Negli anni ’70 e ’80 c’era Santillana, al secolo Carlos Alonso Gonzalez: un attaccante spagnolo che ha segnato una generazione, capace di firmare qualcosa come 186 reti con la maglia del Real Madrid. Oggi, invece, basta togliere la “a” finale (e cambiare sport) per avere uno dei personaggi più interessanti in chiave futura: lui è Akira Santillan, gioca (bene) a tennis e pochi giorni fa ha vinto il suo primo titolo Challenger a Winnetka, Illinois. Sul cemento americano il giovanotto, non testa di serie, è arrivato in finale lasciando per strada un solo set (in semifinale contro Matthias Bachinger) e poi nel match conclusivo ha regolato 76 62 l’indiano Ramkumar Ramanathan, in neanche un’ora e mezza, chiudendo con un ace.
Facciamo un rapido ripasso: Santillan è nato a Tokyo il 22 maggio 1997, eppure non è (più) giapponese. Questa è una storia, per quelli che ancora non la conoscono, che merita di essere riepilogata: insieme a papà Dean, sudafricano, e a mamma Harumi, giapponese, si trasferì in Australia all’età di sette anni (Gold Coast, per la precisione) e a tredici, dopo aver preso la cittadinanza aussie, smise di andare a scuola per dedicarsi completamente a palline e racchette. Gli esperti di tennis, gli appassionati purosangue, lo seguono da tempo: perché il nome di Santillan, carattere fumantino e tennis tutt’alto che canonico, gira da diverso tempo tra tornei giovanili e Futures. A vent’anni appena compiuti può già vantare sette titoli, sei Futures e il Challenger di Winnetka: piace soprattutto il suo gioco aggressivo, fatto di servizio e dritto molto potenti e un rovescio ad una mano piuttosto efficace.
Nato in Giappone, emigrato in Australia e sviluppatosi tennisticamente in Spagna. Si, avete letto bene: perché all’età di diciotto anni la federazione australiana smise di appoggiarlo (a seguito di un litigio con papà Dean) e così Akira ha trovato rifugio dapprima ad Almeria e poi a Benidorm, all’accademia di Ricardo Sanchez (già allenatore di Jelena Jankovic e Nadia Petrova). E la nazionalità? Australiano, giapponese e poi ancora australiano: dopo quel litigio, papà Dean impose al figlio di difendere i colori nipponici (nonostante Akira mastichi appena la lingua del sol levante) e infatti alle recenti qualificazioni di Wimbledon compariva ancora come giapponese. Ma ora, sia sul sito Atp che quello Itf, appare come australiano: se diventerà forte come sembra, chissà che accadrà al momento di rispondere alle convocazioni di Coppa Davis… ”Ho giocato per il Giappone nell’ultimo anno e mezzo, ma io mi sento australiano – le sue parole dopo il successo a Winnetka – sono cresciuto là e parlo meglio l’inglese, i miei amici sono australiani anche se il giapponese è la mia lingua madre. Ho preso la decisione definitiva dopo Wimbledon”.
Ad ogni modo questo ragazzo ha tutte le carte in regola per arrivare in alto, gioco e personalità non gli mancano di certo: “Un giorno vorrei diventare numero uno e vincere Wimbledon – disse non molto tempo fa – e mi piacerebbe qualificarmi per le NextGen Finals di Milano”, traguardo quest’ultimo un po’ lontano (al momento sono oltre 200 i punti di distacco dalla zona qualificazione). Intanto, grazie alla recente vittoria statunitense, Akira ha ritoccato il suo best ranking salendo alla posizione numero 171: ha già lasciato l’Illinois per trasferirsi a Rhode Island, dove questa settimana prenderà parte al 250 di Newport. Avversario di primo turno l’americano Michael Mmoh, classe 1998 in tabellone grazie ad una wild card: “l’erba è la mia superficie preferita” disse Akira in passato. Quanto tempo ci metterà a sfondare definitivamente?
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