Quanto è sottile la linea che separa la gioia più grande dalla più grande delusione? Con ogni probabilità, fino a domenica scorsa, i milioni di tifosi di Roger Federer sparsi per il pianeta – dei quali una piccolissima porzione, la più privilegiata (?), era proprio lì, a pochi metri da lui, dentro la cattedrale a pregare insieme a Mirka – non lo sapevano.
La sottile linea è stata quella tracciata dal passante di dritto di Djokovic che ha terminato la sua corsa una manciata di centimetri all’interno della riga laterale con lo svizzero, scavalcato, che ne seguiva con apprensione la parabola. In una sfida costellata di punti eccellenti da entrambe le parti, quello è stato il momento chiave, lo spartiacque. Era la seconda palla-match consecutiva per Federer, successiva di qualche secondo a quella in cui la solida risposta del serbo aveva trovato il rivale con la palla addosso e quindi forzandolo a un dritto sghembo uscito di lato. Questa volta invece Djokovic aveva ribattuto corto e lo svizzero non aveva esitato a cercare la rete, incrociando il dritto e forzando l’avversario al passante. Ma era un dritto senza la dovuta profondità o forse indirizzato dalla parte sbagliata o forse, semplicemente, era un dritto a cui mancava la certezza di chiudere il punto, ovvero che rimetteva sulla racchetta e nei nervi del serbo la responsabilità della scelta finale. E la scelta di Djokovic era stata la migliore possibile. L’unica.
Quello dunque è stato, per Federer, il punto di non ritorno all’interno di un pomeriggio londinese in cui ragione e sentimento, in fase di giudizio, suggeriscono opinioni pressoché diametralmente opposte. Si era infatti sulla situazione di 8-7 e 40-30 al quinto set e fino a quel momento l’elvetico aveva sopportato imperturbabile il ruolo dell’inseguitore nonostante tutti (o quasi) gli indicatori statistici lo vedessero prevalere, in alcuni casi non di poco. Aveva retto, Federer, anche al break che pareva dovesse chiudere la contesa, quando il serbo era salito 4-2 e le energie, fisiche e mentali, sembravano essere scese sotto la riserva. E poi c’era quello che, in assenza di alternative, ci ostiniamo a chiamare destino, racchiuso nei numeri e nella storia: la possibilità di vincere 9-7 al quinto dopo aver perso due set al tie-break, così come aveva perso 9-7 al quinto dopo aver vinto due tie-break quell’altra finale, quella famosa del 2008 con Nadal.
Dicevamo della ragione e del sentimento.
Il sentimento è una ferita aperta da cui sgorga il sangue di ventidue sconfitte maturate a un passo dalla vittoria e di cui questa è la più dolorosa, irrimediabile. Il sentimento è la sensazione di aver riposto un fantasma, quello di Nadal, nell’armadio e ritrovarsene uno uguale se non peggiore nel letto. Il sentimento è la percezione – peraltro errata – che in fondo ogni volta che c’è stato da lottare e vincere una sfida importante al foto-finish lo svizzero abbia fallito. Il sentimento, infine, è la rabbia di sentirsi traditi dopo essere stati illusi.
Ma la ragione.
La ragione è tutto il resto, ovvero quasi tutto.
La ragione è che a trentotto anni meno qualche settimana tutti gli immortali che l’hanno preceduto – fatte un paio di eccezioni – avevano appeso la racchetta al chiodo già da tempo e contrassegnato le rispettive ultime stagioni con sconfitte ad ogni livello e turno. Per gli smemorati o per coloro che hanno iniziato a seguire il tennis da poco, è bene ricordare che la semifinale del 33enne John McEnroe a Wimbledon nel 1992 fece notizia, così come la finale del 35enne Agassi agli US Open 2005. Jimmy Connors, termine di paragone in quanto a longevità – anche e soprattutto per via della famosa semifinale da quarantenne agli US Open 1992 – nella sua stagione dei trentotto giocò e perse tre sole partite e in quella precedente ebbe un bilancio di 31-13 con due soli tornei (minori) vinti. Borg smise a 26 anni, Sampras aveva 31 anni quando conquistò gli US Open e subito dopo si ritirò, Becker 32, Edberg 30, Lendl 34.
La ragione è che lo svizzero è stato due volte ad un solo punto dal trionfo e ha portato al venticinquesimo gioco del quinto set il numero 1 del mondo, che ha 5 anni in meno, ha fatto suoi quattro degli ultimi cinque slam, è solo l’unico tennista dal 1969 ad aver detenuto contemporaneamente tutti e quattro i major nonché l’unico ad aver vinto tutti i 1000 e il Masters.
La ragione è che Federer è tuttora il terzo tennista del ranking ATP, con un vantaggio di quasi 3000 punti sul quarto, ha la più alta percentuale di incontri vinti in stagione (88%) e un bilancio, sempre nel 2019, di 4-4 nei confronti con i top-10
La ragione, per finire, è che in realtà di finali al quinto set negli slam ne ha vinte quasi la metà (4 su 9) così come ha portato a casa 18 incontri annullando match-point. La ragione, insomma, è che dovremmo capire come la regola sia vincere e perdere mentre vincere spesso sia l’eccezione; 1222 vittorie e 102 titoli sono l’eccezione e tale restano, anche se, dopo oltre quattro ore di battaglia, non sei riuscito a mettere il dritto negli ultimi centimetro di campo.
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