di Marco Mazzoni
La palla corre carica d’effetto, uncinata dal dritto di Filippo Volandri, speranza del nostro tennis. E’ veloce. Fila via sopra la rete, maligna, con un angolo cross importante. I miei occhi sono rapiti dalla sfera che avanza sicura nell’aria tersa di quella giornata d’inizio aprile, schivando sicura il polline che gli alti alberi del parco delle Cascine dispensano fin troppo generosamente. Non c’è vento. Il silenzio regna in tribuna tra i molti spettatori accorsi per la finale del più importante evento giovanile fiorentino, ITF Under18. Questa la prima istantanea di quella pasquetta, appena entrato (di corsa) sul centrale del Ct Firenze.
Sono in ritardo, è difficile trovare parcheggio intorno al club, molti hanno pensato di portare i figli al parco approfittando del primo pallido sole primaverile. Entrato fino all’angolo destro del campo, il mio sguardo è calamitato sullo scambio in corso, su quella palla così liftata da arrampicarsi vigorosa ben oltre il mio sguardo e che ora arriva giusto dritta verso di me. Quasi che Filippo avesse voluto punire con una “pallata” la mia maleducazione per esser entrato durante il gioco. Resto un attimo in piedi, seguendo quella traiettoria angolata. Sento ansimare, passi rapidi e sicuri marcano la terra rossa fiorentina. Entra finalmente nel mio campo visivo il giocatore per il quale m’ero spinto nel giorno di pasquetta ’98 sino a Firenze: Roger Federer. Non l’avevo mai visto in faccia. Non sapevo che aspetto avesse. Ignoravo che tipo di tennis giocasse. Svizzero poi, mica uno svedese o francese. Però… alle mie scrupolose indagini non erano passati inosservati i suoi risultati, e la sua racchetta è lo Stradivari del tennis: Wilson ProStaff 85, accessibile solo a pochi eletti. Indizi di qualità. Con i suoi quasi 350 grammi di sostanza e magia, la racchetta di Federer si scaglia con violenta sicurezza sulla palla di Volandri, mulinando nell’aria, a pochi metri dalla mia faccia, uno swing maestoso. Un lampo. Impatto secco, con un leggero spin di controllo, in totale allungo con il braccio ben disteso in avanti ed un minimo gioco del polso, fino a terminare la sua corsa dietro alla spalla sinistra. I miei occhi sono perfettamente ortogonali alla traiettoria di uscita del colpo di Federer. Sgrano lo sguardo, non è possibile… La palla muore subito al di là della rete, stretta, velocissima, imprendibile. Dopo qualche istante di muto sconcerto, qualche spettatore applaude. Volandri guarda allibito, chinando il capo impotente. La faccia di Roger non accenna la minima emozione, come se dicesse a noi attoniti spettatori “Beh? Che c’è di strano?”. Mi colpisce il suo sguardo cupo, intenso. Emana qualcosa di speciale. Mi siedo senza riuscire a staccarmi da quel volto segnato da una profonda inquietudine. Mi aspettavo tutt’altro, e forse per questo mi intriga. Chiedo al mio vicino di posto, un anziano dall’aria sveglia: “Quanto stanno?”. “2-0 per l’altro” (che sarebbe Federer). “Ne ha giocati altri di colpi così?”. “…il nostro quasi non la vede”.
Si dice che gli appuntamenti al buio siano pericolosi, che possa capitarti di tutto, comprese tremende delusioni. A volte scattano anche colpi di fulmine, incontri che cambiano una vita. Quel giorno successe a me. Non sapevo cosa sarebbe successo, speravo solo di assistere ad un bel match di tennis, ammirando in campo un “possibile” buon giocatore italiano, contro uno che “si dice” sia un talento. Quel giorno ho conosciuto cosa sia Il Tennis. Alla massima potenza. Ho incontrato, lì a due metri da me, Roger Federer.
Siamo alla fine degli anni ’90, decennio dominato dal tennis splendido di Pete Sampras, capace di portare la classicità del nostro sport a velocità e potenza mai vista. Un campione epocale l’americano, uno di quelli che ti passano davanti una volta nella vita, che cambiano le regole del gioco. Il solo immaginare che potesse esplodere proprio in quel periodo un giovane ancor più forte di Pete sarebbe stato un pensiero ardito. Invece il tennis ha spiazzato tutti per l’ennesima volta. Gli Dei del nostro sport scelsero Roger Federer, donando alla sua racchetta abilità assolute. Divine. Un talento quasi capace di piegare le leggi della fisica alla propria volontà, come se la palla avvicinandosi alle sue corde rallentasse, regalandogli quella frazione di secondo in più per trovare traiettorie fuori da ogni regola. In realtà non era la palla a fermarsi, ma il suo istinto, velocità di pensiero e talento ad accelerare così tanto la testa della racchetta da consentirgli infinite possibilità. Una classe così immensa da portarlo a vincere tutto, infrangere ogni record, affascinare con un gioco spettacolare, elegante, quasi irreale. Tanto che oggi, mentre festeggia i 33 anni in Canada insieme alla sua splendida famiglia, l’intero mondo dello sport lo abbraccia e lo ringrazia, perché quello che ha regalato in campo va oltre il puro fatto sportivo.
Eppure per diventare la leggenda che ha riscritto la storia della disciplina ha dovuto mangiare non poca polvere, compiendo un percorso di maturazione lungo e complesso. Da teenager non era proprio quello che ogni madre vorrebbe per sua figlia. Introverso e conflittuale, era da prendere con le molle perché poteva esplodere da un momento all’altro. Naturalmente disordinato, facile preda di cali di concentrazione, ha impiegato anni a trovare un equilibrio, a capire che col solo talento non sarebbe arrivato da nessuna parte. Quando a 14 anni sbarcò al centro tecnico federale svizzero (ospitato nella parte francofona) parlava un pessimo francese, e questo lo isolò dal resto dei compagni. Aveva problemi di peso essendo la sua dieta composta quasi esclusivamente da pizza a taglio di dubbia qualità o schifezze simili. Dormiva pochissimo, passando le nottate al telefono con la madre e la sorella Diana in conversazioni sofferte, in cui esternava le sue frustrazioni e la voglia di mollare tutto. Ma la passione era troppa, e resiste. Fa fatica ad alzarsi la mattina, si costruisce una maschera da duro. A scuola fa finta di studiare, salvandosi tra astuzie e menzogne. In allenamento perde spesso, non sputa sangue. Arriva tardi in campo e risponde male anche ai superiori …tanto da esser relegato a pulire per settimane gli spogliatoi lerci di fine giornata. Umiliazione mortale per uno col suo piglio, che pur di non farsi battere le buttava tutte fuori, sogghignando “l’ho persa io, non l’hai vinta tu”. Nessuno, nonostante un braccio fatato, credeva che potesse diventare un professionista, tanto meno un’icona dello sport. Ma il talento era così immenso da vincere Wimbledon junior e diventare campione ITF, mostrando lampi di classe mai visti. I primi anni di circuito Pro sono altalenanti, la crescita è lenta. Mentre altri suoi coetanei strappavano vittorie notevoli e si issavano ai vertici della classifica, Roger regalava prestazioni di valore assoluto in mezzo al deserto di sconfitte sconcertanti. Un successo che ha segnato profondamente la carriera dello svizzero (e quindi la storia del tennis) arrivò lunedì 2 luglio 2001, tanto per cambiare sul centrale di Wimbledon. Un Roger stranamente focalizzato e tranquillo arrivò agli ottavi dei Championships. Il tabellone propone uno scontro con Sampras, 7 volte campione e imbattuto dal ’96. La partita è bellissima. Lo sguardo di Sampras, generalmente freddo come una poker star, si fa sempre più cupo vedendo che il ragazzo non ne vuol sapere di chinarsi alla sua maestria. Roger risponde bene, fa giocare sempre un colpo in più al vecchio campione, e col servizio tiene in sicurezza. Va in scena uno spettacolo alto, ricco di colpi mozzafiato tra le bordate potenti dell’americano e le accelerazioni velocissime dello svizzero. Al quinto set Roger trova nel finale il guizzo decisivo, strappa di forza la battuta a Sampras e chiude, crollando a terra piangente. Sampras stringendogli la mano ha lo sguardo non solo dello sconfitto ma chi ha intuito che quel giovane dominerà nel “suo giardino” di Wimbledon, e che ha tutto quel che serve per demolire uno dopo l’altro i suoi record. Quel giorno si è scritta la storia del tennis, avvenne una delle famose rotture, l’ideale passaggio di consegne tra i due più forti dell’Era Open.
Roger avrà bisogno di un po’ di tempo per digerire quella vittoria e maturare abbastanza da reggere una pressione crescente. Il gioco superiore mostrato in quella partita non poteva restare un evento casuale, eppure altre vittorie notevoli erano intristite da brutte sconfitte. Al punto che intorno al 2002 alcuni iniziavano a dubitare che tanta classe si sarebbe trasformata in altrettante vittorie. Proprio quell’anno accadde un evento tragico, che in lui ebbe l’effetto di uno choc, che lo fa svoltare definitivamente verso il campione che ha vinto tutto. In un incidente stradale morì Peter Carter, il suo primo coach, quello che l’aveva formato nei difficili anni giovanili. Fu una scossa violenta, che renderà definitivamente chiare le parole che l’amico Peter gli aveva illustrato per anni sulla strada da prendere. La sua maturazione si completa in pochi mesi. Roger mette freno alla sua irrequietezza, acquista in modo sorprendente una freddezza quasi “borghiana”. Quello sguardo prima sprezzante si fa più più serio, ma intenso. Inizia una vita da “freak control”, un po’ alla Lendl per intenderci. Tutto quello che gli ruota intorno è studiato minuziosamente per dare la giusta tranquillità e farlo rendere al meglio, con il solo focus sulla carriera e sulle vittorie. Guai se alla mattina il borsone da gioco non è perfetto, o se l’auto per l’allenamento arriva in ritardo. Alla sua onnipotenza tecnica si aggiunge finalmente la testa del campione, la disciplina necessaria a far esplodere le qualità devastanti del suo braccio. Si costruisce routine vincenti grazie ad un team affiatato e competente: dalla compagna Mirka fino a Pierre Paganini, preparatore fisico che ha sempre lavorato nell’ombra ma che è stato fondamentale per dotare il suo assistito della cilindrata necessaria a farlo esprimere al meglio, incrementandone a dismisura il picco di prestazione e rendendolo così elastico da preservarlo dagli infortuni. L’incontro che ne segna la definitiva consacrazione, che regala il vero Roger Federer al mondo del tennis, è la finale 2003 di Wimbledon. Gioca un grande torneo e al match per il titolo trova il potente ma lento Mark Philippoussis. Troppa la differenza di classe. Roger miscela con sapienza discese a rete e scambi dal fondo, punendo la pesantezza del rivale su di un’erba che era già stata rallentata. In tre set doma l’irruenza dell’australiano e alza al cielo piangente la sua prima coppa di uno Slam. Il Federer Express non si fermerà più. Dal 2004 al 2007 ha dominato il circuito in modo splendidamente dispotico, una tirannia tecnica mai vista, continuando poi a vincere con qualche pausa fino a tutto il 2012, l’anno del suo settimo Wimbledon e del superamento delle 300 settimane come n.1 del ranking. Ha ottenuto tante di quelle vittorie, record e premi da superare per numero quello delle comparse in Ben Hur… Impossibile elencare tutti i suoi primati, solo per citarne alcuni dei più impressionanti: 17 titoli dello Slam, 6 Masters di fine anno, 23 semifinali consecutive negli Slam (segno di una continuità al vertice pazzesca), 237 settimane consecutive al n.1 diventate poi 302 in totale, per 4 volte consecutive Laureus Sportsman of the Year. Ma più dei titoli, Federer ha raggiunto uno status di immortale superiore al suo stesso palmares, è l’ideale testimonial della sportività e del classico. Apparterrà per sempre ad un Olimpo ristrettissimo di personaggi che sono andati oltre al loro sport diventando icone, come Maradona, Michael Jordan, Mohammed Ali e pochissimi altri.
Personalmente quello che mi ha sempre impressionato di Federer è la naturale facilità del suo tennis, quella sensazione di elegante onnipotenza che traspare dalle sue giocate. Nessuno come lui è stato capace di rendere possibili le soluzioni più improbabili senza mai apparire come un miracolo balistico ma come qualcosa in assoluto controllo. Ha reso apparentemente facile uno sport estremamente complesso. Federer è una Treccani vivente, in campo i suoi gesti fanno rivivere il meglio di 500 anni di tennis, una enciclopedia dell’arte della racchetta portata ai giorni nostri. E’ un Lewis Hoad del 2000, scaturito dalla simbiosi tra la classe a tutto campo di Sampras, l’anticipo su colpi piatti di Agassi, la consistenza di un Borg e l’eleganza di un Edberg. Scacco Matto. E’ l’evoluzione massima della tecnica classica reinterpretata a velocità del futuro. Il suo fisico naturalmente forte, esplosivo e resistente è stato la base indispensabile per consentirgli di arrivare ad un livello di gioco così elevato. Elastico, efficiente, raffinato, mai scomposto. Regale.
In questa sinfonia di tecnica, ogni parte del suo gioco è stata importante e decisiva nel fare la differenza. Tuttavia il diritto resta il miglior colpo, quello con cui muove di più lo scambio e trova il vincente. Per anni è stato paragonato a quello di Sampras, ma in realtà le due meccaniche esecutive sono diverse. Pete ci metteva dinamite, Roger velocità. L’apertura del dritto dello svizzero è velocissima, con il gomito che non si stacca molto dal busto, e la racchetta che resta per una frazione di secondo quasi perpendicolare al terreno, per poi scendere verso il basso e scattare in avanti. Il braccio nell’avventarsi sulla palla si distende quasi interamente, con l’impatto che avviene ben davanti al corpo, sfruttando quindi la massima leva e velocità di rotazione. Il polso arricchisce il gesto di quel tanto che basta, piccole correzioni a dare imprevedibilità. La racchetta quindi termina la sua corsa laterale dietro, spesso più bassa della spalla sinistra, mentre tutto il lato destro del corpo asseconda con perfetta sincronia una rotazione mai eccessiva. Curioso notare come la sua testa resti immobile, sezionando con gli occhi l’impatto, alla ricerca della massima concentrazione e aiutando in modo decisivo l’equilibrio. Quando Roger cerca la spinta tende a saltare, per darsi più slancio e trovare il corretto angolo incidente; misterioso come non perda mai l’equilibrio. La palla esce magicamente dalle sue corde, flirtando con le righe in traiettorie maligne, difficili da leggere per la velocità del gesto e perché eseguite con un anticipo superiore a quello di Agassi. Fatto questo che rasenta il diabolico, poiché accelerare (spesso di controbalzo) spingendo sopra a palle cariche di spin e riuscire a trovare gli angoli, profondità e precisione di Federer è qualcosa di straordinario. Il diritto di Roger non è un colpo di potenza, ma è giocato con così tanto anticipo, sfruttando tutta l’inerzia della palla incidente e generando angoli così vari ed acuti da tagliare letteralmente le gambe ai rivali.
Tutto il suo tennis è sontuoso per fluidità e coordinazione, anche dal lato sinistro, che ha migliorato negli anni soprattutto nella posizione delle gambe e nella ricerca del punto ideale per l’impatto. Resta il suo punto debole, soprattutto su palle molto cariche di effetto, situazione che ha pagato duramente contro Nadal. A rete gioca tocchi eleganti e chiusure ficcanti, ma non tutti i giorni ha la stessa sicurezza, così come nello smash, ma più per difetto di posizione ed attenzione che di esecuzione. Scorie di lacune giovanili. Il suo rapporto con la rete è conflittuale. Spiegherà Federer che la scelta di allontanarsi dalla rete (nei primi anni l’attaccava più spesso) è in parte forzata dal cambiamento radicale che dal 2002 ha imposto condizioni di gioco sempre più lente e palle molto dure e pesanti, complicate da toccare di fino o chiudere in sicurezza. Non che Roger non vada a rete, ma da un tennista così classico ci si aspetterebbe discese più frequenti. La battuta è un altro dei suoi colpi che svettano per coordinazione ed eleganza. Qua sì che assomiglia a Sampras, non tanto per il movimento in se stesso quanto per la naturale accelerazione di tutto il corpo verso la palla. Non uno strappo violento, ma una progressione continua di ogni suo muscolo verso l’impatto, secco e preciso. Questa in estrema sintesi è il racconto della divina tecnica di Roger, qualità che gli hanno permesso di dominare.
Difetti? Pochi, relativi al lato mentale della prestazione. Anche nei momenti più alti e vincenti della sua carriera è stato preda di cali di concentrazione, a volte per pura distrazione, altri per la presenza incombente del suo ego, grande quanto il suo talento. Ma la lacuna più grave è la scarsa lucidità tattica, che gli è costata sconfitte dolorose. Su tutte le finali contro Nadal, match in cui non è riuscito ad uscire mentalmente dalla rissa agonistica imposta dal rivale e dal martellamento in topspin sul rovescio. Un classico dei talenti puri: la convinzione di voler pensare solo al proprio gioco, senza l’umiltà di scendere a qualche compromesso ed accettare che a volte non è redditizio pennellare giocate d’autore, ma che è necessario leggere lucidamente le contromosse dell’avversario e rispondere sul piano tattico. Proprio per la incapacità di “scendere a patti”, Roger ha spesso sofferto i match duri con finale punto su punto, dove è necessario produrre colpi meno rischiosi cercando di massimizzare il risultato. In condizioni delicate di punteggio anche in lui sale la tensione, e questo lo porta naturalmente ad irrigidirsi; situazione pericolosa per il suo tennis, perché senza la massima scioltezza e serenità diventa più arduo anche per il suo braccio fatato generare quelle traiettorie così perfette, complesse e difficilissime. Alla fine, è umano anche lui.
L’epopea di Federer sul circuito e le sue vittorie hanno rappresentato una manna dal cielo per tutti gli amanti del tennis, ma ancor più per quelli legati ai “gesti bianchi”, ancorati a radici secolari di armonie e leggerezze e quindi fermi oppositori della violenza applicata all’arte della racchetta da cyberatleti “arroto-maniaci”. Così che oggi, proprio nel giorno in cui compie 33 anni, lo spettro del suo prossimo ritiro atterrisce i suoi milioni di tifosi, devastati della prospettiva di perdere non solo il proprio idolo ma uno stile di gioco. E’ la vita. Tutto scorre, tutto passa. Meglio vedere l’altra faccia della medaglia, ossia abbandonare una legittima nostalgia e ritenersi fortunati di aver potuto vivere le gesta di un tennista così bello da esser quasi irreale, quasi perfetto. La perfezione non esiste, non è cosa per noi umani. Ma su di un campo da tennis se mai qualcuno ci è andato davvero vicino, questo è stato Roger Federer. Auguri campione, e grazie.
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