Ci piace pensare che sia andata così, e con ogni probabilità quello che vi stiamo raccontando non si discosta troppo dalla realtà, perché un messaggio, contenente i concetti sotto riportati, è stato effettivamente recapitato sul telefonino di una ragazza nativa di Ossining, stato di New York, poco più di due settimane fa.
“Complimenti Jamie! Eravamo sicuri che ce l’avresti fatta: goditi il successo, te lo meriti davvero! John”.
Questo semplice pensiero, per giungere a destinazione, ha dovuto attraversare l’intero Oceano Atlantico e non solo, poiché da Parigi ha percorso la tratta aerea fino al nord dello Stato del Texas, per planare a Waco, palcoscenico, per la prima volta, dei campionati nazionali NCAA. John, Parigi: se pensate che questo John abbia a che fare col Roland Garros non siete assolutamente fuori strada, anche perché, essendo su Spaziotennis.com, d’accordo sfociare in altri ambiti, ma un limite è giusto darselo. Non è Isner, anche se di lui parleremo più avanti, perché torna, eccome se torna, dal momento che lui è nativo del North Carolina, ma qui si tratta del “John” per antonomasia del tennis, vale a dire il grande McEnroe, impegnato per motivi mediatici all’Open di Parigi. Jamie, invece, è Jamie Loeb, sophomore – studentessa al secondo anno – alla Università del North Carolina, appena laureatasi campionessa nella manifestazione sopra citata, al termine di una finale combattuta, disputata in un clima da tregenda. Ora, per quanto ci possa essere stima, cosa avrà spinto McEnroe, appena concluso il primo lunedì del Roland Garros, a prendersi del tempo per scrivere questo messaggio? Scopriamolo assieme.
Winston-Salem, High-Point e Greensboro formano, all’interno della North Carolina, una subregione denominata Piedmot Triad, dal cui nome si desume una morfologia collinare, che ha una certa centralità nel mondo attuale del nostro sport. A Greensboro, infatti, è nato ed è cresciuto John Isner, numero 1 in uno dei periodi meno floridi per la racchetta a stelle e strisce, mentre Winston-Salem ospita uno dei tornei ATP del circuito delle U.S. Open Series, proprio quello che funge da preludio allo Slam di New York, major a cui prenderà parte la stessa Loeb, che deve indirettamente all’ateneo che ha sede proprio in questa città, quello di Wake Forest, che ora ospita l’ultimo vincitore di Wimbledon Juniores, Noah Rubin, la sua attuale posizione sportiva, dal momento che ha ospitato tra le proprie affiliate, circa un decennio fa, tale Jenna Loeb, sorella di Jamie, che pur non avendo mai paventato propositi di professionismo, si è impegnata col tempo nella pratica tanto da meritarsi una borsa di studio per questo ateneo: guardandola giocare la giovane di casa Loeb – nata il giorno della festa della Donna nel 1995, ed ha anche altri due fratelli maggiori – si è appassionata. In famiglia si narra pure che Jamie abbia deciso che sarebbe stato opportuno dedicarsi al tennis quando, da teenager – non precisa quando, ma si immagina fosse comunque molto giovane – sconfisse il fratello maggiore, che di anni più di lei ne ha ben 16.
Non che fosse solo merito di Jenna, e che non fosse solo la sorella maggiore l’unica fonte di ispirazione della piccola Jamie era immediatamente chiaro. Vivendo ad Ossining, con un viaggio di 40 minuti poteva raggiungere il Billie Jean King Tennis National Center, teatro dello Slam statunitense. Ogni anno, la famiglia Loeb, almeno nella sua parte femminile, era presente a New York nel corso di quelle due settimane magiche, perché consisteva in qualcosa di speciale per la piccola Jamie poter assistere agli incontri dei suoi idoli dal vivo. Non che ci voglia un genio per immaginare quale fosse il sogno che covava: un giorno, su quel campo, ci sarebbe dovuta essere anche lei. Durante il secondo anno della high-school, che ha frequentato nel paese natale, Jamie Loeb si è laureata campionessa statale, titolo che le conferiva una certezza: per i restanti anni in cui avrebbe dovuto frequentare quella che da noi sarebbe la scuola dell’obbligo, avrebbe optato per proseguire il suo corso di studi da casa, così da concentrarsi maggiormente nel conseguimento di quell’obiettivo nato ai bordi di uno dei campi di Flushing Meadows: diventare una pro’. Ed è a questo punto che entra in scena John McEnroe, perché la struttura che la famiglia Loeb scelse come appoggio è proprio l’Academy che il mitico Mac aprì presso la Sportime, sita nella Randall’s Island, nel settembre del 2010: e quando Jamie si è presentata alla porta, le lezioni erano da poco cominciate, ovvero a cavallo tra l’anno inaugurale ed il successivo.
Il sodalizio stretto ha generato i propri frutti, per quanto Jamie fosse una ragazza che, pur manifestando un grande amore per il tennis, non adorasse quella faticosissime sessioni di atletica che le venivano impartite: sin da subito, oltre agli israeliani Gilad Bloom ed Harel Srugo, ad affiancarla passo dopo passo è stata una delle persone di riferimento per lo stesso McEnroe all’interno dell’accademia, vale a dire Felix Alvarado: tra i due si è creata una sinergia particolare, tanto è vero che, all’alba del 2013, quando era tempo che Jamie scegliesse a quale college rispondere affermativamente, tra i tanti che le offrivano un posto, le due parti in causa decisero di restare in contatto, sebbene tra New York e Chapel Hill, dove ha appunto sede l’università della North Carolina, la prescelta, vi siano non meno di 500 miglia di distanza. Il tutto si è rafforzato quando, nella prima estate da studentessa di college, Jamie, che decise di prendere parte ad alcune competizioni del circuito ITF, talune pure in Canada, venne seguita in ogni angolo del Nord-America da Alvarado. C’è però una motivazione che lo spinse a non abbandonarla in un momento così determinante, ovvero la grossa delusione che Jamie aveva da poco patito.
Appena giunta a Chapel Hill, che curiosamente forma con altre due città della North Carolina un’altra zona pedemontana basata su tre centri – più banalmente chiamata “The Triangle – ovvero Durham e Raleigh, capitale dello Stato, Loeb divenne una giocatrice dominante a tutti gli effetti, tanto da conseguire qualsiasi titolo nella conference – Atlantica – a cui l’UNC (sigla) partecipa. E’ a tal punto popolare che le viene concesso l’onore di far ammirare i trofei al pubblico presente nel corso dell’intervallo di un avvenimento che, detto così, dirà poco, ma su cui è necessario soffermarsi: un incontro di basket tra la sua università e quella di Duke. Qui non stiamo parlando di una semplice partita di stagione regolare NCAA, questa è la Partita, dal momento che tra queste due università vige una rivalità tra le più note e sentite di tutto lo sport americano. Per svariati motivi, da quelli geografici, dal momento che per andare da Chapel Hill a Durham, dove appunto ha sede Duke, è sufficiente percorrere non più di 10 chilometri, a quelli immancabilmente sociali, poiché, per quanto prestigiosa – è il primo ateneo di questo tipo ad essere stato aperto in tutti gli Stati Uniti – la UNC è pur sempre un istituto pubblico, mentre Duke fa parte del circuito della Ivy League, dove la “gente bene” manda i propri pargoli a conseguire l’aspirato pezzo di carta che gli aprirà le porte dell’America che conta. A livello cestistico, per la verità, era uno scontro impari fino ad una ventina d’anni fa, se pensiamo che per la UNC ha giocato perfino un tale che risponde al nome di Michael Jordan, ma nell’ultimo ventennio l’arrivo sulla panchina di Duke di un quarantenne di origine polacca, tal Michael William Krzyzewski – conosciuto come Coach K, attuale selezionatore della nazionale USA – ha riapparigliato le sorti, al punto che, dopo il titolo della scorsa primavera, i due team sono pari nel numero di sigilli totali NCA: 5. E’ piuttosto indicativo pensare che degli ultimi 25 allori, ben 8 siano finiti in questa piccola porzione di Stati Uniti, a riprova di quanto le cose vengano fatte in grande da queste parti, quando si parla di basket. Ed è probabile che Jamie abbia sentito il peso di essere una stella Tar Heel – che sarebbe il soprannome degli abitanti della North Carolina, ed in particolare degli studenti del college di Chapel Hill, la cui traduzione è esattamente quella letterale, “tallone incatramato”, ed avrebbe varie spiegazioni, ma tutte più o meno ufficiose.
Presentatasi ad Athens, dove ha avuto luogo l’edizione 2014 del campionato NCAA, Jamie, forte della testa di serie numero 1, ambiva ad aggiudicarsi la manifestazione, che le avrebbe regalato quel sogno che da troppo tempo coltivava, giocare nello U.S. Open. Purtroppo, in maniera del tutto sorprendente, giungeva ai quarti di finale una sconfitta che ne comprometteva ogni possibilità. Il titolo, e il conseguente onore, sarebbe andato a Danielle Rose Collins, ma Jamie comprese bene quanto le probabilità di vittoria si riducano sensibilmente qualora non si sia in grado di affrontare mentalmente le situazioni in cui sei quella che ha soltanto da perdere. L’estate con Alvarado tra Kentucky, British of Columbia e Pennsylvania le ha insegnato anche questo, nonostante il 2014 da “proto-pro” sia terminato proprio con una sconfitta da imputare alla tenuta mentale: a Las Vegas, di fronte ad una ragazza prodigio, Claire Liu, classe 2000, la tennista di Ossining concludeva a zero il terzo set dopo aver avuto occasioni di chiudere la contesa nella frazione precedente. Sconfitta dura, ma l’estate di Jamie si era comunque distinta per una soddisfazione, forse limitata, ma degna di nota: nella nuova struttura dei campi 5-6 del West Stadium, sempre all’interno dello USTA Biliie Jean King National Tennis Center, otto tra le migliori rappresentanti del college si sono date battaglia nel weekend conclusivo dello U.S. Open, come da nuova decisione della Federazione Statunitense: in dote una wild card per il successivo major a stelle e strisce, in tabellone principale se la ragazza in questione detenesse una classifica mondiale migliore della 150esima posizione, altrimenti nel tabellone di qualificazione. In una finale contro la rappresentante “sbagliata” della Università della Virginia, vale a dire non la campionessa NCAA Danielle Rose Collins, bensì l’originaria del Libano Julia Elbaba, Jamie Loeb si laureava campionessa, creandosi così una scappatoia per lo U.S. Open: nel 2015 ci sarebbe stata anche lei, seppure in qualificazione.
Certo l’obiettivo grosso restava un altro, ovvero il main draw, e la strada per conseguirlo era giocoforza la medesima dell’anno precedente, solo che questa volta il teatro, come detto, era quello di Waco: Loeb entrava in tabellone non più con le velleità della prima testa di serie, né con le conseguenti pressioni, ma con un più modesto settimo posto nel seeding nazionale. Ed è tutta un’altra storia: lunedì 25 maggio è il giorno della finale, in cui di fronte si ritrova la canadese di Stanford Carol Zhao, contro cui vive un momento di smarrimento nel secondo set, dopo aver vinto il primo per 6-2, ma persa la frazione di mezzo al decimo gioco, Jamie ritrova la giusta convinzione nel proprio gioco per poter strappare quel premio tanto agognato. Certo, gli dei del tempo gliela hanno fatto un po’ penare, dal momento che pochi minuti dopo aver messo a segno l’ultimo punto, giocatori, arbitri e pubblico sono stati fatti evacuare in fretta furia dai nuovi campi indoor di Baylor verso il più sicuro palazzetto del basket per un’allerta tornado, dove sono rimasti per oltre un’ora, prima di fare marcia indietro al fine di porre conclusione ad una premiazione che si è rivelata piuttosto strana, data la fretta che comandava tutte le operazioni, poiché ancora doveva disputarsi la finale della manifestazione di doppio. Ma a Jamie, francamente, poco importava.
Tra sogni di professionismo “potrei già cambiare il mio status” e desideri di migliorarsi “è inevitabile che io trovi delle soluzioni per rendere il mio servizio più pericoloso” l’allieva della McEnroe Academy ha davanti tutta un’estate per arrivare al meglio a New York, dove venderà cara la sua pelle davanti al pubblico amico. In fondo Jamie per poter rendere più solido quel fondamentale – è troppo alta per non ottenere punti diretti – dovrebbe ispirarsi a quel ragazzo che, cresciuto nel North Carolina, ha però tradito il suolo natio per proseguire la carriera studentesca proprio in quella Athens dove Jamie ha vissuto la più grande delusione della sua giovane carriera. Ad Athens sorge infatti l’Università della Georgia, a cui si è legato il già citato John Isner, che qui è rimasto fino al maggio del 2007, dopo aver perso una delle finali dal più alto livello degli ultimi decenni – contro il cavaliere Somdev Devvarman. Eppure nella sua vita il tennis era tutto meno che una certezza. “Non avrei mai immaginato che sarei diventato così alto, non avevo casi in famiglia da farmelo lontanamente pensare, per cui ho scelto il tennis: se a 14 anni lo avessi saputo, avrei optato per il basket”. Non era raro, come ricorda il suo coach ai tempi dei Bulldogs, Manny Diaz, che, quando li vedevano arrivare presso le altre università, domandassero se davvero erano il team del tennis, perché quello era davvero troppo altro per giocarci. Sta di fatto che lo stesso Isner non era certo di poter competere tra i po’ “Ci volevo provare, ma se mi avessero detto che sarei riuscito ad arrivare a questi livelli e restarci a lungo, probabilmente non ci avrei creduto”, nonostante quell’inizio spumeggiante a Washington, pochi mesi dopo la laurea, quando a suon di tie-break vinti al terzo set raggiunse la finale del locale torneo, sconfitto solo da Andy Roddick. Ha pure iscritto il proprio nome nel libro dei record del nostro sport, con quell’incontro da 665 minuti contro Nicolas Mahut: in quella partita entrambi misero a segno più di 100 aces. Jamie non può ambire a tanto, ma il suo spazio nella storia proverà a ritagliarselo, ringraziando per sempre McEnroe, Alvarado e la Università della North Carolina. Che diventerebbe una Sweet Caroline.
*Si ringrazia Salvatore Greco per l’imbeccata sul titolo e il successivo riferimento alla canzone.
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