di Roberto Commentucci
Il tennis femminile nel nostro paese continua a scontare, anche fra gli appassionati, un forte gap di popolarità rispetto a quello maschile. L’interesse della maggioranza resta focalizzato sul circuito Atp e solo di recente, soprattutto per merito delle nostre giocatrici, i media e il grande pubblico hanno rivolto maggiore attenzione alle racchette rosa, in primis a Flavia Pennetta, la nostra numero 1.
Davvero sconfortante, però, è la scarsa attenzione riservata ad un’altra tennista azzurra, il cui percorso di carriera e le cui vicende agonistiche dovrebbe essere invece oggetto di analisi minuziosa, rappresentando un fulgido esempio di ambizione, determinazione, coraggio e professionalità.
Stiamo ovviamente parlando di Saretta Errani, il soldatino d’acciaio del nostro movimento femminile, che in questa settimana di vigilia degli Australian Open è l’ultima superstite della pattuglia azzurra, con la semifinale centrata nel Wta di Hobart (220.000 dollari, cemento).
Una semifinale raggiunta con grande merito, non tanto per la vittoria nei quarti contro la qualificata belga Kristen Flipkens, classe ‘86 n. 80 del mondo, ma fin qui una carriera quasi tutta passata nei tornei minori, quanto per le due magnifiche battaglie ingaggiate nei primi due turni contro due temibili giovani emergenti: la stellina americana Melanie Oudin, sconfitta 75 al terzo dopo una estenuante maratona, e la potente ucraina Katerina Bondarenko, fatta fuori nel secondo turno.
Personalità dalle due facce, la nostra Sara. Timida e mite fuori dal campo, il sorriso ad illuminare due occhioni dolcissimi, in gara – ma anche in allenamento – si trasforma e diviene un belvetta sanguinaria. Una combattente di razza, dotata di un coraggio incredibile e di una sconfinata capacità di soffrire.
E così, nonostante una taglia atletica non certo da wonder woman, nonostante i cronici problemi nell’esecuzione del servizio (complicato da una perniciosa rigidità nell’articolazione della spalla), nonostante il peso di palla non possa essere, inevitabilmente, quello delle “Big Babies” delle ragazzone tutte muscoli e centimetri che dominano il circuito femminile, Sara a soli 22 anni si è ritagliata un posto al sole di tutto rispetto: due tornei Wta vinti in carriera, due finali, 5 semifinali, un best rank di n. 31 del mondo e tante battaglie ingaggiate contro tenniste di livello, tra cui spiccano le due magnifiche – ancorché sfortunate – prestazioni contro Lindsay Davenport agli Australian Open nel 2008 e contro la n. 1 del mondo Dinara Safina nella finale di Portorose 2009, rimaste indelebili nella memoria degli appassionati che hanno avuto la fortuna di assistervi.
“Volli, sempre volli, fortissimamente volli”. Sara è la dimostrazione vivente che Vittorio Alfieri avrebbe qualcosa da insegnare, nell’atteggiamento e nelle scelte di carriera, ai nostri aspiranti tennisti.
Perché il tennis professionistico non è solo una questione di chili e centimetri. Vi sono anche altre qualità, che possono farti emergere: rapidità di spostamento, intelligenza tattica, capacità di variare ritmo e traiettorie, tenuta mentale, tocco di palla (la nostra Sarita non disdegna le apparizioni a rete, dove se la cava sorprendentemente bene) enorme capacità di soffrire in difesa, straripante personalità agonistica. Sul piano tecnico, Sara si è costruito un diritto arrotato e pesante, dal rimbalzo alto e fastidioso, e un rovescio bimane più piatto, giocato splendidamente in corsa, con cui l’azzurra tiene molto bene la diagonale e trova buone variazioni.
Ma a fare la differenza, nel gioco della romagnola, non sono tanto gli aspetti tecnici.
E’ quella piccola cosa che batte nel petto, che ti fa sentire vivo, che accelera quando sei emozionato, che ti salta in gola quando arriva il momento cruciale, che marca la differenza fra il coniglio e il leone.
Il cuore.
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