Se Durango batte San Diego


di Roberto Commentucci
Gli appassionati italiani di tennis trascorrono un week end sulle orme di Tex Willer, l’indimenticato Ranger scaturito dalla fantasia di Gianluigi Bonelli e dalla matita di Aurelio Galeppini.
A San Diego, costa meridionale della California, al confine con il Messico, va in scena l’ennesima recita del nostro squadrone di Fed Cup, un team granitico non solo nella coesione di squadra, ma anche nelle certezze tecniche. Quando vinci gli Slam, quando giochi i Master, in singolo e in doppio, quando sei abituato a fare match pari con le top 10, quando hai un movimento che si aggiudica ogni anno, da un lustro, 3 o 4 tornei del circuito maggiore, e che esprime ben 7 top100, quando guidi con notevole distacco la classifica per nazioni dell’ITF, nessuno è più autorizzato a parlare di Pirro Cup. L’Italia in rosa è una bellissima realtà sportiva, che conquista tifosi, attenzione, interesse mediatico. Sui siti e sui media stranieri le nostre ragazze sono protagoniste fisse, Wta e ITF fanno a gara nel metterle in prima pagina, Eurosport le eleva a protagoniste degli spot di presentazione dello US Open e del Master di Doha.
Eppure…
Eppure, la sensazione è chiara, e sgradevole. Nonostante le ospitate tv, da Chiambretti a Porta a Porta, nel nostro paese le ragazze non “sfondano”, non riescono a fare breccia, come invece meriterebbero, sul pubblico generalista. Il trionfo della Schiavone a Parigi è stato giustamente salutato come un evento storico, la diretta in chiaro su Rai 2 della finale, affannosamente messa in onda dal Philippe Chartrier, ha fatto ben 2 milioni di telespettatori (massimo ascolto per un match di tennis in Italia dalla finale di Davis Italia-Svezia del 1998), ma poi ecco che per questo match di San Diego, finale di un campionato del mondo, la Rai fa retromarcia e condanna ancora una volta le nostre al confino sul satellite.
Perché questo paradosso? Perché all’estero si e in Italia no? Nemo propheta in patria?
La risposta a questa domanda è in una cittadina messicana non troppo lontana (pergli standard del continente americano) da San Diego, che porta lo stesso nome del villaggio western frequentato da Tex Willer. A Durango, 400.000 abitanti a 1.880 metri di altitudine, nel locale torneo Future da 10.000 dollari, nel tabellone di qualificazione, contro uno sconosciuto carneade locale, fa il suo esordio nel professionismo un ragazzino marchigiano di 14 anni, tale Gianluigi Quinzi.
Sotto il profilo tecnico, si tratta di un evento insignificante.
A San Diego i nastrini e le paillettes, le luci della grande ribalta, il perfetto stile hollywoodiano, il grande pubblico dello sport-business USA (sempre maestri, gli americani, nel “creare” gli eventi), i giornalisti accreditati, il presidente dell’ITF, eccetera eccetera.
A Durango, strade polverose, favelas, cactus e deserto, un circolo dimenticato da Dio, spelacchiati campi in cemento. Un contrasto stridente.
Eppure, incredibilmente, nei discorsi tra gli appassionati, nei commenti sui forum e sui siti specializzati, sui social network e nelle chat, le piazze virtuali dove la piccola comunità del nostro tennis è solita ritrovarsi, non si parla di altro che di Quinzi. Si, si, le azzurre, la Fed Cup, che brave le nostre, stasera le vediamo in tv.
Ma tutti quanti, sotto sotto, in un angolino del loro animo, non possono fare a meno di pensare all’esordio di Quinzi, il mancino di Cittadella, la Grande Speranza, il Portatore dell’Anello,il novello Frodo di tolkeniane memorie, colui che già sostiene sulle spalle da adolescente il pesantissimo macigno del riscatto di un movimento maschile che agonizza da 30 anni. “Si qualificherà?” “Riuscirà a prendere il primo punto Atp”? “Ma lo sapete che sarebbe il più giovane italiano di sempre ad entrare in classifica mondiale?”. Un tam tam ossessionante, una attesa spasmodica, messianica, che manco gli ebrei dopo le profezie di Giovanni Battista.
Ecco, ora lo sappiamo, perché, per il tennis italiano, Durango batte San Diego. Se Quinzi vincerà un match in tabellone, si parlerà più di lui che della terza Fed Cup.
Le nostre fantastiche ragazze non lo meritano, ma questa è la realtà.

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