Vent’anni di carriera sono tanti, sono un pezzo enorme della tua vita. Vent’anni abbracciano il momento in cui non sei più adolescente e capisci cosa vuoi fare da grande, abbracciano i giorni che vivi da grande mentre il tempo ti divora come fossi la sua cena. Quando Andreas Seppi è diventato professionista (o meglio c’è un dato dell’ATP che lo certifica, perché uno così professionista lo è sempre stato), avevo 14 anni. Per la testa mi girava altro, ma altro davvero, eppure me lo ricordo Seppi, con quel cappellino all’indietro.
Me lo ricordo esordire in Coppa Davis contro la Georgia nel 2004, battere Juan Carlos Ferrero nel 2005 e portare a casa due punti vitali con il Cile nel 2012.
Me lo ricordo battere Rafa Nadal (in rimonta) a Rotterdam nel 2008 e Roger Federer a Melbourne nel 2015. Con lo svizzero serviva sul 6-5 nel tie-break del quarto set e fece rimbalzare nervosamente la pallina almeno venti volte prima di servire. Risposta aggressiva del Re, seguita da un dritto d’attacco angolato e abbastanza profondo. Poi, quel passante. Ve lo ricordate quel passante?
Me lo ricordo, Andreas, arrivare in finale a Gstaad nel 2007 e perdere sul filo di lana con il francese Mathieu. Ma lo ricordo anche sorridere alzando al cielo il trofeo sull’erba di Eastbourne nel 2011 dopo la vittoria su Janko Tipsarevic. Ancora non sapeva che sarebbe diventato presto il primo tennista italiano a vincere tre titoli ATP su tre superfici diverse (Belgrado 2012, terra – Mosca 2012, veloce).
Me lo ricordo, perché ero lì, esplodere sul Pietrangeli dopo le tre ore e ventun minuti necessarie per piegare la resistenza di Stan Wawrinka al Foro Italico. Me lo ricordo inginocchiarsi, stringere i pugni e gettare una pallina a quel pubblico che aveva visto il giorno tramutarsi in sera insieme a lui.
E poi le 4 ore 12 in cui ha tenuto in campo a Parigi l’allora numero 1 del mondo, Novak Djokovic, costringendolo a rimontare con estrema fatica due set di svantaggio. Mi ricordo le maratone con i più giovani, tanto per fargli capire cosa significasse provare a batterlo sulla lunga distanza.
Mi ricordo le sue interviste. Così rare, così lucide e piene di educazione e rispetto. Rispetto degli altri, di sé stesso e di uno sport che ha amato follemente fino all’ultimo giorno. Un ultimo giorno che sta per arrivare. Nell’anno degli adii, quello di Ortisei è destinato in un modo o nell’altro a lasciare il segno.
Me lo ricorderò, ce lo ricorderemo.
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