di Federico Mariani
Si stende sulla terra di Lille Roger con le lacrime agli occhi, come nei più grandi successi della carriera, conscio che, una volta di più, ha scritto la storia del gioco.
Questa vittoria, però, ha un sapore diverso, meno importante ma forse più dolce delle altre. Per la prima volta, infatti, è un trionfo da condividere, per la prima volta ha messo il suo talento al servizio della rappresentativa nazionale fino in fondo e per la prima volta (al primo vero tentativo) ha posato le mani sull’insalatiera, unico trofeo ancora mancante nella sua immensa bacheca. Federer ha mantenuto fede alla promessa fatta all’amico Wawrinka dieci mesi prima quando questi, reduce dal clamoroso successo in Australia, gli chiese di provare a giocare (e vincere) la Davis sul serio. Detto, fatto! E’ andato a Novi Sad dove è bastato un giorno agli svizzeri per battere la Serbia orfana di Djokovic. Ha giocato due singoli ed un doppio battendo il Kazakistan (squadra che più di tutte ha messo in difficoltà la Svizzera). Ha battuto prima Bolelli e poi Fognini per piegare l’Italia e, nell’ultimo atto, ha rinunciato alla finale del Masters pur di non mettere a repentaglio la sfida alla Francia. Nel primo incontro si è esposto alla figuraccia contro Monfils, ma poi ha vinto con Stan il doppio di sabato per poi battere Gasquet nella passerella finale. Una cavalcata trionfale lunga dieci mesi che però la Svizzera attendeva da una vita e lo stesso Federer da dieci anni, come ha affermato poi. “Questa vittoria non è per me, è per loro, per la gente. Io non ne avevo bisogno ma sono troppo felice”, queste le parole del campione elvetico al suo popolo. Belle, bellissime, come del resto è stato bello l’affiatamento del team rosso-crociato più unito e compatto che mai attorno alle figure centrali di Stan e Roger, senza tuttavia dimenticare Chiudinelli e Lammer che hanno giocato pochissimo ma, come si dice, hanno “fatto gruppo”. Questa squadra ha meritato di vincere perché era di gran lunga la rappresentativa migliore, coadiuvata e gestita egregiamente da Severin Luthi che si è dimostrato essere sapiente uomo di campo.
Nel tennis (per fortuna!) chi vince ha sempre ragione e meno di zero contano le critiche di chi sminuisce questo trionfo causa l’assenza di pezzi da novanta come Djokovic e Nadal che hanno deciso di non prendere parte all’edizione targata 2014. Come poteva essere giusto attribuire una sorta di “colpa” a Federer per non aver mai vinto la Davis, ora non si può che elogiarne il successo senza fare la conta su chi c’era e chi no. Un’altra regola non scritta dello sport (globalmente inteso) recita che vincere, ad ogni livello e ad ogni categoria, è sempre difficile e l’intricata finale di Lille lo ha dimostrato una volta di più. Solo qualche settimana prima dell’ultimo atto la Svizzera era, a ragione, super favorita per la vittoria. La schiena malandata di Federer (con tanto di forfait al Masters) unita ad una condizione deficitaria di Wawrinka ha aumentato il pathos, le insinuazioni orchestrate abilmente dai transalpini sul presunto litigio Stan-Mirka-Roger l’hanno infiammata, la sconfitta nettissima di Federer con Monfils venerdì l’ha resa in un primo momento quasi tragica. Ma vincere una competizione in un contesto emozionale unico come quello della Davis, farlo in trasferta davanti a 27000 persone in uno stadio di calcio momentaneamente prestato al tennis dopo una stagione meravigliosa ed intensa, deve essere considerato un’impresa anche se si può contare su due dei primi quattro giocatori del mondo e, come tale, va celebrata.
Alla fine la storia ha fatto il suo corso e, come quasi sempre accade, ha strizzato l’occhio a Roger consegnandogli la vittoria che permette di chiudere il cerchio della sua carriera. Il cerchio, forma perfetta di chi da sempre ha dato del tu alla perfezione dialogandoci fino a rimanerne sedotto in giovane età, per poi sfiorarla più e più volte nel corso degli anni. Se è vero che la perfezione assoluta non può appartenere a questo mondo, Federer col suo tennis è colui che più di tutti si è avvicinato a toccarla.
Federer è un animale da competizione e vive seguendo obiettivi. Ora a trentatré anni Roger ha vinto tutto ciò che c’era da vincere in ogni lato del globo, ma andrà ancora avanti perché l’amore e la passione per il tennis sono sentimenti ancora troppo forti per essere sedati, e troverà nuovi traguardi da raggiungere per sentirsi ancora vivo, ancora parte del giro. Col dropshot di rovescio col quale ha giustiziato Gasquet e la Francia intera domenica pomeriggio, però, ha dato l’ultimo algido colpo di pennello alla sua carriera sempre più assimilabile ad una magnifica opera d’arte che ora può finalmente dirsi completa. Completa sì, ma non di certo finita.
Leggi anche:
- None Found