di Luca Brancher
Se c’è un motivo per cui ogni anno, durante le ATP Finals – note anche come Master – si tende a discutere, è per il formato che contravviene alle semplici regole del tennis: il round robin, utilizzato quasi in maniera esibizionistica – i giocatori presenti sono tutti top-players, sulla carta, per cui permettere ai tifosi di vederli almeno impegnati in tre gare è un incentivo al pubblico per accorrere – rappresenta un’anomalia per un sport in cui l’eliminazione diretta è una componente fondamentale. Chi vince, prosegue, chi perde, torna a casa: semplice, no? Per tutti i tornei funziona così. E così è sempre stato, ad eccezione di una breve parentesi ad inizio 2007, quando i round robin presero piede, in via sperimentale, anche nel circuito ATP. Il pensiero che si celava dietro a questa operazione probabilmente era il seguente: dal momento che i quattro tornei dello Slam non rientrano nel novero delle manifestazioni organizzate dall’associazione dei tennisti professionisti, a differenza del Master, vuoi mai che, allargando la base dei tornei con questo sistema, la kermesse di fine anno, basata su questa formula, assuma sempre più valore, anche a discapito di quelle quattro competizioni targate ITF?
Quest’ultima è una mia provocazione, sta di fatto che il sudafricano Etienne De Villiers, che all’epoca era presidente della federazione mondiale da quasi due anni, optò per la creazione di alcune manifestazioni con questa formula, chiaramente con i dovuto distinguo rispetto al Masters. De Villiers, soprannominato sarcasticamente Mister Disney per il fatto di aver rivestito cariche di un certo livello anche all’interno del colosso dell’intrattenimento di Burbank, era infatti certo che con l’introduzione di questa tipologia di struttura, da implementare nelle manifestazioni di secondo piano, le suddette avrebbero avuto maggiore appeal e visibilità, andando così a recuperare il gap con quelle considerate superiori. E l’idea fu ingegnata anche per favorire il lato economico della faccenda, perché, stando al ragionamento valido per le ATP Finals, la possibilità di vedere i big in campo per almeno due partite – mentre quante volte, nei tornei minori, i maggiori giocatori disputavano, e male, solo il primo turno? – avrebbe attratto un pubblico maggiore. Bastava soltanto decidere quale formato andasse sperimentato.
Ne furono avallati tre, che avrebbero coinvolto 24, 32 o 48 giocatori. Nel primo caso, i 24, formati da 3 qualificati, 2 wild card e i restanti direttamente ammessi per meriti di classifica, sarebbero stati divisi in otto gironi da 3, capeggiati ciascuno da una delle otto teste di serie. Perché, qui, stando a De Villiers e soci stava la vera genialata: il problema dei dead rubber che poteva attanagliare il Master di fine anno – ovvero gli incontri inutili – era riconducibile al formato dei gironi a 4. Ma se questi fossero stati ridotti a 3, la problematica veniva evidentemente meno, ogni incontro avrebbe avuto un suo peso e quindi fino all’ultima partita sarebbe stato (quasi) impossibile determinare chi avrebbe passato il turno. E poi, come incentivo, c’erano pur sempre i punti che ciascuna partita avrebbe assegnato. Tornando alla formula, gli otto gironi avrebbero permesso ad un giocatore di venire promosso ai quarti di finale, che avrebbe dato il la alla parte ad eliminazione diretta, col classico rispetto delle posizioni per le teste di serie (numero 1 in alto, numero 2 in basso, ecc. ecc.). Quello a 48 era plasmato sulle medesime modalità, con la differenza che i gironi erano 16, le teste di serie altrettante, e la fase eliminatoria partiva dagli ottavi di finale, mentre il torneo a 32 prevedeva un primo step, un incontro “barrage”, in cui venivano coinvolti i 16 giocatori con peggior classifica (wild card e qualificati compresi) – rimasti così in 8 – che avrebbe consentito di procedere poi con la modalità già vista per i tornei a 24. Quest’ultimo caso, definito “ibrido” fu curiosamente quello che, tra gli organizzatori utilizzati come cavie, ebbe maggior successo.
La prima sperimentazione avvenne ad Adelaide, la tappa tanto cara a Lleyton Hewitt, che però fece registrare il successo, il primo sul cemento all’aperto, di Novak Djokovic, prima testa di serie. Un torneo indolore, almeno dal punto di vista regolamentare e comportamentale, dato che i passaggi di turno non crearono grossi scompensi. Il vincitore di ogni girone, infatti, veniva decretato in base al numero di partite vinte (e se qualcuno le vinceva entrambe il gioco era fatto), oppure, in caso di arrivo a pari punti, dallo scontro diretto, poi dal numero di partite completate, altrimenti dalla percentuale di set vinti ed infine da quella dei giochi vinti. In caso di ulteriore parità si sarebbe ricorso a sistemi piuttosto discutibili come gli scontri diretti o la posizione in classifica, ma chiaramente per giungere a questo punto si sarebbero dovute configurare situazioni piuttosto bizzarre. Come detto, ad Adelaide, col successo in finale di Djokovic sull’idolo di casa Guccione, nessuna problematica sollevata, con tutte le particolarità gestite in maniera impeccabile: ad esempio, il ritiro di Janko Tipsarevic dopo il primo match, nel girone che comprendeva anche Lleyton Hewitt e Igor Kunitsyn, poteva comportare qualche irregolarità, perché alla vigilia del match conclusivo, in cui il serbo avrebbe dovuto sfidare proprio il russo, il suo posto fu preso dallo sconfitto nel barrage Martin Vassallo Arguello in un match inutile, perché Kunitsyn, per giungere ai quarti di finale, avrebbe potuto perdere con qualsiasi punteggio, visto che solo lui e Hewitt – gli unici ad aver giocato due partite – erano eleggibili e il ragazzo di Vladivostok si era aggiudicato lo scontro diretto. Tuttavia, Igor si aggiudicò anche quell’incontro, evitando che Vassallo-Arguello conquistasse 20 punti in una partita senza un’intensità che si sarebbe invece mostrata in un normale incontro “dentro-fuori”.
Il secondo appuntamento, dei 12-13 previsti nel primo anno di prova, fu Delray Beach, dove ancora una volta venne premiata la formula a 32 e dove a vincere fu Xavier Malisse (foto a destra), l’unico tennista, tra gli otto giunti ai quarti di finale ad aver perso un incontro, l’ultimo del suo gironcino, contro il tedesco Rainer Schuettler, quando, dopo aver vinto il primo set, già era certo del passaggio di turno proprio per il famigerato “quoziente set” – sarebbe stato comunque l’unico ad averne vinti tre. Danni minori, si pensò, anche perché nella stessa settimana, a Vina del Mar, si svolse una competizione a 24 che senza infamia e senza lode portò Luis Horna ad aggiudicarsi la manifestazione, in finale su Nicolas Massu. In quei giorni diverse erano le proteste, tra gli appassionati, non avvezzi, prima dell’ultimo incontro a calcolare quanti giochi fossero sufficienti al proprio beniamino per garantirsi il passaggio del turno, ai giocatori stessi, che in maggior parte mal digerivano questo nuovo meccanismo. Tra i più feroci c’era lo stesso Roger Federer – che disse da subito che non avrebbe mai voluto disputare tornei con questo formato – mentre tra i favorevoli, almeno inizialmente, come non citare Rafa Nadal? La situazione, però, a quel punto, era quasi idilliaca, se paragonata a quanto sarebbe avvenuto nelle ultime due competizioni, quella di Buenos Aires e quella di Las Vegas, che avrebbero sancito il totale fallimento della sperimentazione. Perché un conto è se chiedi ad un giocatore di secondo piano di disputare una partita senza alcuna motivazione ai fini della vittoria finale, ma quando la palla passa ai top-players... Nella capitale argentina si arrivò davvero vicini ad una sommossa popolare.
A cominciare con Gaston Gaudio, già campione del Roland Garros, che dopo aver perso la prima partita contro Ramirez-Hidalgo, piuttosto nettamente per 6-1 6-1, decise di alzare bandiera bianca, dal momento che, a causa del quoziente games, non aveva più alcuna possibilità di vincere il girone. Ed allora spazio a Carlos Berlocq, che poteva facilmente disporre di un Alesso Di Mauro (nella foto a sinistra, premiato a Baires), già certo del passaggio di turno perché aveva sconfitto l’iberico Ramirez-Hidalgo nello scontro diretto. E quel doppio 6-1 diveniva cibo per vermi. Un comportamento simile lo teneva anche Josè Acasuso, che si ritirò dopo aver perso il primo match, contro Sergio Roitman, in due set e aver ceduto la prima frazione del secondo incontro al connazionale Diego Hartfield, e anche Agustin Calleri, che poco desideroso di imbattersi in calcoli, cedeva la scena dopo essere stato battuto da Albert Montanes. Ma non era soltanto una protesta di matrice argentina, perché uno dei capi della rivolta fu Juan Carlos Ferrero, capitato nella classe situazione atipica, dove, il ritiro di uno dei componenti originari, Nicolas Lapentti, rendeva vano il suo ultimo match, visto che invece che con l’ecudoariano l’iberico avrebbe dovuto affrontare il ripescato ceco Lukas Dlouhy, con sullo sfondo il transalpino Nicolas Devilder già certo del passaggio del turno. Ferrero, quella partita, non la voleva proprio giocare e solo grazie alle intercessioni di varie persone lo spagnolo scese in campo, per vincere un incontro inutile: per un ex-vincitore del Roland Garros, 20 punti in più non sono poi tutto questo incentivo. Tuttavia, la competizione si spingeva stancamente verso la fine con il successo di Juan Monaco su Alessio Di Mauro, ma per quanto le proteste dei giocatori, e non solo, avvampassero da più parti, il regolamento, pur perverso, manteneva la sua validità. Certo, già si era capito che la sperimentazione del 2007 non avrebbe avuto un seguito, ma per quanto si era ben lontani da quanto sarebbe accaduto di lì a poco nella manifestazione che avrebbe funto da epitaffio a questo sistema.
Accade tutto a Las Vegas, nella competizione a cavallo tra i mesi di febbraio e di marzo. La pietra dello scandalo si verificò nel girone numero 1 degli 8 che andavano a costituire la formula a 32 utilizzata anche in Nevada: i componenti erano James Blake, primo giocatore del seeding e detentore del titolo, e le due giovani promesse Evgueni Korolev e Juan Martin Del Potro. Nel primo match Delpo superava facilmente, col punteggio di 6-3 6-2, il russo, mentre Korolev si rifaceva nel successivo contro Blake per 6-2 6-4. A quel punto Korolev, con un quoziente giochi di 17 vinti e 18 persi era già piuttosto certo di non potersi qualificare per i quarti, mentre Blake, per superare Del Potro, avrebbe dovuto vincere con un punteggio più netto di quanto l’argentino non avesse fatto contro Evgueni: ovvero non cedendo più di cinque giochi.
Un’impresa, in verità, che però si andava via via concretizzando, perché James si aggiudicava il primo set per 6-1 e nel secondo sembrava disporre in maniera simile il suo avversario, quando avvenne l’imponderabile: Del Potro, afflitto da problemi di respirazione, si ritirava sotto per 1-3 e gelava il pubblico. Perché, regolamento alla mano, essendo tutti i giocatori con una vittoria ed una sconfitta, ma avendo Juan Martin non completato il suo ultimo incontro, ai quarti di finale ci sarebbe dovuto andare Evgueni Korolev, per aver vinto contro James Blake. A termini di regolamento, per quanto impopolare, la scelta era lì, molto facile da prendere: ma questa non andava bene agli organizzatori, che non si sa presi da quale raptus, se l’amarezza per aver visto uscire in maniera beffarda il beniamino pubblico, oppure se convinti che Del Potro li avesse raggirati con quel ritiro che era suonato strano sin da subito. Senza di quello era sicuro che a passare sarebbe stato l’amato James e non il poco attraente, a livello di audience, russo. Tanto pazzi, a Las Vegas, ma sapevano bene che per prendere una decisione che smentisse in maniera così netta il regolamento avrebbero dovuto interpellare il grande capo, Etienne De Villiers, che fu informato piuttosto rapidamente della situazione. Il quale, in maniera sorprendente, decise di assecondare la volontà degli organizzatori e di promuovere Blake, proprio perché, il match era vicino alla conclusione ed era piuttosto certo che lo statunitense se lo sarebbe aggiudicato in una maniera tale da garantirgli il raggiungimento del quarto di finale, ricordando inoltre che Del Potro aveva garantito che avrebbe concluso il match se avesse saputo cosa il suo ritiro aveva implicato. L’editto, annunciato nella serata di giovedì – quando in Europa era notte, è bene ricordarlo, visto che lo stesso Etienne disse di essere stato svegliato dalla chiamata proveniente da Las Vegas – fu accolto con totale smarrimento di chiunque, anche perché, giustificarono la mossa dicendo che Korolev avrebbe comunque ricevuto un premio in denaro pari alla somma di quanto garantito a chi avesse raggiunto i quarti di finale e la semifinale: a certificare il clamoroso errore che stavano commettendo, perché, sempre stando a De Villiers, questa rivisitazione ex-tempore del regolamento era dovuta ad una mancata chiarezza su questo punto. Fatto piuttosto curioso, perché le stesse regole, sulla modalità dei passaggi del turno nei round robin compresi, erano state sottoscritte dal consiglio dell’ATP, in cui, era partecipe, come vice-presidente del consiglio dei giocatori James Blake, il quale, in quella sede, affermò di averci messo 24 ore per capire come stavano le cose. La legge, però, non ammette ignoranza e dopo una notte infuocata, De Villiers capì che quella sua uscita aveva troppe falle per rimanere immacolata, per cui poche ore dopo, ritirò tutto, ristabilendo la santità del regolamento, che però a questo punto veniva implicitamente messo sulla gogna dagli stessi creatori. Korolev avrebbe potuto giocare i quarti di finale, venendo informato a poche ore dallo svolgimento degli stessi, si sarebbe fermato in semifinale, dopo aver battuto un altro yankee, ma il torneo sarebbe stato vinto da Lleyton Hewitt, che, assieme a Marat Safin, pure lui presente, non avrebbe perso tempo a denunciare la grande confusione e l’inutilità di tornei così pensati.
De Villiers, ormai oggetto di aspre critiche, decise di organizzare un consiglio urgente nel torneo di Miami, dove venne presa l’insindacabile decisione di abolire seduta stante il round robin. E questo tentativo amaramente fallito, assieme a quello di togliere a Montecarlo lo status di torneo 1000, pesarono molto sul giudizio negativo che i giocatori ebbero dell’operato del manager sudafricano. Limitiamo il round robin al Masters di fine anno, che così storicamente è, e evitiamo di pensare che un giocatore possa pensare a quanti games deve vincere per passare un turno, in uno sport in cui, può capitare, che a vincere sia chi fa meno punti del proprio avversario. E soprattutto, se vogliamo attuare una rivoluzione, dobbiamo quantomeno prevedere tutti i possibili scenari, a maggior ragione quelli catastrofici: perché è facile che il tutto si tramuti in un conclamato flop.
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