di Luca Brancher (da Miami)
Non mi stupivo di essere praticamente solo. Non lo ero, perché un match tra Simon e Schuttler non ha l’appeal di molte altre partite che si disputano nel corso di un torneo come Miami a livello di terzo turno. Non lo ero anche perché lo relazionavo al fatto che in contemporanea giocasse una delle sorelle Williams (Serena o Venus, chissà quale) e che stesse per cominciare un incontro che invece sortiva nello spettatore medio tutt’altre sensazioni, Monfils-Safin.
Non mi stupivo, no, e notavo che, a parte alcune tifose francesi e qualche altro curioso che accorreva giusto il tempo di seguire qualche scambio, il mio ragionamento non aveva modo di essere contraddetto. Eppure era tutto il giorno che non aspettavo altro: trovare posto sul campo numero 2 e seguire il match tra il top-10 francese e il vetusto arbeiter tedesco.
Scelto, ovviamente senza troppa concorrenza, un posto all’interno dello stadio, nell’attesa dell’ingresso dei giocatori e del consequenziale riscaldamento, la solitudine nella quale bivaccavo mi permetteva una piccola digressione sul perché mi trovassi lì, alla disperata ricerca di veder giocare il tennista nizzardo, mentre diversi flash-back mi affollavano la mente, senza alcun rigore logico, in un flusso continuo e inarrestabile.
Ripensavo ai suoi primi due successi challenger, entrambi ottenuti nel torneo inaugurale dell’anno a Noumea, nel 2005 e nel 2006, a quella sconfitta in cinque set, da due set avanti, contro Seppi nel turno decisivo di qualificazione a Wimbledon ‘05, alla finale di Valencia 2006 dove venne sconfitto da Almagro, al ritiro in semifinale nel torneo di Casablanca che avrebbe spalancato a Bracciali le porte del primo titolo Atp della carriera, al primo successo Atp invece conquistato dal pulcino francese a Marsiglia (2007), anche se il vero spartiacque, quello che mi ha fatto diventare un appassionato d.o.c. del tennista transalpino, è stato l’incontro di secondo turno contro Guillermo Canas al Foro Italico, due anni fa.
Era il Canas reduce dai due successi epici su Roger Federer nei Master Series americani, tratteggiato come una sorta di Mefistofele, perdipiù su quella terra rossa che lo aveva visto risorgere dalle ceneri causate dalla squalifica per doping. Sembrava un match segnato in partenza, un incontro che prima o poi avrebbe visto l’argentino prendere il sopravvento sul malcapitato francese. E invece, più il tempo passava, più Simon prendeva l’iniziativa e portava il match dalla sua, con quel suo caratteristico rovescio bimane colpito così in basso, con quel dritto tecnicamente poco ortodosso – ma che nei momenti opportuni esce dalle corde con tanta velocità e precisione – con quella sua capacità di saper sempre prima dove mettere la palla. In poco meno di due ore, dopo due set lottati, Gilles si aggiudicava il match e lasciava in me la sensazione di aver trovato in un tennista quello che il mio gusto andava ricercando da tempo, in mezzo ad uno scenario attuale nel quale ben poco sapeva, e sa, farmi appassionare.
Arriverà il 2008, arriveranno i successi su Djokovic, su Nadal, su Federer (due volte) e la qualificazione al Master, arriverà il grande pubblico ad accorgersi di lui, compresi i tifosi dell’ultima ora pronti ad inneggiarne le gesta, salvo scaricarlo al primo passo falso, definendolo giocatore noioso e costruito. Ciò che non passerà sarà invece la mia ammirazione per Gilles, tennista in grado di rendere ogni singolo attimo di un suo incontro, almeno ai miei occhi, ricco di spunti e mai banale, come se riuscisse a conferirne un significato sempre diverso, staccandosi dalla massa dei giocatori “corri e tira” che impazzano nel mondo Atp. Perché quella che per molti è noia è in realtà capacità di far scorrere la partita lungo i binari a lui graditi, perché quello che per molti è tennis costruito è in realtà l’esemplificazione di come sia possibile ottimizzare al massimo il proprio tennis, senza per questo dover rinunciare a fare il proprio gioco, a cercare il punto, ma non abbandonando un canovaccio tattico che ben si presta a sgretolare le certezze dell’avversario.
Mentre i miei pensieri continuavano a fluire con impressionante vividezza, Simon non appariva sul campo brillante come lo era nei miei ricordi, tanto che Schuttler conquistava il primo set e, quando trovava il break all’inizio della frazione successiva, sembrava sul punto di ammazzare una partita che aveva mostrato il lato peggiore del transalpino, incapace di rimanere concentrato e tranquillo. Fortunatamente per me, e per quelle tifose francesi ancora strenuamente presenti sul campo numero 2 di Key Biscayne – in una delle giornate meno calde del torneo – Simon trovava il bandolo della matassa, come tante volte aveva saputo fare nel corso della sua carriera, dominando da quel momento in poi l’incontro, come esemplificato da quel parziale di 23 punti consecutivi vinti a cavallo tra secondo e terzo set, prima di mettere in rete una facile volèe di diritto. Che comunque non cambiava l’esito di un incontro che il francese vinceva dopo essere stato sul punto di perdere: un film già visto tante volte o no?
“Cosa vado cercando nel mio futuro tennistico? Non mi interessa per quanto tempo resterò nei 10, mi interessa soltanto cercare di migliorarmi: il mio best ranking al momento è il numero 6, ora farò di tutto per raggiungere il numero 5, così, quando avrò smesso, potrò dire a me stesso: ‘Bene, hai tratto il massimo dalle tue possibilità’”. Se riuscirà o meno ad issarsi fino alla top-5 mondiale solo il tempo saprà dircelo, che ce la faccia o meno non cambierà però quello che Gilles ha saputo dare a me e ai suoi tifosi: in un mondo di cloni e di presunti fenomeni, di maestri di stile e di fisici possenti, il suo tennis riesce ancora oggi a saper farmi emozionare. E lo saprà fare anche domani: e se sarà top-5 o meno non avrà poi tutta questa importanza.
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