di Luca Brancher
“I tedeschi aspettano un giocatore di livello assoluto. Voglio fare loro questo favore.”
Sul finire del novembre del 1991 il mondo della musica, anche se sarebbe più corretto parlare di mondo a tutto tondo, data l’importanza e la levatura del personaggio in questione, rimase sconvolto alla notizia della morte del front-man di una delle band più note e conosciute, Freddie Mercury, ucciso dal “virus del secolo”, vale a dire l’AIDS, la medesima patologia che, poco più di un anno dopo, pose termine alla vita di uno dei giocatori che, se non possono essere a ragione definiti come tra i più forti di tutti i tempi, devono altrettanto correttamente venire posti tra i più rappresentativi di ogni epoca: Arthur Ashe. Al tempo non era però noto, perché era stato volutamente secretato, che Ashe non era stato il primo tennista di caratura internazionale ad aver pagato dazio al virus dell’HIV. Prima di lui, c’era stato Michael Westphal.
Come avremo modo di capire più avanti, la vita e la carriera di Westus, così amava farsi chiamare, si lega a doppio filo con quella di Michael Stich, con cui condivide, innanzitutto, il paese di origine, Pinneberg – facendo assurgere questo centro di meno di 50.000 abitanti alla stregua di ciò che può rappresentare Utrecht per i calciatori dei Paesi Bassi. Nato a metà febbraio del 1965, Michael prese in mano la prima racchetta a 9 anni, ma tale era il suo talento che, nel giro di breve tempo, si pose all’attenzione di tutti gli osservatori della Germania Occidentale: a 16 anni sarebbe divenuto campione europeo di categoria, titolo che lo spinse a buttarsi a capofitto tra i professionisti, sacrificando così una normale educazione scolastica.
Michael, oltre ad essere un giocatore di talento, era un bel ragazzo: alto 191 centimetri, biondo, ricciolo ribelle, era molto appetito dal pubblico femminile, che però si dovette quasi immediatamente arrendere dal momento che, sin dai 17 anni d’età, ha fatto coppia fissa con una ragazza nata ad Amburgo, ma cresciuta in varie città europee, Jessica Stockman, di due anni più giovane. Il teutonico, a cui si deve la frase riportata come incipit di questo stesso articolo, ebbe un esordio sul circuito immediatamente convincente, a tal punto che gli valse la convocazione per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, dove solo Jimmy Arias gli impedì l’accesso in zona medaglie. Il suo stile di vita alquanto libertino e non completamente focalizzato sul tennis – una sorta di Gulbis ante litteram – gli costò varie critiche dai suoi stessi connazionali, non ultimo l’ex pro e capitano di Davis Willhelm Bungert, che, al termine dell’anno cruciale 1985, affermò con sicumera che Michael sarebbe potuto entrare seduta stante nel novero dei giocatori più forti dell’intero globo, se avesse cominciato a pensare da tennista 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, 52 settimane all’anno.
Perché anno cruciale, il 1985? Non vi viene in mente nulla, che interessi il tennis tedesco in quell’anno? Esatto, nel corso dell’estate un ragazzo di Leimen divenne il più giovane giocatore ad aggiudicarsi la prestigiosa corona messa ogni anno in palio all’All England Lawn Tennis & Croquet Club di Wimbledon: Boris Becker. Era nata una nuova stella, come aveva predetto lo stesso Michael, ma quel giocatore non era lui. Ebbe però occasione di piazzare un acuto la cui risonanza mediatica in terra tedesca sarebbe stata di poco inferiore, sempre nel corso di quell’anno, il 4 ottobre, a Francoforte. Scelto come secondo singolarista della squadra di Davis, difese con onore, davanti a 10.000 spettatori, ed oltre 12 milioni al televisore, i colori della sua nazione nella semifinale contro i favoriti cecoslovacchi: il suo match, contro il 17esimo giocatore del mondo – e, per tutto il 1985, il tedesco era stato classificato attorno alla 50esima posizione – Tomas Smid, conclusosi sul 6-8 1-6 7-5 11-9 17-15 e durato quasi 5 ore e mezza, fu decisivo per la vittoria. Non solo Becker, c’era anche lui. Peccato che quel giorno d’inizio ottobre, nell’Assia, non era cominciata la sua carriera ad altissimi livelli, come la nomea istantanea di “eroe di Davis”, che gli era stata affibbiata, lasciava presupporre, era bensì iniziato il suo declino: purtroppo, qui non si parla soltanto di sport, ma si parla di vita a tutto tondo.
Nel 1986 Michael avrebbe colto una serie di impressionanti sconfitte consecutive, tra cui i soli due giochi conquistati contro Becker a Roma, che lo fece precipitare in classifica. Dalla crisi irreversibile di risultati non si sarebbe mai più ripreso e, sui grandi palcoscenici, Westus non avrebbe più saputo recitare un ruolo da protagonista, con un ultimo sussulto nel suo torneo di casa, quello di Amburgo, a maggio del 1989: vinse tre partite e raggiunse i quarti di finale. Poche settimane dopo venne ricoverato al Hamburger Tropeninstitut per una strana malattia, che gli aveva provocato, col tempo, la caduta dei capelli, problemi al cuore e infezioni cutanee. La sua fidanzata dell’epoca, Jessica, ricorda ancora con orrore quei momenti:
“Si parla della fine degli anni ‘80, quando venivano lanciate le prime campagne di prevenzione contro l’AIDS ed attorno a questa malattia c’era un alone di paura e diffidenza. Se fosse accaduto oggi, Michael sarebbe ancora vivo, ma all’epoca non si conosceva molto, e gli furono somministrati dei farmaci che come unico risultato ebbero la sua devastazione fisica.” Jessica, nel frattempo, è diventata un’attrice, cantante e presentatrice di una certa fama, ma è nota per il suo impegno contro l’AIDS. “In molte persone, anche del mondo dello spettacolo, mi avvicinano, mantenendo il riserbo, non vogliono uscire allo scoperto, perché hanno paura. La sfortuna di Michael è legata al fatto che non era ancora noto che fosse possibile convivere con l’HIV, per cui la sua battaglia è stata vana. Ma non appena trapassò, tra atroci sofferenze, mi ripromisi che per 10 anni non avrei accennato al fatto che la sua morte era stata determinata da quello, bensì nel frattempo avrei cominciato ad attivarmi nel campo sociale. Ci ho messo quasi 20 anni per togliermi dalla testa l’immagine di lui malato e rivederlo invece felice, così come era quando l’ho conosciuto. E’ stato poco accorto quando ha contratto il virus (si parla di un tradimento con una ragazza sieropositiva) – infatti l’ho biasimato più per non avere usato precauzioni che per il resto – ed io sono stata molto fortunata a non risultare infetta: il mio angelo custode mi ha salvata”.
Il decorso della malattia è durato oltre 2 anni, un tempo lungo, ed è culminato con la morte dell’atleta, il 20 giugno del 1991. Pochi giorni dopo sarebbe iniziata un’edizione di Wimbledon piuttosto nota, dove, nell’atto conclusivo, si sarebbero sfidati due atleti tedeschi, Becker e Stich: proprio il compaesano di Westphal avrebbe vinto, a sorpresa, il titolo, portando così a termine la medesima impresa che il suo omonimo avrebbe voluto compiere per il suo stesso popolo. L’anno successivo la stessa Jessica sarebbe convolata a nozze con Stich, da cui si sarebbe separata nel 2003, non prima di aver insieme fondato la “Michael Stich Foundation For Children with Aids”, che opera dal 1995. “Nei 6 mesi successivi alla sua morte, decisi di portare con me l’urna con le ceneri di Michael ovunque io andassi. Tornai a Monaco ed in tutti i posti in cui ero stata con lui, perfino sui voli, e questo mi ha provocato alcuni problemi con qualche zelante controllore di volo. E’ stato il mio lungo modo di dirgli addio.”
Michael Westphal, sebbene sia inutile aggiungerlo, ci ha lasciato effettivamente troppo presto. Era un personaggio fuori dagli schemi che divideva, e non poco, l’opinione pubblica, in particolare quella tedesca: non di rado accadeva che lui rispondesse alle accuse di essere poco professionale, ricordando che per giocare bene a tennis, aveva bisogno di divertirsi e di essere contento. Probabilmente l’ennesimo carico di pressione derivante dalla grande rimonta in Davis è stato letale per un giocatore che, per diventare forte quanto le sue qualità lasciavano intravedere, avrebbe avuto bisogno di tempo. Purtroppo non gli è stato concesso: viene ricordato con l’Award che porta il suo nome e che viene attribuito, da “Tennis Magazin”, ad un tennista che si è particolarmente imposto per la sua personalità: in passato è stato vinto da Roger Federer ed Ana Ivanovic. Resterà l’eroe di Francoforte, ma sarebbe potuto essere molto di più.
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