Due visioni simili, due impressioni opposte. Agli occhi dei tifosi, Roger Federer rinforza un concetto rigido, passato quasi come verità assoluta: il talento o ce l’hai o non ce l’hai. Una visione del talento esaltata e insieme accecata dalla bellezza del gesto, che nasconde, oscura, obnubila in chi guarda il lavoro che c’è dietro per rendere semplice la complessità. Il 7 maggio 2002 gli spettatori che riempiono il Foro Italico, però, parteggiano per un altro modello, per chi ha lasciato un tendine alla patria e dimostrato che il talento si può coltivare e migliorare, che il talento è sfida, superamento dei limiti, sviluppo e apprendimento. Quel 7 maggio 2002, Roma fa il tifo per Andrea Gaudenzi.
La passione del Foro la conosce bene, a Roma ha già giocato due quarti di finale. La fortuna l’ha aiutato nel 1994, l’amico Thomas Muster, unica testa di serie che ha sconfitto nel torneo, si è ritirato dopo cinque game: finirà con una sconfitta dignitosa, e qualche rimpianto per le due palle break mancate nel secondo set, contro Pete Sampras. Nel 1996 c’è solo la tenacia e la qualità del tennista vero, artefice della propria fortuna, che vince anche quando gioca male. In un match serale, supera con fin troppa fatica 64 36 64 Michael Stich, che sta rientrando da un infortunio al piede sofferto a febbraio al torneo di Milano, e si fa anche rimontare due break di vantaggio nel terzo set. Agli ottavi ritrova Thomas Enqvist, il suo avversario in finale nel giorno del trionfo al Roland Garros junior del 1990. Sotto il vento che frusta il Centrale, Gaudenzi si arma di pazienza, scambia sul dritto dello svedese, che scivola e sbaglia con frequenza eccessiva: 6-2. “L’entusiasmo del pubblico, guidato da un Alberto Tomba in formato supertifoso, si spegneva nell’unico momento di lucidità di Enqvist, salito a 4-1 con un break di vantaggio” scrive Roberto Lombardi sul Corriere della Sera. Ma regala il controbreak con 4 errori di fila e, al tiebreak, con un fallo di invasione spinge il faentino avanti 6-2. Gaudenzi si fa raggiungere e superare, ma ancora una volta Enqvist non chiude e lo aiuta a centrare il quarto contro un Albert Costa che si rivelerà semplicemente incontrastabile.
Federer arriva alla sfida con Gaudenzi da numero 11 del mondo. Ha già battuto Pete Sampras a Wimbledon, è già l’erede predestinato del re dei Championships, e a Mosca pochi mesi prima ha dato tre set a zero e Kafelnikov e Safin e trascinato perfino i tifosi russi in un’ovazione tutta per lui. Ma non ama particolarmente Roma e non la amerà troppo nemmeno dopo, nonostante le finali con Mantilla e Nadal, anche se il Foro coincide in quegli anni con le svolte decisive della sua carriera. Ha già perso al primo turno agli Internazionali una volta, nel 2000 da Medvedev, che pochi mesi prima si era trovato avanti di due set in finale al Roland Garros su Agassi, subito dopo aver scelto di farsi seguire da Peter Carter e Peter Lundgren e lasciare l’egida della federazione svizzera. L’anno successivo batte al primo turno, 7-5 al tiebreak del terzo, Thomas Johansson, e al secondo con lo stesso punteggio Marat Safin. “Alla fine del secondo set, mostrarono nel maxischermo dello stadio le nostre intemperanze” racconta a Marco Keller e Simon Graf per il libro Gli anni della gloria, “mentre lo guardavo mi sono davvero vergognato e mi sono detto: non si può andare avanti in questo modo”. Ha scelto il primo turno degli Internazionali 2002 per un altro cambiamento che si rivelerà fondamentale. È la prima partita che gioca con la nuova racchetta, la Wilson 6.0, con uno sweet spot più largo, per ridurre gli errori e le stecche.
L’adattamento, tuttavia, non è immediato. Federer non è quello ingiocabile di Mosca, Gaudenzi è tornato il giocatore capace di vincere due Slam junior, di restare top-20 per 32 settimane nel 1995, si guidare l’Italia alla finale di Davis di Milano di quattro anni prima. Ha giocato con una contrattura alla coscia destra, che però non l’ha limitato. “Non mi ha dato fastidio, sarei più preoccupato non avessi niente” dirà, “oggi tutto andava bene, il campo rapido, e la possibilità di giocare più avanti, di accorciare gli scambi, di penetrare con il diritto. Ha perso solo 11 punti al servizio, 5 con la prima e 6 con la seconda, ha chiuso con 6 vincenti in meno (20 a 26) ma soprattutto con meno della metà dei gratuiti (10 contro 21). Ha lasciato a Federer una sola, piccola, occasione, una palla break non sfruttata per salire 2-1 nel primo set. “Roger non ha giocato il miglior tennis ma le partite bisogna vincerle: io sono stato capace di rimanere concentrato fino in fondo. Su un campo così veloce mi trovo meglio perché le rotazioni sono più efficaci” spiega. Il 64 64 finale è figlio di una partita solida, di una superiore sagacia tattica, di una mobilità laterale, soprattutto verso destra, decisamente migliorata, e della concretezza nel venire a rete a concludere gli scambi. Non è l’unica gioia che lo svizzero regala al pubblico italiano, chiedere per credere a chi c’era nel 2007, quando Volandri trionfava sul numero 1 del mondo mentre la Roma a pochi metri di distanza piazza il game, set and match contro l’Inter in finale di Coppa Italia.
Cade la pioggia al secondo turno, e insieme alle teste di serie cade anche Gaudenzi, battuto da James Blake che aveva sconfitto sul duro a Scottsdale. Piove anche a Parigi, qualche settimana dopo. Gaudenzi affronta Pete Sampras, al suo ultimo prezioso tentativo di stupire e conquistare il Career Grand Slam come Andre Agassi, al Roland Garros. La terra rossa è fradicia, la partita inizia alle 15 e finisce oltre le 21. Gaudenzi è di nuovo quello dei tempi migliori, subisce per tutto il primo set il serve-and-volley di Pistol Pete, ma nel secondo si fa audace e prende campo quel tanto che basta a rendere meno agevole il gioco d’attacco dell’ex numero uno. La prima interruzione, sul 5-4 nel secondo set, restituisce un Gaudenzi rinato, leggero nel vestito migliore, che prende addirittura la rete e comanda. L’orgoglio del campione riemerge, ferito, dopo un terzo set umiliante, ma sul 5-3 Sampras la pioggia accarezza ancora il destino di Gaudenzi e trascina l’americano in un vortice di stanchezza e delusione. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai, dicono. E la domanda, in quei giorni, con Gaudenzi viene spontanea: ma il talento, allora, che cos’è?
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