di Salvatore Greco (Foto Ray Giubilo)
Il tennis russo questa settimana avrebbe potuto gloriarsi di un risultato di cui andare, tutto sommato, orgogliosi. È successo altro a trascinare altrove l’attenzione, altro che non merita nemmeno di essere qui citato perché di spazio ne ha avuto fin troppo fino a diventare davvero poco interessante.
Mentre il mondo del tennis, russo e non, dibatteva di medicina, etica e altre questioni di cui meno si conosce e più si chiacchiera, Andrej Rublëv da Mosca somatizzava il suo più grande risultato in carriera, il suo primo titolo challenger conquistato in quel delizioso centro bretone noto come Quimper. Per questa generazione fatta dai Borna Coric, dagli Alexander Zverev, dai Taylor Fritz ma anche dai Tommy Paul e dai Noah Rubin sembra che ogni occasione mancata possa trasformarsi in un treno perso, ogni giorno che passa senza consacrazione uno scarto inesorabile nei confronti di una nidiata promettente come poche. In quest’ottica il primo challenger di Rublëv, che arriva dopo l’ingresso in top-100 del più giovane di lui di soli otto giorni Fritz, per qualcuno è il suono di un peccato.
Il talento di Rublëv non è una novità, lo si nota per il circuito ormai da un anno e mezzo, da quando esordì tra i grandi al 250 di Mosca del 2014 patendo ma senza sfigurare contro Sam Groth. Sensazioni confermate via via, con la chicca di mezzo della vittoria folle e sofferta contro Verdasco a Barcellona lo scorso anno.
Colpi potenti, precisi, tecnicamente ben eseguiti accompagnati da una tenuta mentale discontinua ma che nei momenti di apice non conosce sbavature, il repertorio di Rublëv è “semplicemente” tutto qui. A chi gli rimprovera gli eccessi di un carattere decisamente poco domo o il fisico dall’aria gracile di chi sembra potenzialmente in balia del vento, il giovane russo è in grado di rispondere con colpi di potenza missilistica giocati senza colpo ferire. L’unica, abnorme, domanda che lascia per ora senza risposta osservatori e tifosi è: “ma se li giocasse tutti così?”. La risposta ovviamente non è nelle corde di nessuno a oggi, troppo giovane il ragazzo, troppo ondivaghe finora le sue comparsate sul circuito per poter capire quali e quanto incidenti saranno gli sviluppi del suo gioco.
Per il momento il giovane Andrej porta a casa un titolo importante conquistato lottando contro avversari ostici come il mai banale Albano Olivetti, superato al primo turno 6-4 7-6 prima di affrontare in un curioso derby di promesse russe il classe ’96 Karen Khachanov superato 7-6 7-5 e poi lo slovacco Lukas Lacko piegato ai quarti di finale in tre set. Una prova del nove per la settimana di Rublëv sarebbe potuta arrivare già in semifinale dove ad attenderlo c’era un giocatore alquanto a suo agio sulle superfici veloci come Sergij Stakhovskij fermato però da uno strappo alla schiena subito in pieno riscaldamento. La finale contro Paul-Henry Mathieu, Rublëv l’ha conquistata in rimonta dopo un primo set perso al tie-break confermando un mood di tutta la settimana che l’ha visto arrivare spesso al tie-break e vincere i match in rimonta, entrambi elementi plausibili in un torneo dalle condizioni indoor dove strappare il servizio non è mai banale ma entrambi elementi da tenere sotto controllo per il futuro.
La vittoria in un challenger, seppur competitivo come quello di Quimper, non dev’essere il tempo per fermarsi in baccanali e trionfalismi, ma deve dare il la a un percorso coerente dove i risultati non arrivino inaspettati ma come frutto di programmazione e sviluppo. Non è certamente vero quanto abbiamo riportato a inizio articolo, non è vero che il treno è già passato, ma per restare aggrappato alla scia di settimane come questa di Quimper ne serviranno in successione al giovane Rublëv per prendersi il posto che merita.
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