di Roberto Commentucci
Il tennis italiano è sempre più rosa. Per le ragazze, il 2009 verrà ricordato come una stagione da incorniciare. Peri maschietti, invece, come una annata nera. Ma le cause vengono da lontano.
Con la splendida vittoria di Francesca Schiavone nel Wta Premier di Mosca – il più importante torneo, in termini di montepremi, mai vinto da una giocatrice italiana – la differenza di rendimento in questa stagione 2009 fra le giocatrici italiane e i loro colleghi maschi si è fatta davvero imbarazzante.
Qualche numero
Le nostre ragazze hanno vissuto una annata fantastica: si sono aggiudicate 4 tornei del circuito maggiore (tra cui per la prima volta figurano 2 eventi “Premier”, Los Angeles e Mosca) hanno giocato 10 finali, portato una loro rappresentante fra le prime 10 della classifica mondiale (un traguardo storico) e si sono qualificate (per la terza volta in quattro anni) per la finale della Federation Cup, battendo tra l’altro due potenze tennistiche come la Francia (stracciata con un umiliante 5 a 0 in trasferta) e la corazzata Russia. Negli Slam, hanno messo insieme due piazzamenti nei quarti di finale (la Schiavone a Wimbledon, la Pennetta allo US Open).
I nostri maschietti, invece, non sono andati al di là di 3 modeste semifinali (2 Seppi, una Fognini) nei tornei Atp di livello più basso, i “250”; non sono riusciti ad andare oltre il secondo turno nei tornei dello Slam; sono ormai da 9 anni confinati nella serie B della Davis e non vincono un torneo Atp dal 2006, quando Filippo Volandri si aggiudicò l’ultima edizione del defunto torneo di Palermo.
Il diverso rendimento ovviamente si riflette sulla posizione in classifica: fra le ragazze chiuderemo l’anno con due giocatrici fra le prime 20 del mondo, mentre fra i maschi avremo con ogni probabilità un solo tennista a stento fra i primi 50.
E non è tutto. Il dominio delle donne sul tennis azzurro sembra destinato a durare anche in prospettiva futura: anche a livello di ricambi, infatti, fra i due settori le prospettive sono ben diverse: mentre fra le giovanissime abbiamo un vero esercito di ragazzine terribili, fra i maschi i giovani con concrete possibilità di arrivare fra i primi 100 si contano sulle dita di una mano.
Ma da che dipende questo apparentemente inesplicabile fenomeno?
La parola magica: professionalità.
Le spiegazioni possono essere molte.
Sicuramente fra le donne c’è una concorrenza meno numerosa e qualificata, ed è più facile emergere ad altissimo livello che non fra gli uomini.
Sicuramente il tennis in Italia tra le ragazze riesce ad attrarre elementi dall’ottimo fisico, mentre tra i maschi la concorrenza di altri sport (in primis il calcio) si fa sentire maggiormente e priva i nostri vivai degli elementi atleticamente più dotati.
Tuttavia, probabilmente la ragione vera ed ultima è una sola: le nostre donne sono più determinate, più convinte, più disposte a sacrificarsi, più coraggiose nelle scelte. In una parola più professionali.
Basta vedere la caparbietà con cui tenniste di medio livello – come sono ad esempio Maria Elena Camerin o Alberta Brianti – sono sempre pronte a salire sul primo aereo per andare a giocare un torneo magari in estremo oriente: sul cemento, con climi spesso impossibili, cibo da prendere – letteralmente – con le molle, culture diversissime. Ma loro vanno, si buttano, ed ottengono i loro bravi risultati. Non stanno a perdere tempo con i challenger nel circolo di casa, sulla confortevole terra battuta.
Ma oltre alla diversa ambizione nella programmazione, ciò che ha fatto la differenza, in questi anni, è stata la capacità delle nostre giocatrici di lavorare su loro stesse e sui loro limiti, per migliorarsi e crescere.
Prendiamo le nostre due portacolori, Francesca Schiavone e Flavia Pennetta.
Qualcuno ricorderà la prima Schiavone, quella ragazzina di poco più 20 anni capace, nel lontano 2001, di arrivare nei quarti di finale a Roma e a Parigi. Una tarantolata regolarista, con una gran capacità di soffrire in difesa, una clamorosa rapidità di piedi e un buon rovescio, ma anche una tennista modesta: un diritto francamente inguardabile, un servizio tenero, una posizione in campo sempre tremendamente arretrata, a correre e remare in braccio ai giudici di linea…
Che differenza con la tennista che abbiamo ammirato negli anni successivi: dotata di un servizio che fa male, di un liftone di diritto (il suo antico punto debole) che mette in crisi le top players, di una strepitosa capacità di variare ritmo, angoli e rotazioni, di un gioco al volo acrobatico e spettacolare.
Dietro una simile trasformazione, c’è una sola ricetta: lavoro, lavoro, lavoro e ancora lavoro. Soprattutto con Daniel Panajotti, il tecnico argentino che le cambiò il diritto. Ma anche da sola, in palestra, per irrobustire il fisico, migliorare il peso di palla, acquisire la capacità – che ad inizio carriera non aveva – di tirare dei winners.
Un discorso analogo può essere fatto per Flavia Pennetta. Alla sua prima apparizione fra le prime 100, l’azzurra incantava per la grazia e la pulizia dei gesti, l‘efficacia del rovescio bimane, la leggiadria del tocco, la solare avvenenza mediterranea. Ma ad uno sguardo più attento si vedeva anche dell’altro. Un fisico sinuoso ma rotondetto e poco tonico, che la penalizzava gravemente degli spostamenti. Un diritto giocato con una western esasperata, da cui usciva una palla magari pesante, ma che andava spesso fuori misura, specie in lungolinea. Un servizio discreto nella prima palla ma di burro nella seconda. E una tendenza perniciosa a giocare sempre uguale, sempre di ritmo, sempre sulle diagonali, sempre alla stessa velocità, senza mai variare il gioco. Il modo migliore, con quelle forti, per essere presa a pallate…
Chi avrebbe mai pensato che una così un giorno sarebbe entrata fra le prime 10 del mondo? Che si sarebbe costruita una delle migliori prime palle di servizio del circuito? Che avrebbe reso il diritto un colpo affidabile quasi quanto il rovescio? Che avrebbe fatto della rapidità di spostamento una delle sue armi migliori? Chi avrebbe mai creduto che una delusione d’amore, anziché generare sconforto e rassegnazione, si sarebbe trasformata in ulteriore grinta e motivazione?
Di nuovo, come si vede, è sempre la solita, vecchia storia. Non ci sono segreti, nello sport. Quel che conta, è rimboccarsi le maniche, meglio ancora se si ha a fianco una persona di qualità, e della quale si ha fiducia, come Gabriel Urpi.
Conclusioni (visionarie).
Insomma: le nostre ragazze, anche dopo essere approdate nel circuito maggiore, non si sono sentite “arrivate”, ma sono state in grado di continuare a lavorare duro su tecnica, fisico e testa per migliorarsi, fino ad estrarre da loro stesse il 100% del loro potenziale. E’ quello che i coach chiamano “allenabilità“.
I nostri ragazzi, per ora, non sembrano in grado di fare altrettanto.
Il contrasto tra il lungo percorso di sviluppo delle nostre giocatrici di punta e la mancata evoluzione tecnica e fisica dei nostri attuali giocatori (Gaudenzi e Furlan erano un’altra storia) è infatti davvero stridente. E ti viene una certa malinconia. Nel pensare a cosa avrebbe potuto fare ad esempio un Volandri, se a 22 anni si fosse messo in testa di andare a giocare sul veloce e di imparare a servire. Nel pensare a cosa potrebbe ancora fare un Bolelli, se si mettesse a testa bassa a lavorare su risposta e spostamenti. Per non parlare poi della seconda di servizio di Seppi, ancora tanto debole quanto paradossale, in un tennista alto 1,90.
E allora la malinconia diventa un groppo alla gola. Perché ti metti a fantasticare.
A pensare a come starebbero oggi le cose se i bellissimi risultati delle azzurre li avessero colti, invece, i maschietti.
Beh, state sicuri che in questo momento, in Italia, si parlerebbe solo di tennis. Provate ad immaginare questo scenario: Bolelli e Fognini fra i primi 20 (dopo che uno dei due è stato due mesi fra i primi 10) che vincono un Masters 1000 ciascuno e portano l’Italia in finale di Coppa Davis…
Roba da stare sui telegiornali dalla mattina alla sera.
Sveglia, ragazzi, e rimboccatevi le maniche! Le vostre colleghe vi hanno dimostrato che si può fare, e vi hanno anche fatto vedere come si fa. Adesso sta a voi.
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