di Luca Brancher
Nel tennis attuale vige una grossa contraddizione: sebbene si vada ripetendo, con insistenza tutt’altro che velata, che i tempi dei baby-campioni sono terminati, che per emergere l’asticella anagrafica è stata fatta lievitare di qualche anno, che ormai è più facile raggiungere il proprio apice dopo i 30 anni, si tende a non concedere il tempo necessario alle giovani leve che si affacciano sul circuito, sottolineandone le debacle, brandendo l’arma a doppio taglio del confronto d’età, viatico che spesso e volentieri porta alla prematura dichiarazione di decesso tennistico. Questa però è anche la loro fortuna, lontani dai riflettori, senza che ormai le ingombranti attese siano fardello sulle loro spalle sempre più larghe, i giovincelli, non più in realtà tali, possono tirare un sospiro di sollievo e provare a coronare il proprio sogno. Non sempre ce la fanno, ma capita che traggano dal loro cilindro improvvisamente colmo di strumenti interessanti soluzioni.
Luke Saville è nato il primo giorno di febbraio del 1994. Poco più che un bambino, per il tennis attuale, dove risulta più giovane del giocatore più giovane inserito nella top-100 mondiale redatta dall’ATP, ma non per gli appassionati malati di novità, che lo avevano etichettato come milionesimo iscritto alla lista delle promesse non mantenute. In particolare in patria, dove Saville si era visto nel giro di diciotto mesi portato in trionfo e poi gettato nelle polvere, per lasciar spazio a due talenti che, loro sì, avrebbero finalmente portato il tennis aussie agli antichi fasti e splendori, Kokkinakis e Kyrgios, in rigoroso ordine ante-cronologico. Nel luglio del 2011 Luke, tennista mancino dal buonissimo talento e dalla predilezione per i campi veloci, si laureava campione junior nel teatro di Wimbledon, superando il coetaneo Liam Broady in un match di rimonta che lo vedeva uscire vincitore grazie a giocate che ne mettevano in risalto il variegato talento: palle corte, discese a rete in controtempo, solida battuta, contropiedi spiazzanti. “Lui sì che sa fare magie con la pallina da tennis, Federer ha un erede, finalmente” erano commenti usuali, nelle chat del tempo. Non fossimo difficili agli entusiasmi effimeri, ci saremmo rimasti secchi anche noi. Perché il ragazzo, a tennis, ci sapeva giocare. Anzi, ci sa giocare.
Pochi giorni dopo il successo londinese, che gli garantì il primo bagno di celebrità al di fuori del circolo australiano, Luke disputò le qualificazioni di un future, sempre in terra d’Albione, sempre sull’amata erba, dove, al secondo turno, dovette affrontare Mate Pavic, che, non fosse stata per una distrazione sul finire del secondo set nel match contro il nipponico Uchida, sarebbe stato il suo avversario nella semifinale dei Championships. Il risultato, piuttosto netto a favore del croato, fu un’avvisaglia importante di come l’ingresso nel mondo dei pro non sarebbe stato così agevole, non fossero bastati i tre giochi raccolti nei due incontri di qualificazioni persi nell’edizione del 2010 e del 2011 degli Australian Open, contro i transalpini Sidorenko e Mahut.
D’altronde, quando da junior divieni pro il gap d’esperienza e di fisico va affrontato con la giusta combinazione di sacrificio, calma ed umiltà, che in fondo sono tutte belle parole, ma difficili da concretizzare, se nel 2012, l’anno che avrebbe dovuto fungere da spartiacque e decretare l’inizio della tua scalata all’Olimpo del tennis, non solo stenti, ma vieni sconfitto da entrambi i ragazzi in questione, quelli che, all’anagrafe, fanno registrare uno (Kyrgios) e due (Kokkinakis) anni meno di te. Arriveranno anche i primi due successi future, si sancirà anche l’accesso nei top-400, ma questi risultati sono più frutto di tornei senza grandi nomi, come si constaterà alla conclusione della stagione: le vittorie contro atleti top-500 furono appena tre. Il 2013 è scorso lungo i medesimi binari, quelli della mediocrità, quelli che non dovrebbero appartenere a chi, dodici mesi prima, si era aggiudicato il secondo titolo Slam Junior, agli Australian Open, contro Filip Peliwo, lo stesso che a Wimbledon, qualche mese più tardi, gli avrebbe levato la gioia della storica doppietta. Quando, ad inizio marzo Nick Kyrgios coglieva un successo ricco di belle premesse a Sydney, Luke, nello stesso frangente, perdeva al primo turno dal neozelandese di chiamata Artem Sitak; e ad ottobre, mentre a Sacramento lo stesso Kyrgios, con Kokkinakis, dava vita ad un incontro per palati fini, Saville si leccava le ferite per una sconfitta in un future australiano dai contorni rocamboleschi contro Jordan Thompson, coetaneo e connazionale. Altro prospect sulla corsia di sorpasso?
Il problema è proprio questo: per emergere bisogna usare le proprie qualità. Meglio le sai usare, prima esci dal momento buio. Tutto molto semplice, a parole, altresì difficile nei fatti. Come fronteggiare un match point, e Luke lo sa bene. A Roheampton, nel corso del quarto set del turno decisivo di qualificazione – che si gioca al meglio delle cinque frazioni, altro piccolo vezzo che rende i Championships un qualcosa di diverso, un qualcosa di speciale – l’australiano, che dal 2010 al 2014 aveva collezionato un bel 0 su 5 tra main draw e qualies Slam, era ad un passo dal baratro contro l’elvetico che non ti aspetti, Yann Marti. Superata la difficoltà e trascinato l’incontro al parziale finale, Saville risaliva per due volte dal break di svantaggio, prima di chiudere al diciottesimo gioco. Ed assieme a Groth e Duckwort portare tre australiani nel tabellone principale di Wimbledon, per la prima volta dal 1997.
“Ad inizio anno ho giocato e vinto tre futures a casa, e lì la mia stagione è girata, dopo le delusioni del 2013. Uno di questi era sull’erba, una superficie che adoro e su cui mi trovo particolarmente a mio agio.” Erano le sensazioni al termine del tabellone satellite del terzo Slam stagionale, che dovrebbero essere state esasperate dopo il non pronosticato successo di primo turno contro Dominic Thiem, che per antonomasia è il giovane che le promesse le sta mantenendo, sebbene all’anagrafe risulti più vecchio di Saville di ben 5 mesi. Ed ora sotto con Grigor Dimitrov, piuttosto noto nell’entourage dell’australiano, visto che il coach Roger Rasheed è di lì: non serve questo per rintracciare motivazioni, una nuova buona prestazione definirebbe l’idea che il tempo, apparentemente perduto era solo una dovuta concessione all’entrata nel mondo dei grandi. Barmera, la sua città natale, potrà entrare nella geografica del tennis, come lui potrebbe entrare nella top-200 del ranking mondiale. E per una volta, cari Nick e Thanasi, i riflettori spettano a lui.
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