si era rimesso in gioco. Nel settembre del 2011, a Todi, Thomas Muster, classificato oltre la 1000 posizione in classifica, sconfiggeva, in rimonta, l’argentino Leo Mayer, numero 119 delle classifiche ATP di allora. Uno che, sulla terra battuta, non ha mai fatto troppa fatica a raggiungere il terzo turno del Roland Garros e che sicuramente valeva e vale un posto tra i top-100. Di colpo gli oltre 12 anni di inattività si erano quasi annullati: come se dal 1999 si fosse trasportato al 2011, ma senza la mitica Delorean (l’auto mutata e divenuta mezzo per i volti transtemporali), bensì solo con la forza di volontà.
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Un’impresa. Forse la più grande della sua carriera, per poco non bissata il giorno successivo, quando per sconfiggerlo il connazionale Martin Fischer dovette ricorrere al tie break del terzo set, e più grande dimostrazione che la volontà di Muster, a quasi 44 anni, era più viva che mai, sicuramente più di quella di tanti suoi colleghi di 20 anni più giovani. Qualche settimana più tardi Muster avrebbe sì posto fine alla sua carriera, probabilmente consapevole che quelle risposte che andava cercando le aveva trovate in un pomeriggio settembrino, in un bucolico paesino umbro. Nel 2011, 16 anni dopo il suo anno da dominatore nel circuito professionistico, quasi 30 stagioni dopo quella del suo esordio. Distanze epocali, che strizzano l’occhio alle gesta di Marty McFly ed del dottor Emmet (quello del nome costruito sulla parola Time) Brown che lungo questo lasso temporale avevano costruito buona parte dei loro viaggi. 30 anni avanti e 30 anni indietro. Thomas non potrà fare tanto, ma mentre ad Hill Valley, California, uno studente liceale ed un eccentrico scienziato trovava la chiave per viaggiare nel tempo, nel Sud America, a Belo Horizonte, un 18enne austriaco poneva le basi per emulare il loro tentativo. Senza alcun marchingegno, però, solo con la propria forza di volontà.
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