di Luca Brancher
“Io non sono un bravo tennista, perché non mi alleno bene e non penso che il tennis sia la mia unica e primaria occupazione. Ho tanti, veramente tanti, amici, che questo weekend, ad esempio, non sono neanche venuti qua a vedermi giocare, per quanto questo sia un evento dall’alto tasso d’interesse. Ma quella è la mia gente, le persone che conosco e che ho conosciuto crescendo: sono nato in un contesto sociale abbastanza umile. La vita non è solo tennis, ed io non sono assolutamente un esempio di sacrificio e di costanza: se qualcuno, però, ha da ridire sul mio atteggiamento e pensa che non vada bene che io esca la sera, beh, sappia che la mia carriera dovrebbe interessare solo e soltanto me. Se voglio migliorare, però, devo cominciare ad allenarmi in maniera corretta ogni singolo giorno. Ad oggi non lo faccio, ed è questo il motivo per cui non posso diventare un giocatore di un certo livello.”(*)
(*) parole liberamente tratte dalla conferenza stampa dopo il match contro Dmitry Tursunov in Davis Cup (marzo 2013)
A rileggerle oggi, queste frasi, pronunciante poco meno di 6 mesi fa, si stenta a credere che la bocca da cui le parole sono fuoriuscite appartenesse a Daniel Evans, una delle sorprese positive della prima giornata di US Open 2013. A dire il vero, però, “sorpresa” Daniel lo è dell’intera estate americana, perché che un giocatore così basso di classifica riesca ad infilare ben due finali consecutive in tornei challenger di alto livello come quelli di Vancouver e Aptos ci fa comprendere come l’estate americana, anche prima dello scalpo di un non in forma, ma pur sempre annoverabile come top-player, Kei Nishikori, fosse già degna di menzione
Quando si sostiene che la Davis Cup ha un ruolo tutt’altro che marginale nella carriera di un giocatore, per quanto questa sia una competizione a squadre, in Daniel si trova una conferma. Amato e stimato in patria per il suo talento, Evans è stato tenuto in considerazione dai tecnici federali in ogni occasione e, dopo l’inatteso e precoce successo nel challenger di Jersey del marzo del 2009, Daniel è entrato a far parte in pianta stabile della formazione titolare di Davis, esordendo contro un suo coetaneo polacco, Jerzy Janowicz e bissando la sconfitta due giorni dopo contro Michal Przysiezny. Inutile, quindi, l’apporto di Andy Murray: la Gran Bretagna sarebbe stata costretta a scendere nel II Gruppo Euro-Africano dopo ben 13 anni di permanenza in serie superiori.
Già di per sé, questa sconfitta, con le poche attenuanti del caso, fu mal digerita in patria, ma nulla riguardo a quanto accadde nella primavera successiva, quando la Gran Bretagna visse quello che fu soprannominato “il peggior weekend degli ultimi 100 anni di storia tennistica”. “Una nazione che racimola un surplus di 29 milioni di sterline in ciascuna edizione di Wimbledon piegata da una federazione che, in un anno, ne avrà a disposizione più o meno 100.000” – si leggeva sui più noti quotidiani inglesi. Sulla crudità di certi commenti della stampa d’oltremanica siamo consapevoli, però che il caso giungesse addirittura in parlamento, con una richiesta scritta fatta pervenire al ministro dello sport britannico affinché fosse fatta chiarezza su come la LTA spendesse i tanti soldi accumulati (e pubblici) se poi questi erano i risultati, andava al di là di ogni “worst case scenario”. E il colpevole, perché era stato lui a perdere il punto più ghiotto, era sempre lui, il povero Daniel Evans, sconfitto in 5 set dal giovane Laurynas Grigelis. Con un peso così, sarebbe stato difficile per tutti reggere le pressioni, nemmeno è pensabile cosa possa aver provato un ragazzo di 20 anni. Se non abbiamo indizi sui malesseri interiori, è un fatto conclamato che i risultati siano andati in calando – a Jersey, dove difendeva il titolo, i giochi raccolti nel primo turno sarebbero stati appena 4 – e Daniel è tornato ad essere un tennista da future. Con qualche acuto, è vero, ma senza più quelle velleità.
Il bel risvolto, in questa storia, risiede nelle origini del cambiamento delle sorti di Evans, sempre rintracciabili nella competizione a squadre. Infatti Leon Smith, capitano successivo al disastroso John Lloyd, in lui crede. Crede ciecamente. E’ consapevole che, quando Murray non risponde presente, il tennista col maggior talento sia proprio il classe 1990 di Birmingham. Non vi sono dubbi. Certo, c’è l’ostacolo psicologico da valutare, ma a parte quello… Lo chiama, nell’ultimo incontro del 2011, ma non c’è bisogno che giochi, deve solo riassaporare il clima Davis, tornerà però utile quando, nel 2012, con la Gran Bretagna tornata in un più che dignitoso Gruppo I, la minaccia slovacca rischia di rovinare l’ancora intonso cammino di Smith. Ed allora eccolo maturo il momento di Evans, che regala due punti fondamentali e decisivi alla sua nazionale contro Lacko e Klizan. A fine match incassa anche i complimenti di una leggenda come Miloslav Mecir “Uno così come minimo dovrebbe stare nei top-100, senza dubbio.”
Il risveglio in Davis non ha un immediato riscontro nelle sue prestazioni da singolo giocatore. Ci vuole qualcosa di più, ma Evans pare imbrigliato nelle tele intessute dal circuito ITF: sembra ormai perso, per certi livelli, quando a marzo di quest’anno viene convocato nuovamente da Smith per il primo turno contro la Russia. Murray non c’è, lui e Ward dovrebbero riuscire in un miracolo, perché la minaccia russa non è più insidiosa come qualche anno fa, però di sicuro ha tennisti con talento e soprattutto esperienza di classe superiore. Alla fine della prima giornata il destino pare segnato: Russia avanti 2-0 con Ward ed Evans che perdono entrambi in 5 set. Daniel, però, gioca un gran match contro Tursunov, ma non basta. Durante la conferenza stampa, pronuncia le parole che trovate come incipit di quest’articolo. Sembra la resa incondizionata di un giocatore che si è scontrato coi propri limiti caratteriali. Non sarà così: la Gran Bretagna rimonta ed Evans metterà il sigillo finale, distruggendo il suo coetaneo Evgeny Donskoy. Come d’incanto, il mondo di Daniel assume una connotazione più positiva.
I risultati cominciano a susseguirsi, al Queen’s raggiunge un insperato terzo turno, prima della doppietta di finali in Nord-America che lo consegnano in forma strabiliante a Flushing Meadows. Dopo le qualificazioni, ecco lo “testa” di Kei Nishikori. “Ringrazio i consigli di Murray”. No, Daniel, ringrazia te stesso: la vittoria di ieri è tutta farina del tuo sacco. Ora, per favore, non smettere di crederci.
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