Caro Misha Ti Scrivo…

Mikhail Youzhny
di Luca Brancher (articolo in partnership con Tennis.it)
Caro Misha,

Anche oggi (venerdì n.d.r.) non ho saputo resistere alla tentazione e, non appena sono giunto a casa, ho sintonizzato il televisore sul canale in cui veniva irradiata la tua partita – sia benedetta la possibilità di scegliere! – un incontro piuttosto curioso, visto il nome del tuo avversario, che ben si sposava con il clima di questa giornata, il 25 giugno, che rappresenta il raggiungimento del tuo ventottesimo compleanno. Inizialmente non doveva essere così, saresti dovuto scendere in campo il giorno precedente, ma la “rumorosa” vittoria di John Isner, nel match che è quasi superfluo citare, non ha provocato soltanto la riscrittura di diversi capitoli del libro dei record nel tennis, ma ha anche creato qualche scompenso nella programmazione delle partite: per questo motivo il tuo incontro contro Mathieu apriva la sessione del campo 18 nella giornata di venerdì.
Incontro spartiacque. Essì, il tuo avversario era il caro Paul Henri, Paulo per i francesi, quel giocatore contro cui guadagnasti il punto decisivo per la prima vittoria in Davis Cup della tua Russia, quando correva l’anno 2002. Eravate entrambi ventenni, entrambi alle prime armi e con una responsabilità sulle spalle che forse mai avreste potuto pensare di sopportare. Perché il tennis è uno sport singolo, per cui bene o male giochi solo per te stesso, ma allora, caro Misha, avevi sul groppone le attese di una nazione – che aveva scoperto da poco di amare questo sport – sentitasi tradita da un tuo compagno (Kafelnikov). Per cui non avevi alcuna via d’uscita: sull’altare o nella polvere. Sarebbe stato altare, nonostante i due set di svantaggio e grazie alla complicità di un Mathieu dimostratosi ben più fragile di quanto non si potesse prevedere, ma la tua vita, allora, non ti permetteva di godere, perché solo due mesi prima avevi perso tuo padre, in una circostanza dolorosa. La morte di un genitore rappresenta uno choc troppo forte a prescindere dalle modalità, ma vedersi morire il padre davanti ai proprio occhi aggiungeva un ulteriore grado di drammaticità alla situazione. Essendo stato proprio lui a spingerti in questa carriera, a stare al tuo fianco nei momenti di difficoltà, questo successo, che ti regalava la riconoscenza di un intero popolo, giungeva con una beffarda tempestività, perché in quel periodo giocare a tennis era soltanto un modo per non pensare alla triste svolta che aveva preso la tua vita. E quindi sì, saresti dovuto finire nell’altare, saresti dovuto diventare l’eroe di una nazione, ma in realtà eri nella polvere più nascosta, perché tutto ti sembrava talmente ingiusto dopo quel giorno in cui tuo padre era morto tra le tue braccia, che tutto quello che ti capitava era relativo e secondario. Sembrava la straziante trama di un film girato nei set di Hollywood, quelli in cui il protagonista vive situazioni in pieno contrasto emotivo, soltanto che in questo caso non c’era nessun copione da recitare, per cui navigavi a vista, Misha. Ci è voluto tempo, ma quella situazione permane vivida nella tua mente, sebbene, come ogni avvenimento, hai saputo accettarlo.
Roma 2006. Quando apro la mia mente, i ricordi escono alla stessa velocità in cui l’acqua esce da una fontana: diventano difficili da arginare e, come se volessi selezionare una piccola quantità per rinfrescarmi, sto cercando di far salire in superficie quei momenti che più meritano di venire citati per creare un tuo ritratto. Non devono essere tutti fondamentali, come quello appena proposto, possono essere anche prettamente personali: ad uopo mi sovviene quell’episodio accaduto nel corso degli Internazionali d’Italia di quattro anni fa, quando, era domenica, tu ti stavi allenando sul campo numero 3 contro Tommy Robredo. Si stavano svolgendo gli ultimi match di qualificazione, c’era poca gente sugli spalti, l’atmosfera era piuttosto intima e, assieme ad un gruppo di amici, cominciammo a seguire qualche scambio, fino a formulare una piccola promessa: ce ne saremmo andati quando avresti vinto il primo punto. Perché stavi vivendo un periodo di confusione tecnica e se il tuo rovescio riusciva a confermare la sua perfetta musicalità, il tuo colpo debole, il dritto, era alquanto lacunoso, tanto che in questo incontro non agonistico contro l’iberico facevi fatica a conquistare un punto. Era triste vederti così. Sarebbe durato ancora poco, per fortuna
Il 6 settembre 2006, Nadal…Davvero difficile pensare che, meno di 4 mesi dopo, proprio tu ti saresti giocato una semifinale di un torneo dello Slam. Accadde all’improvviso, durante un’edizione piovosa degli U.S. Open. Ancora ho nella mente le cattive sensazioni vissute quando ti trovavi due set a zero sotto contro Nicolas Massu nel secondo turno, ma soprattutto il modo netto con cui ti sbarazzasti del tuo stesso compagno di allenamento romano: lasciasti tre giochi in tre set a Robredo, per far capire quante cose fossero cambiate da quella sessione di training. E dopo Tommy, toccava a Rafa, lo spauracchio, che, per quanto non sapesse muoversi sul cemento come faceva sulla terra, già ti aveva battuto in Australia un anno prima. Figuriamoci cosa sarebbe potuto accadere allora, visto che era diventato un “mostro” negli Slam, tanto da arrivare perfino a togliere un set a Federer nella finale di Wimbledon. Alla vigilia lo davano per infortunato, ma, per come si muoveva in campo, parevano informazioni poco corrette uscite dagli spogliatoi in maniera incontrollata. A colpi di rovescio incrociato riuscivi ad aprirti dei varchi che ti consegnavano il primo set per 6-3, ma dovevi subire il ritorno di Rafa, che si aggiudicava il secondo per 7-5. Il momento decisivo arrivava sul 5-4 in favore di Nadal nel terzo parziale, senza break: sotto 0-40, sei riuscito a non perdere la concentrazione, a recuperare lo svantaggio e ad allungare la frazione fino al tie break. E da quell’istante il match si sarebbe trasformato in un tuo show incontrastato, con un Nadal inerme – che di sottecchi guardava lo zio sconsolato – che avrebbe raccolto la miseria di un gioco. Non ce n’era per lui, purtroppo non sarebbe stato lo stesso per Roddick nell’atto di semifinale. Restava comunque l’ottima prestazione e la consapevolezza che ti saresti potuto ritagliare uno spazio importante nelle gerarchie del tennis mondiale. Oltre ad un altro piccolo primato.
…e i Bryans. Infatti, in quel mercoledì sera in cui ti sei reso protagonista dell’eliminazione del secondo giocatore al mondo, hai dovuto fare gli straordinari, scendendo ancora in campo, assieme al ceco Leos Friedl, per disputare un incontro di terzo turno del torneo di doppio. Gli avversari erano la prima coppia al mondo, i fratelli Bryan, che subirono la tua vena, tanto da venire sconfitti per 67 76 64. Insomma, in poche ore eri riuscito a sconfiggere un numero 2 al mondo e due numeri 1. Non è poco. Perché la consapevolezza nei propri mezzi è sicuramente cresciuta da quel momento, lo sapevi tu come lo sapeva il tuo ultradecennale allenatore, Boris Sobkin, che da mentore sportivo era nel frattempo diventato la figura maschile adulta di riferimento, dopo la morte di tuo padre. Ti saresti “macchiato” di altre vittorie illustri, avresti raggiunto la top-ten ATP, fino alla posizione numero 8, senza però ottenere quella vittoria di grido che non è compresa tra i 6 successi ATP che hai finora conquistato. Infatti, mio caro Misha, l’unico appunto che ti vorrei muovere è proprio questo: hai avuto occasioni che non hai capitalizzato senza un vero motivo. Non ti lasci mai andare in campo – tranne quella volta che ti desti una racchettata in testa, ricordi? – ma se può sembrare questo un lato del tuo carattere positivo, io dico che troppe volte questa tua “indolenza” non ti ha permesso di essere deciso al punto giusto quando avresti dovuto chiudere delle partite. E non dico questo perchè davanti ai miei occhi ti vedo arrancare negli ultimi scambi contro un Mathieu, che, per la seconda volta in carriera, sembra riuscire a sconfiggerti – sebbene per buona parte del match tu sei sembrato il logico favorito alla vittoria finale. Non sarà questa sconfitta a cambiare il mio giudizio.
Auguri. E’ soltanto rammarico perché, davvero, non hai ancora vinto quello che ti saresti meritato. Mentre provo a chiudere questo rubinetto di ricordi, tristemente ti vedo andare a stringere la mano al tuo avversario, desolato, così come me, per una sconfitta che non mi sarei aspettato: nessuna racchetta in testa e saluto al pubblico, per questa volta, come sei solito. Non so quale sia il tuo stato d’animo, ma la tristezza che mi è calata è dovuta al fatto che io, in ogni Slam su superficie veloce, uno sguardo al tabellone e un veloce calcolo sulle tue probabilità di vittoria lo faccio. Se accadrà o non accadrà, di vederti sul tetto di uno di questi Major, alla fine ha ben poco importanza: ciò che conta è poter continuare ad ammirare il tuo talento su un campo di tennis, quello di un giocatore che ha provato ad essere normale, riuscendovi, nonostante la sua carriera si sia basata su un grandissimo dolore personale: la bellezza di essere riservati, di essere solitari, di essere russi. E, prima che mi dimentichi, auguri.

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