di Andrea Villa
Il più grande, il maggiore, esperto, dotto in una scienza, in un’arte o mestiere: l’etimologia della parola maestro offre tutto quello di cui abbiamo bisogno. Questo dovrebbe essere sempre il punto di partenza, l’abbrivio che indica la via, la strada dove trovare conoscenza, capacità e progresso. Purtroppo le questioni filosofiche non sono sufficienti ad abbracciare ogni perché, tutte le opinioni, le tante diversità; non bastano a chiudere con certezza le discussioni in merito ad una figura fondamentale, di valore inestimabile, spesso avvicinata a qualcosa che in realtà non vuole essere. Il rischio di classificare, definire, usando squadra e righello, tirando linee e confini, è esercizio in cui l’uomo cade volentieri, come se non cercasse altro, continuamente desideroso di fissare parametri. Il tennis è la mia vita, e ancora oggi chiedo a me stesso se riuscirei a escluderlo dal quotidiano, a cancellarlo con un netto colpo di spugna. Gli allievi mi chiamano maestro, pensando che abbia nella testa tutto lo scibile umano tennistico o quasi, un portatore di teorie ed esperienze, da tramandare agli altri, come un mantra da consegnare al futuro. Nelle tasche ho sempre molti dubbi, rare certezze e voglia di scoprire, di andare oltre, di non restare fermo: chi può darmi tutto questo? Una congrega di menti illuminate che si autodefinisce Federazione? Oppure l’unione di altri insegnanti, vecchi cavalieri capaci di comprendere se sono adatto al tortuoso compito? Non ho risposte, soltanto sensazioni che si alternano buone fra le cattive, chiare tra tante oscure. Allora chiedo al saggio, all’uomo dalle mani rugose, dai calli eterni, dalle dita segnate per troppe corde tirate e spostate, dalla faccia sempre sorridente dopo mezzo secolo passato a calpestare una terra che qualcuno non vorrebbe più rossa. Domando e contemporaneamente illustro, pensando di proporre novità e innovazioni, argomentando e usando termini che credo sconosciuti: errore di gioventù, inevitabile trappola. Le longeve labbra si aprono invece simili alle pagine di un libro, ingiallite e piene di impronte, colme di significati che il moderno prova a rinnovare, e talvolta a buttare via, convinto di poter rimpiazzare anche la memoria. Raccontano di racchette di legno dal manico segato, di palline sgonfie e campi disegnati a metà, di reti abbassate per rendere il gioco più vicino alle esigenze dei piccoli tennisti. La parola mini tennis non viene mai pronunciata, perché si passa ai tanti raduni fatti, ai centri estivi, alla ricerca del talento più luminoso, di quello da aiutare economicamente e non solo. Una leggera pausa per una caramella da gustare, da assaporare insieme per cogliere i primi sospetti, gli indizi che potrebbero fare più di una prova. Dal cilindro dei ricordi saltano fuori riunioni e associazioni, spazzini e sciatori, allenatori e istruttori, pronti ad unirsi per dividersi, a sottoscrivere regole e regolamenti, per avere diritti e pensioni: quanti tentativi andati a vuoto, doppi e tripli errori, buone intenzioni puntualmente sbriciolate da interessi individuali, piccole cricche, troppa ignoranza. L’elenco delle riforme starebbe comodo su una lunga pergamena, dei presidenti arrivati e spariti, dei giochi politici, dei voti comprati e regalati, delle ripicche lecite e non, dei nemici che improvvisamente diventano amici. Una risata sincera scappa quando il decano mima un diritto a serra manico, e poi un rovescio a coda di porco, una presa a maniglia, un servizio twist e un’improbabile volèe rovesciata. Due figli quasi campioni, e migliaia di genitori incontrati, da tenere a bada, da ascoltare, con cui collaborare; un equilibrio che si trova soltanto tra persone intelligenti e aperte, che non amano la prevaricazione, ma hanno un solo obiettivo comune: la felicità dei ragazzi. La formula vincente non esiste, è una chimera, forse un bisogno, l’unica spinta vitale, quella che porta a sfiorare i limite. Chi può addestrarmi per arrivare ad essere il più grande, il maggiore, dotto nella misteriosa arte dell’insegnamento? Il guizzo arriva quando il saggio rimembra come ha passato l’esame agli albori della Scuola Maestri: riuscendo a far prendere la palla ad un principiante, dopo che molti avevano fallito, e per questo erano stati bocciati. L’allievo che ha imparato lo deve a se stesso, ma anche ad una guida sapiente, preparata ad affrontare ogni avversità, pronta a continue trasformazioni. Forse tutto è già stato provato ed inventato, sperimentato, rivoltato, cambiando etichette e nomenclature, con il rischio di spostare l’attenzione dalla sostanza, dal saper riconoscere un bravo maestro. Sento la testa rovente, tuttavia pervasa dalla convinzione di volerci provare, per meritarmi veramente di essere chiamato maestro. Finita la lezione con Giulia esulto per i suoi progressi, anche se presto la perderò, perché volerà sopra l’oceano per atterrare dove è più facile studiare Socrate e Seneca, Aristotele e Orazio; un viaggio lontano con la speranza del ritorno, per mettere un po’ d’ordine nel geniale pressapochismo italiano.
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