di Paolo Silvestri
Ci sono libri che una volta finiti, anche se spesso non siamo coscienti del perché, continuano a circolare e ad agire dentro di noi, quasi come i farmaci ad azione ritardata. A me è successo con Zuga: il riscatto di un ultimo (edizioni Ultra, scritto con Lia Del Fabbro), che ho letto la scorsa primavera, appena uscito, ma che in questi mesi mi è spesso tornato in mente e ha continuato a farmi pensare. Il motivo è duplice: da una parte la storia umana che si racconta, il percorso iniziato da un bambino non certo nato con la camicia alla ricerca di una suo dignitoso spazio nel mondo; dall’altra il racconto di un testimone dell’età dell’oro del nostro tennis, i cui protagonisti sono gli eroi che, da ragazzino, mi hanno fatto dichiarare amore eterno per questo sport. Sono queste le ragioni per cui ve lo voglio raccontare, anche se in ritardo sui tempi giornalistici classici.
Il famoso “sorteggione iniziale” è spietato. C’è chi nasce erede di alti lignaggi e predestinato a grandi imprese, e c’è chi nasce “per caso”, in condizioni in cui la lotta per la sopravvivenza è l’unica legge conosciuta. Ma la grandezza della vita sta anche nel fatto che il destino inziale può essere sovvertito e Tonino Zugarelli ne è un esempio straordinario. “È stato il caso, o forse la sofferenza, a farmi nascere”. Così inizia il suo racconto, in allusione al fatto che i suoi due fratellini maggiori erano mancati in circostanze drammatiche, e questo dolore aveva spinto i suoi genitori ad avere un altro figlio, cosa che in altre circostanze probabilmente non sarebbe successa. Da qua parte il percorso di Tonino, sullo sfondo sociale della Roma delle borgate, proprio negli anni della Roma frivola e luccicante della Dolce Vita. Due città diverse, due mondi impermeabili, tanto che Zugarelli racconta di aver messo per la prima volta piede in centro e di aver visto il Colosseo, Piazza Navona e la Fontana di Trevi per la prima volta a 16 anni!. La sua Roma non è certo quella di Ava Gardner, di Mastrioanni e dei paparazzi. È quella borgatara e pauperrima, a tutti familiare perché parte del nostro immaginario collettivo, quella descritta da Pasolini e dal Neorealismo. Un vita durissima, e un racconto che parla dalla baracca abusiva alla quale sono legati i suoi primi ricordi, dei giochi spericolati e delle scorribande con i teppistelli del quartiere, dei pungitopo venduti nelle feste natalizie davanti alla chiesa, oppure delle comparsate in molti film della Titanus a cambio di un pasto caldo o poco più. E per combattere la fame da subito la necessità di contribuire a far quadrare il bilancio familiare, gestito da un padre più “cicala” che “formica”. Ed è qui che entra in gioco il tennis, che non attrare minimamente il piccolo Tonino, ma che gli consente di racimolare qualche spicciolo prima come raccattapalle e poi come palleggiatore negli allora esclusivi circoli romani, in condizioni di semi-schiavitù. Ma è lavoro, non è amore. L’amore, viscerale, è per il calcio, sport nel quale è bravo, tanto da far parte della selezione regionale e da essere chiamato dalla Roma per un provino. Poi la scottante delusione (dovuta in realtà più che altro a un malinteso) gli fa appendere le scarpette al chiodo e imbracciare la racchetta, nonostante la menomazione dovuta alla perdita di parte della falange del pollice della mano destra in un incidente da bambino. Tonino ha talento, comincia a vincere e a farsi notare, con quella marcia in più che gli dà la voglia di riscatto, fino ad entrare nel giro del tennis che conta. E così, un po’ per caso, diventa un professionista. Un fior di professionista, la cui fama è stata in parte offuscata per il semplice fatto di aver avuto la fortuna o la sfortuna di far parte della generazione d’oro del tennis italiano, quella di Panatta, Bertolucci e Barazzutti.
E qui inzia la parte del libro succulenta per gli amanti del nostro sport, con una infinità di storie, di aneddoti e di personaggi indimenticabili: il centro federale di Formia, diretto da quell’incredibile personaggio che fu Mario Belardinelli (meglio noto nel giro come “il signor Mario”, o “Belarda”); la costruzione di quell’eccezionale squadra di Davis che tante soddisfazioni ci avrebbe dato, in particolare con la storica vittoria del ‘76 in Cile, forse uno dei pochi casi in cui un avvenimento sportivo si sia trasformato in Italia in un autentico caso di Stato; il difficile rapporto con Nicola Pietrangeli, con una personalità e un modo di intendere vita e tennis che faceva a pugni con quelle di Zugarelli; le sue non poche soddisfazioni a livello tennistico individuale, con un posto fra i primi 30 del ranking, un torneo vinto (Bastad ‘76), e soprattutto la finale degli Internazionali d’Italia raggiunta del ‘77 e persa per un soffio -e per una beffa della rete- contro Vitas Gerulaitis. E poi le difficoltà dopo il ritiro, i progetti andati a buon fine e quelli naufragati, i non facili rapporti con la Federtennis, in parte dovuti al suo non essere “uomo politico”, alla sua schiettezza e anche al suo carattere irruento.
Zuga: il riscatto di un ultimo forse non è un libro “bello” come Open, la biografia di Agassi. Segue in modo più piano la cronologia dei fatti e narrativamente non è un capolavoro. Ma è straordinario per quello che ci racconta, umanamente e sportivamente. Non è un atto d’amore nei confronti del tennis, nel cui mondo Zugarelli si è sentito sempre un po’ un estraneo. Ma è senz’altro un bellissimo atto d’amore nei confronti dello sport, capace di offrire una via di rivalsa, nel suo caso addirittura di salvezza, e di formare il carattere di un uomo onesto e coerente.
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