di Roberto Commentucci
Diciamolo: siamo tutti un po’ ingiusti.
Ce ne accorgiamo solo quando non ne possiamo fare a meno, quando mette in fila tutti, come questa settimana a Shanghai, che Davydenko è un campione. Uno capace di fare polpette, in pochi giorni, di gente come Gonzales, Djokovic, Nadal.
Eppure, gliene dicono di tutti i colori. Impiegato del catasto, contadino ucraino, ragioniere pelato, e chi più ne ha più ne metta. Un linciaggio mediatico ingiusto e ingeneroso.
Pochi sanno vedere oltre l’immagine, oltre l’apparenza, oltre l’involucro esterno dello sport business. Basterebbe che Nikolay indossasse i pantaloncini di jeans, o che si tagliasse i capelli a zero con la lametta, oppure che si sistemasse un codino da indio, ed ecco che, come per incanto, tutti quelli che oggi ne mistificano le grandi qualità lo riconoscerebbero per quello che è: il vero erede, nel circuito attuale, degli dimenticati Andre Agassi e Marcelo Rios, i suoi autentici padri putativi.
Non ci credete?
Provate a guardare un match di Davydenko cercando di dimenticare che chi sta giocando è Davydenko. Concentratevi sul suo gioco, anziché sulla pelata o sulle spallette gracili. Studiatevi la sua incredibile rapidità di piedi, la sua enorme coordinazione, sul suo mostruoso senso del tempo, sul suo inesorabile istinto geometrico.
Doti che sono alla base dei due sontuosi fondamentali del Talento (si, Talento, avete letto bene) slavo.
Un diritto fluido, compatto, colpito sempre in avanzamento, giocato con buona rotazione sull’incrociato, e quasi piatto in lungolinea o a sventaglio. E soprattutto, un rovescio bimane che l’aiuto prepotente della mano sinistra rende una autentica ira di Dio. Preparazione minima, impatto sempre perfetto, ben avanti al corpo, pochissima rotazione, controllo assoluto su tutte le traiettorie, anche quando deve impattare sopra la spalla, o all’altezza delle stringhe delle scarpe. Insomma, Davydenko dà spettacolo, anche se non se ne accorge quasi nessuno.
E poi, l’anticipo, ragazzi. Davydenko non indietreggia mai, I piedi sempre vicino alla riga di fondo, se necessario colpisce di controbalzo, ma non perde mai campo,anche contro i più temuti picchiatori. E da lì, riesce a produrre una quantità industriale di colpi vincenti anche con il suo fisico tutt’altro che nerboruto. Perché il suo anticipo ti soffoca, il suo senso geometrico ti costringe a fare i chilometri, ti asciuga le forze, tu mezzo morto, e lui che sembra sempre fresco e riposato, le gambe che girano sempre a mille. Perché a tirare la palla piatta, e a giocare vicino al campo, si fatica molto meno che con i liftoni scagliati dai teloni.
Ma per giocare in questo modo, come chiunque abbia preso una racchetta in mano sa benissimo, è necessario possedere, in quantità industriale, una dote: il talento.
Quel talento che appassionati e media si ostinano a non voler vedere, ma che è ben testimoniato da un palmarès invidiabile:
Un Best rank di n. 3 del mondo, quattro anni di fila senza mai uscire dai primi 5, 3 Master 1000 vinti in carriera (oltre ad altri 14 tornei del circuito maggiore), 5 volte semifinalista nei tornei dello Slam…
Cos’altro deve fare, questo ragazzo, per veder riconosciuti i suoi meriti? Mettersi una parrucca?
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