di Roberto Commentucci
Negli ultimi anni sta crescendo il numero dei tennisti azzurri di vertice che ricorrono ad una guida tecnica straniera. Il fenomeno, da tempo diffuso fra le donne, sta prendendo piede anche fra gli uomini, in particolare fra i giovanissimi. Dopo Francesca Schiavone e Maria Elena Camerin, seguite dall’argentino Daniel Panajotti, dopo Flavia Pennetta, che ha da tempo al suo angolo lo spagnolo Gabriel Urpi, quest’anno è stata la volta di Fabio Fognini, che dopo la rottura del rapporto con il suo coach storico, Leonardo Caperchi, ha iniziato una proficua collaborazione con il giovane tecnico iberico Oscar Serrano. Negli ultimi giorni, si rincorrono voci che parlano di un contatto tra la Fit ed Eduardo Infantino, esperto coach argentino vicino a Piatti, già allenatore di Omar Camporese, che dovrebbe iniziare ad assistere il giovanissimo Thomas Fabbiano. (La notizia è stata riportata anche da Vittorio Campanile sul suo blog).
Eppure, da più parti si sente affermare che in Italia i bravi tecnici non mancano, che ci sono tanti buoni allenatori, che non abbiamo nulla da invidiare agli stranieri, eccetera. Ma è davvero così? O le cose, a ben vedere, stanno diversamente?
Andiamo con ordine.
In Italia, la grande rivoluzione della tecnica di gioco e delle metodologie di allenamento che ha enormemente cambiato il tennis a partire dagli anni ’80 è arrivata solo di recente, a causa della storica arretratezza in cui è stato lasciato il settore tecnico della FIT durante la nefasta era Galgani. Ancora a metà degli anni ‘90, i manuali tecnici federali prevedevano l’insegnamento di impugnature e gesti poco distanti da quelli dei tempi di Panatta e Pietrangeli (vedere il drittino di Luzzi per credere..). La nuova tecnica, il nuovo verbo, sono stati portati in Italia da pochi, volenterosi tecnici autodidatti, come Massimo Sartori, da personalità storicamente invise alla FIT, come Castellani, da coraggiosi emigranti, come Rianna, (che ha imparato il mestiere da Bollettieri), o ancora da pragmatici e laboriosi uomini di campo, come Pistolesi. Solo da pochi anni, finalmente, la FIT ha iniziato ad ammodernare la tecnica di insegnamento sin dalla base, e sta cercare di riconvertire, con fatica, i vecchi maestri.
Da questo ritardo è derivata una strutturale mancanza di know-how aggiornato. Per lunghi anni, siamo stati, dal punto di vista tennistico, un paese sottosviluppato: il nostro settore tecnico era come una marina da guerra che si ostinasse a produrre vascelli a vela nell’era del ferro e del vapore.
Ma questo non è il solo punto di debolezza.
Nel recente passato le nazioni storicamente forti, come la Francia, la Spagna, la Repubblica Ceca hanno prodotto un gran numero di giocatori professionisti di medio e alto livello, che a fine carriera si sono tramutati in eccellenti coach, mettendo a disposizione dei giovani di quei paesi l’insostituibile esperienza maturata sul circuito.
Da noi, non solo i tennisti professionisti sono stati un numero minore, ma molti di questi hanno preferito prendere strade diverse, spesso più comode. Se un Gaudenzi, uomo di carattere, cultura e ambizione, ha intrapreso con successo la carriera di manager, altri, come Pescosolido e Santopadre, hanno preferito la confortevole posizione di direttore tecnico nel circolo alla moda sotto casa, piuttosto che sfidare i disagi della vita nomade e fare il coach di un giovane tennista con prospettive.
Per tutti questi motivi, a mio avviso oggi come oggi in Italia i tecnici veramente bravi, in grado di seguire con professionalità ed efficacia un giovane professionista nel circuito, sono molto pochi. E quei pochi sono già impegnati.
E si, perché dopo una lunga crisi, nelle ultime 4-5 anni stagioni, il nostro movimento è tornato a crescere. Sebbene manchi un atleta di vertice, il tennis italiano è tornato ad avere una rappresentanza importante di atleti in grado di partecipare alle prove dello Slam. Ormai tra uomini e donne riusciamo stabilmente a piazzare 13-15 tennisti nei tabelloni dei majors. Questo significa un fabbisogno di altrettanti coach qualificati, e quindi quelli che abbiamo già non bastano. E non è tutto: la crescita del movimento, fortunatamente, anche per merito della nuova Federazione, sembra destinata a continuare, atteso che, finalmente, il nostro rifondato settore giovanile sta ricominciando a sfornare ragazzi promettenti con una certa regolarità, sia fra i maschi, sia soprattutto fra le ragazze. Nei nati fra l’89 e il ‘93 vi sono moltissimi giovani che possono ambire a diventare dei buoni professionisti.
E allora, il rischio è questo: la mancanza di un numero sufficiente di bravi tecnici, in grado di inserirli nel circuito pro, rischia di costituire un grave ostacolo all’ulteriore espansione del nostro movimento.
Ne emerge la necessità di una risposta da parte della Dirigenza Federale.
A mio avviso, le strade sono due. Se le cose continueranno così, diventeremo sempre più un paese importatore di allenatori, e faremo molta fatica per recuperare il terreno perduto. In alternativa, potremmo cercare di mandare fuori qualcuno ad imparare e fare le necessarie esperienze nelle realtà estere più evolute.
A mio avviso, la FIT potrebbe selezionare, tra alcuni buoni ex seconda categoria, un piccolo numero di giovani tecnici capaci, ambiziosi e motivati, e mandarli a fare esperienza presso le più moderne accademie e federazioni estere, seguendo come esempio il percorso professionale di Rianna. Potrebbero essere istituite presso la Scuola Nazionale Maestri delle “Borse di Studio” all’estero, da destinare ai più meritevoli. Questi, una volta tornati, potrebbero costituire lo “zoccolo duro” di un team di allenatori a cui affidare i nostri giovani talenti.
Mi rendo conto che il bilancio federale non è ricco. Ma si tratterebbe, a mio avviso, di un investimento davvero produttivo.
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