di Sergio Pastena
C’è un video su YouTube, l’Atp Play of the Week del 16 giugno 2005. In campo Murray contro Thomas Johansson: Andy serve e fa per scendere a rete, si trova una risposta tesa tra i piedi e appoggia una palla corta arrangiata su cui lo svedese si avventa di diritto. Lo scozzese risponde con un pallonetto di rovescio da antologia, Johansson sbuffa e insegue, si salva, ma poi deve ricominciare a correre: Murray ha giocato un drop shot. Lo svedese ci arriva ancora, con la punta della racchetta, ma poi rinuncia a correre di fronte a un altro pallonetto millimetrico. Roba alla Fabrice Santoro, per intenderci: cercatelo e guardate, ne vale la pena. Ecco, quel punto mi dà la stessa sensazione di quando ascolto “Mio fratello è figlio unico”, rappresenta quello che poteva essere e non è stato. Solo che Rino Gaetano purtroppo è morto, Andy Murray è vivo e non oltrepassa più la riga di fondo per motivi religiosi.
Ora, prima che qualcuno mi accusi di idealismo, metto le mani avanti: so bene che un professionista del tennis gioca per i soldi e le vittorie, non per gli applausi della critica. Chi si fa bastare quelli chiude la carriera con qualche titolo 250 all’attivo, una semifinale di Slam buttata via e gli elogi degli amanti della bellezza (vero Xavier?). Federer, ad esempio, ha modificato molto il suo gioco e per questo in tanti l’hanno criticato: però ha vinto una valanga di Slam ed è entrato nella storia di questo sport. Tutto legittimo. Ma se imbruttisci il tuo gioco e vinci sei pragmatico, se lo fai e perdi lo stesso più che altro sei un pelino pirla (lo dico con simpatia, non sia mai qualche scozzese dovesse offendersi…). Ecco, questo è il rischio che corre Andrew Murray da Dunblane.
Lo scozzese aveva avuto un tabellone benedetto: dopo il primo turno con Karol Beck ha incrociato Marchenko e poi Garcia-Lopez, l’ultima testa di serie. Quindi lo scontro più impegnativo con Melzer, che Murray ha vinto agevolmente mostrando un gioco straordinario. A quel punto, arrivato ai quarti, dovresti beccare Soderling e Nadal, invece ti trovi contro Dolgopolov (gran giocatore, ma con poca esperienza a questi livelli) e Ferrer in semifinale. Con un tabellone così, vista la scarsa lena di Melzer, la finale sarebbe stata fattibile per un Top 20 a caso. In finale, poi, ti capita Novak Djokovic, abbinamento sicuramente più gradito di Federer. Per inciso: il serbo (che non amo assolutamente) ha fatto una grandissima partita ed ha strameritato il trionfo finale. Ma qui parliamo di Murray.
Già contro Ferrer si erano avute sinistre avvisaglie: lo scozzese per i primi due set si è messo a fare il “muro contro muro”, unico modo possibile per mantenere in gioco un avversario nettamente inferiore. Tommasi ha scritto sulla Gazzetta: “Poteva sembrare una tattica suicida quella di Murray che ha insistito a fare della regolarità contro un maratoneta come Ferrer”. Ora, io sono un signor nessuno, ma stavolta proprio non posso essere d’accordo con il grande Rino, anche quando sostiene che se Ferrer fosse andato sopra di due set sarebbe cambiato poco. La sua tattica non è che “poteva sembrare suicida”, la sua tattica “era suicida”. Nel secondo set Murray non ha solo salvato un set point: a un certo punto su una palla break ha infilato una “seconda a mò di prima” e nel punto successivo si è procurato il vantaggio giocando un’altra rischiosissima seconda di servizio, uno slice molto angolato che ha spazzolato la riga. Nel terzo set Andy ha liberato il braccio e lì ha chiuso la partita, giocando poi bene i punti decisivi nell’ultimo tie-break (salvo un passaggio a vuoto all’inizio del quarto contro un avversario che, per definizione, non molla mai).
Più che parlare di una finale a senso unico vorrei parlare di due punti. Nel primo set, sul 4-5, Murray e Djokovic hanno giocato un rally di 38 colpi, infinito. Almeno due volte lo scozzese ha spostato Djokovic procurandosi l’opportunità di avanzare a rete e chiudere: non ci ha provato, ha perso punto, game e set. Nel secondo, invece, mentre cercava la rimonta che avrebbe cambiato la partita, ha sparato una palla all’incrocio sulla quale il serbo si è salvato con una specie di parabola, angolata ma alta, che è passata esattamente per la “T” del servizio: se Andy avesse fatto due passi avanti avrebbe chiuso con una volèe comoda, se ne avesse fatto uno avrebbe potuto giocare uno schiaffo al volo che sarebbe stato nelle sue corde, invece è rimasto fermo e ha permesso al serbo una transizione difesa-attacco che gli ha procurato il set point sul quale si è di fatto chiusa la partita.
Gli inglesi ne hanno abbastanza di casi da psicanalisi: sono già trumatizzati dalla parabola di “Timbledon” Henman, perfetto british, quattro volte semifinalista nello slam londinese e mai vincitore. C’è da scommettere che se va così per altri due anni cominceranno a ricordarsi che in fondo è scozzese e lo massacreranno stile Bogdanovic (la stampa britannica in questo è maestra). Murray va per i 24 e dovrebbe essere nel meglio: dai 23 ai 28 si dovrebbe spaccare tutto, giusto? Intanto ogni Slam è un’occasione persa: a volte va fuori con tennisti forti ma non imbattibili (Wawrinka, Cilic, Gonzalez, Almagro), altre arriva in fondo e sbatte contro uno dei big (Federer, Nadal, Djokovic). Qualcuno gli dicesse che vincere uno Slam senza beccare uno dei primi dieci al mondo è un evento più raro dell’eclissi di sole. Ci è riuscito Thomas Johansson, proprio colui che il buon Murray, a diciannove anni appena compiuti, ha sbertucciato al Queen’s. A parte la riflessione su quei due punti cosa resta di questa finale? Ben poco, salvo la faccia costernata della madre di Andy (simpatica come una randellata negli zebedei) che per puro sadismo vi andiamo a proporre.
Salvate il soldato Murray, prima che sia troppo tardi.
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