di Paolo Silvestri
I titoli dei libri sono importanti. Se non sono azzeccati ci lasciano indifferenti, se lo sono ci chiamano a loro, per poi magari ingannarci con un contenuto modesto. Quello che Alessandro Mastroluca ha dedicato ad Athur Ashe ha un titolo bellissimo, Il successo è un viaggio (edizioni Ultra, 2013), che riprende e reiterpreta, spogliandolo di ogni possibile banalità, un topos letterario che, a partire dall’Odissea, ha accomunato un’infinità di personaggi. E insieme all’autore seguiamo anche noi il viaggio di Arthur/Ulisse verso il suo vero successo, che non è (o non è solamente) quello dei suoi fantastici risultati come giocatore,ma quello di aver onorato il ruolo che talento, intelligenza e fortuna gli hanno offerto di svolgere: “Il successo -dice Mastroluca- è un viaggio. Non una destinazione. Nel suo percorso di atleta Arhur Ashe ha compiuto la missione dei campioni, ha lasciato il tennis in una condizione migliore di quando è iniziato”. Vorrei che capisse il vero significato di queste bellissime e confortanti parole chi il tennis lo vende e lo sporca, svilendo il valore del suo viaggio personale e lo spirito dello sport.
Le tappe del viaggio di Ashe sono molto note, perché la sua figura ha travalicato i limiti del rettangolo di un campo da tennis, contribuendo in particolare all’abbattimento di quel muro chiamato razzismo, simbolo come pochi altri dell’imbecillità umana. E seguirlo nella sua storia significa seguirlo in anni ricchi di cambiamenti importanti, sia per il nostro sport che per il mondo, e che lo hanno sempre visto, in una maniera o nell’altra, in prima linea. Se il tennis vive un periodo di confusione che culminerà con la creazione dell’ATPed il superamento dello scisma fra dilettanti e professionisti, ben più importanti e convulsi sono gli avvenimenti che scuotono il mondo, come per esempio quell’ assurda emorragia di vite che è stata la guerra del Vietnam. Ma se l’immagine di Ashe è legata indissolubilmente alla battaglia civile contro l’apartheid e la discriminazione, di cui è divenuto uno dei grandi simboli, il suo ricordo è anche dolorosamente legato ad un altro dramma che ha segnato il suo tempo, vale a dire la diffusione del virus dell’AIDS, di cui come è noto morì vittima a causa di una trasfusione, divenendo uno dei primi personaggi a riconoscere pubblicamente di essere stato vittima del contagio.
L’interesse e l’originalità della proposta di Mastroluca consiste nel fatto che non ha scritto soltanto una biografia. La storia del grande campione americano è infatti anche il filo rosso che gli permette di raccontarci un’epoca, in modo avvincente, ma con un rigore storico e una minuzia davvero encomiabili. Dunque, se il titolo è azzeccato, non meno riuscito è il contenuto. Anche perché l’autore dimostra lungo le 237 pagine in cui si articola il volume, una sensibilità linguistica, oltre che umana, che non lascia indifferenti.
Un libro è un viaggio anche per chi lo scrive e per chi lo legge, che a suo modo lo “riscrive” e lo fa suo. Il sapore che a me è rimasto dopo averlo finito è un po’ simile a quello che si ha proprio al ritorno da un bel viaggio, organizzato e gestito da una guida turistica che sa fare bene il suo lavoro. Un viaggio che consiglio caldamente a chi non l’avesse ancora fatto.
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