di Lorenzo Andreoli
In principio fu Guillermo Vilas. Era il 1977, quando grazie al massacro dell’americano Brian Gottfried sul Philippe Chatrier (6-0 6-3 6-0), il “poetino” di Buenos Aires portò per la prima volta il tennis argentino all’attenzione del mondo intero. In otto anni (dal 1975 al 1982) altrettante finali Slam (di cui quattro vinte e quattro perse) in grado di smuovere il paese e creare dal nulla un fenomeno di massa. Le sue scorribande da un lato all’altro del campo resero “el deporte blanco” un gioco popolare in grado di formare, anche a distanza di oltre trent’anni, un’ottima generazione di giocatori. Con gli immancabili alti e bassi propri della miglior tradizione albiceleste.
I successi di Vilas (al cui palmares vanno aggiunti ben 58 trofei oltre ai 4 titoli Major) e del suo storico compagno di doppio in Coppa Davis (nonché ex numero 4 del ranking ATP) José Luis Clerc, aprirono la strada alla generazione degli 80’s: Guillermo Perez-Roldan (indimenticabile il suo 1988, anno in cui raggiunse i quarti di finale al Roland Garros e costrinse Ivan Lendl ad una battaglia di oltre quattro ore per aggiudicarsi gli Internazionali d’Italia), Alberto Mancini (ex n.8 del mondo che nel 1989 si impose, in meno di un mese, prima su Becker a Montecarlo, poi su Agassi al Foro Italico), ma anche Franco Davin e Martin Jaite.
Senza nemmeno il tempo di abituarsi, ci si rese subito conto che la terribile crisi economica della fine degli anni 70’ (oltre il 550% di inflazione e la riduzione all’osso delle riserve finanziarie) aveva inevitabilmente creato un preoccupante “vuoto generazionale”: niente soldi, niente campioni.
La risalita nel decennio 1995-2005 fu il frutto di una impeccabile politica che vide la dedizione di ottimi ex giocatori (come Gustavo Luza o lo stesso Alberto Mancini, che si misero completamente a disposizione dei ragazzi nati fra il 1977 ed il 1983) unirsi al fiuto di abili imprenditori decisi ad investire sulle nuove leve (finanziandone viaggi e accessori in cambio di buona parte dei proventi delle vittorie). Dopo anni in cui anche solo arrivare a giocarsi una finale era divenuto un miraggio, federazione e tifosi tornavano finalmente a sorridere e gioire.
Nel 2004 Parigi si tinse di biancoazzurro, portando ben tre giocatori su quattro nelle semifinali. Gaston Gaudio e Guillermo Coria si affrontarono in una incredibile finale che vide Gaudio imporsi 8-6 al quinto dopo aver rimontato due set di svantaggio. L’anno successivo (in cui addirittura quattro giocatori argentini erano fra le prime dieci teste di serie del torneo) fu Mariano Puerta a portarsi ad un passo dalla “Coppa dei Moschettieri”, dovendo però fare i conti con l’esplosione di Rafael Nadal. Per non parlare di David Nalbandian (soprannominato in patria “el Maestro”), uno dei talenti più puri della “Legiòn Argentina”, genio e sregolatezza, finalista a Wimbledon nel 2002 (sconfitto dall’allora numero uno del mondo, Lleyton Hewitt) e semifinalista nelle altre tre prove dello Slam.
Alla luce di questi splendidi risultati in singolare, anche la finale di Coppa Davis a Cincinnati contro gli USA, nel 1981, smise presto di essere solo un ricordo. Con lo scoccare del terzo millennio, il paese è risalito nel World Group (nel 2002), raggiungendo sei semifinali (2002, 2003, 2005, 2010, 2012 e 2013) e tre finali (2006, 2008 e 2011), perse contro Russia e Spagna (due volte), mostrando un gruppo di campioni accomunati dalla garra, quella grinta speciale che nasce solo all’ombra delle Ande, ma anche da tanta rabbia e voglia di vincere, di lottare e combattere con il cuore, contro tutto e tutti.
L’ultimo, meraviglioso, acuto porta la firma di Juan Martin Del Potro, il bombardiere di Tandil, che nel 2009 conquistò l’Open degli Stati Uniti grazie ad una sontuosa prestazione in finale ai danni di Sua Maestà Roger Federer (3-6 7-6 4-6 7-6 6-2), prima di iniziare a brillare a corrente alternata a causa dei numerosi problemi fisici, in modo particolare quello al polso della mano sinistra, operato per tre volte.
L’arco di tempo cha va dalla consacrazione di Del Potro al torneo di Buenos Aires di alcuni giorni fa ha messo in luce l’attuale situazione del tennis argentino che, dati alla mano, appare tutt’altro che rosea. I tempi dei vari Chela, Gaudio, Coria e Nalbandian sembrano essere terribilmente lontani. Il primo giocatore (per classifica) in rappresentanza dell’albiceleste, infatti, è Leonardo Mayer, numero 38 del ranking ATP, seguito da Federico Delbonis (46), Juan Monaco (ormai trentaduenne e ben lontano dai fasti del 2012 che gli regalarono la top 10), Guido Pella (71) e Diego Schwartzman (90). Ottimi giocatori, sia chiaro, ma la metà (per numero, talento e rendimento) dei dieci che popolavano la top 100 appena una decade fa. I coetanei di “Delpo”, lontano dai Challenger di casa, danno l’idea di essere decisamente spaesati. Accomunati da una promettente carriera a livello giovanile, sembrano al contempo tutti afflitti da quella strana sindrome nota ai più come “paura di esplodere”. Parliamo di Facundo Bagnis, del suo omonimo Arguello, di Nicolas Kicker e Guido Andreozzi (questi ultimi finalisti nel Challenger di Santo Domingo della scorsa settimana), di Renzo Olivo e Marco Trungelliti. I loro nomi si alternano vorticosamente fra la posizione 100 e 200 del ranking, in quel limbo in cui è difficile accorgersi di peggiorare ma anche di migliorare. La federazione argentina ha investito molto su di loro, migliorando notevolmente le strutture e mettendogli a disposizione il meglio quanto ad allenatori, preparatori atletici e fisioterapisti. In cambio, però, ha chiesto ed ottenuto la loro presenza in almeno la metà dei tornei all’interno del paese (sempre a livello giovanile), proprio al fine di favorire ed incentivare la concorrenza “nazionale”. Ci si è chiesti, allora, se non sia stato proprio questo tipo di politica, che “coccola”, ma allo stesso tempo rischia di bloccare i talenti di casa, ad aver creato questa preoccupante impasse.
Se c’è una cosa che la storia del tennis argentino ha dimostrato nel corso degli anni è quella di saper uscire fuori anche dalle fasi più buie. E a testa alta. Il ritorno in campo di Juan Martin Del Potro è una splendida notizia, ma anche una grandissima incognita. A Delray Beach, questa settimana, tutti gli occhi sono puntati su di lui. La sua “prima” ufficiale dopo 327 giorni (una vittoria convincente per 6-1 6-4 ai danni dell’americano Denis Kudla) e la prematura uscita di scena di avversari del calibro di Kevin Anderson (suo ipotetico avversario nei quarti di finale) e Bernard Tomic legittimano già nuovi sogni di gloria. Per lui e per una intera nazione che oggi, come non mai, pende ancora dalla sua racchetta.
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