di Marco Mazzoni
E’ proprio vero che i tennisti sono dei privilegiati. Mentre nel Belpaese l’inverno non pare volerne sapere di lasciar spazio all’agognata primavera, la tv continua a “torturare” l’appassionato di tennis emettendo match più o meno interessanti, ma tutti accomunati dalla visione dei nostri eroi della racchetta ripresi sotto un bel solicino, immersi in paesaggi da sogno. Soprattutto in questa leg della stagione, che dopo la “NY degli Emiri” a Dubai sposta tutto il tour per un mese intero negli States, prima ad Indian Wells e subito dopo a Miami. Due tornei sul “duro” americano, che nel calendario stagionale sono un po’ come il cavolo a merenda, visto che una più razionale riorganizzazione della stagione tennistica vorrebbe forse un paio di eventi di quelle dimensioni sul rosso Latinoamericano, visto l’alto tasso di passione e tradizione di quelle terre… Ma si sa che il mondo del tennis è da sempre Usa-centrico, e questi due tornei relativamente recenti (nati rispettivamente nel 1987 e 1985) hanno acquistato da subito uno status Top, grazie a tanti dollari e campioni immortali che hanno via via popolato gli albi d’oro, quelli sì degni di uno Slam. Due tornei gemelli, visto che si disputano da sempre molto ravvicinati, e da qualche stagione proprio uno dietro all’altro, monopolizzando l’attenzione del grande tennis per un mese intero negli Usa, e favorendo compatibilità tecniche ed agonistiche. Non a caso più volte a Miami si è assistito alla stessa finale di Indian Wells, o comunque i protagonisti sono stati i medesimi. Due occasioni su tutte: 1990 – Edberg vince su Agassi a Indian Wells, con il Kids di Las Vegas che si vendica a Key Biscayne, due match tecnicamente eccelsi; 1995 – Sampras batte 7-5 al terzo Agassi nel deserto californiano, con Andre che la spunta su Pete al tiebreak decisivo a Miami. Agassi è il vero “Sindaco” di Key Biscayne, con ben 6 titoli (record assoluto), Pete lo segue a 3 successi, come Djokovic (in attesa dell’edizione 2013). Tantissime bandiere a stelle e strisce nell’albo d’oro, segno di come il Master 1000 della Florida sia sempre stato molto sentito dai giocatori di casa, per svariati motivi, non ultimo quello economico, fondamentale alla sua nascita. Infatti fin dalla sua genesi i dollari sono stati il fattore determinante al concept stesso dell’evento, insieme all’enorme battage promozionale ideato dal suo mentore Butch Buchholz, che lo progettò nei primi ’80s come grande investimento insieme alla multinazionale Lipton, notissima casa produttrice di bibite. Buchholz, allora a capo dell’Associazione giocatori, incontrò il guru della Lipton proponendo loro la creazione di un “Wimbledon invernale”. Un evento di 2 settimane, importante e bello come uno Slam, da svolgersi come primo grandissimo torneo dell’anno visto che allora (e fino al 1985) gli Australian Open si svolgevano a fine dicembre; data mal digerita dai top players (soprattutto americani), che difficilmente si imbarcavano per down under dopo una lunga stagione, preferendo il riposo o le ricche esibizioni dell’epoca. L’accordo fu trovato sulla base di 1,5 milioni di dollari per 5 anni, con il nome dell’evento che sarebbe stato proprio il noto brand. Non disponendo ancora di una struttura a Miami, il torneo si sarebbe svolto presso la Laver’s International Tennis Resort di Delray Beach, 50 miglia a nord della metropoli. L’intento di portare un po’ di Wimbledon nell’alto Caribe fu rispettato, coinvolgendo anche lo storico chairman dei Championships Alan Mills e il suo designer Ted Tinling. Con un montepremi faraonico, arricchito da una fetta dei diritti tv e commerciali appannaggio dei giocatori, tutti i migliori fin da subito hanno frequentato il torneo. E’ stato proprio l’ottimo riscontro del campo a vincere lo scetticismo generale che aleggiava, anche da parte degli stessi addetti ai lavori che non videro di buon occhio questa sorta di “quinto Slam”; una provocazione quella di inaugurare un torneo della durata di due settimane, con 128 giocatori (e giocatrici) in tabellone, sorto letteralmente dal nulla per una operazione più commerciale che sportiva, sfidando di fatto gli Slam. Senza una storia. Senza uno stadio. Aveva ragione Buchholz. Nessuno ha potuto fermare l’ascesa del Lipton, che già della prima edizione fece “il botto”, soprattutto grazie ad una spettacolare finale femminile tra le star Martina Navratilova e Chris Evert (una delle loro sfide più belle di sempre), che vide il sold out sugli spalti e record di ascolti per la CBS, facendo capire a tutti che era di fatto nato il quinto torneo stagionale per importanza. Per mantenere le straordinarie sensazioni positive della prima edizione c’era la necessità di crescere. Subito. Nel 1986 ci si spostò a Boca Raton, fino ad arrivare nel 1989 nell’attuale location, anche se con strutture inizialmente provvisorie. La leggenda vuole che per la scelta definitiva della sede fu amore a prima vista. Il direttore del torneo fu portato in tour in vari siti di Miami, alla ricerca di quello migliore per edificare un complesso imponente; quando varcò la Rickenbacker Causeway che collega la metropoli alle isole Keys, piccoli paradisi tropicali di fronte allo Skyline cittadino, restò così impressionato dalla bellezza dell’area da comprare l’intero lotto (!) e progettare la nascita del Tennis Center di Crandon Park, a Key Biscayne. Buchholz raccontò in una intervista: “Mi sembrò di entrare in una cartolina, l’area era bella, grande, e già con alcune facilities che ci avrebbero aiutato nel metter su il complesso rapidamente. Pensai, è quello che stiamo cercando! Qua creeremo non solo un torneo, ma un luogo da favola che resterà negli anni e sarà il centro del nuovo tennis Usa”. 2 anni per avere i permessi e il budget, e poi con la solita efficienza yankee nel costruire (un vero Extreme Makeover!) s’iniziarono i lavori, ritardati di un anno per via del tremendo uragano Andrew che nel ’92 devastò pesantemente i Caraibi e la Florida. Una terra splendida, non a caso meta prediletta di vacanzieri da tutto il mondo e scelta come residenza di lusso da tutti i “latinos” arricchiti che lasciano Mexico, Colombia, Venezuela e via dicendo per trasferirsi nello stato americano dove ormai lo spagnolo ha soppiantato l’inglese come lingua. Un vero paradiso in terra, con un clima eccezionale e una natura straordinaria, che ti stordisce per profumi, colori e sapori, e colpisce anche chi si reca al torneo. Arrivati a Crendon Park si resta ammaliati dalla bellezza della vegetazione in cui l’impianto è immerso, con piante tropicali rigogliose a due passi dai campi da gioco, mosse della brezza del mare, indispensabile per resistere alla calura (occhio che il sole picchia in modo pazzesco!) e anche a scacciare nugoli di insetti che lussureggiano nel caldo umido delle isole, …non letali come i coccodrilli che si aggirano nelle zone esterne paludose, ma altamente fastidiosi. L’unico neo se volete recarvi al torneo il parcheggio delle auto: carissimo (30$!), molto meglio usare qualche navetta convenzionata dagli hotel di Miami. Molte agenzie organizzano eccellenti pacchetti di viaggio, che oltre ai biglietti per il tennis portano i turisti a scoprire le spiagge e le bellezze delle Keys, compresa una vista spettacolare di Miami dal mare che da sola vale il prezzo del biglietto.
Tornando al torneo, il primissimo match giocato nel nuovo impianto si disputò l’11 marzo 1994, un match rosa tra lo “scioglilingua” Karin Kschwendt e Kathy Rinaldi. Diversi sono i record e curiosità dell’attuale Sony Open. Con oltre 300 mila spettatori, è l’evento che richiama più pubblico dopo i 4 Slam, ed è quello che propone negli stand la proposta culinaria più ricca e varia. Abbinata al torneo da qualche anno si svolge anche la serata in cui vengono assegnati dei primi stagionali, in un party esclusivo per i giocatori e Vip. Non tutti ricordano che nel 2006 proprio a Miami venne introdotto l’instant replay per verificare in diretta l’esito di una chiamata di gioco. Fu Jamea Jackson a chiamarlo contro Ashley Harkleroad. Un torneo nemmeno fortunatissimo, visto che quest’anno soffre l’assenza contemporanea di Federer e Nadal, ma che addirittura ha visto 3 finali funestate o non giocate. La prima nel 1989, quando uno sfortunatissimo Thomas Muster fu investito nel parcheggio da un ubriaco al volante, che gli spezzò una gamba mettendone a rischio la carriera (poi l’austriaco di ferro rientrò riuscendo a vincere il torneo 8 anni dopo); nel 1996 Goran Ivanisevic si ritirò dopo pochi games per un violento attacco di torcicollo, e nel 2004 l’argentino Coria gettò la spugna per forti dolori alla schiena, dovuti a calcoli renali.
Oltre al torneo, nel grande e funzionale impianto fu portato buona parte del programma di sviluppo dei giocatori di alto rendimento della USTA, diventandone il centro nevralgico. Del resto il tennis in Florida è proprio a casa. Grazie al clima incredibile che bacia lo stato tutto l’anno, qua sono nate come funghi decine di accademie, iniziando un inarrestabile pellegrinaggio tennistico da tutto il mondo da parte di giovani speranze che vedono in queste strutture una sorta di porta per il Paradiso sportivo. Un trampolino verso il successo, seguendo gli esempi di Arias e Krickstein prima, Agassi, Courier, Chang e Sharapova poi, tutti usciti dalla struttura del guru Nick Bollettieri, tanto per citare solo la punta dell’iceberg. Vallo a spigare poi ai piccoli talenti che questa sorta di Mecca è un po’ diversa da un luogo da sogno dove tutto è facile e magico… Non un hotel deluxe in riva ad una spiaggia bianca ad aspettarli, semmai una sorta di caserma non meno rigida di quella immortalata da Full Metal Jacket, con ritmi di vita-studio-allenamento impossibili, a far selezione naturale tra i più deboli, e ingrassare i conti in banca di procacciatori di talenti più o meno spregiudicati che promettono sicuri successi in cambio di un sogno pagato a suon di “verdoni”. Contraddizioni proprie anche di Miami, una porta verso il sogno americano per i vari popoli caraibici, punto d’incontro tra etnie che spesso mal si sopportano. Qua non solo arrivarono i barconi di disperati in fuga dalla dittatura di Cuba, e migliaia di immigrati latini, russi, perfino finlandesi e vietnamiti, ma anche tantissimi ricconi WASP (White Anglo-Saxon Protestant) che scelgono proprio il clima eccellente della Florida per vivere in santa pace gli ultimi anni della loro vita; un’altra “Sala d’attesa di Dio” come Indian Wells, ma con attorno una città tra le più vive e dinamiche d’America. Ancor più nel periodo in cui si svolge il Sony Open, perché coincide con il classico Spring Break primaverile, il periodo di pausa scolastica tra primo e secondo semestre che porta a Miami una marea di teenager che si lasciano andare in festini ad alto grado alcolico ed eccessi di ogni tipo, immortalati in tanti film (ed episodi di cronaca); includendo anche il Winter Music Conference, il più importante evento musicale del mondo per la musica commerciale, con feste in ogni angolo della città e gare tra i più famosi DJ del mondo, comprese nottate in spiaggia ai ritmi serrati della techno music più cool.
I divertimenti in città non mancano proprio, anche per chi cerca un turismo più “classico” da abbinare al torneo di tennis. Miami è il porto principale negli Usa per le splendide crociere che solcano i Caraibi, ospita spiagge spettacolari con acque cristalline, gite avventurose nelle Everglades (paludi con una natura selvaggia, da scoprire a bordo di caratteristiche barche velocissime), il complesso Seacquarium, la opulenta Villa Vizcaya costruita da James Deering nel ‘900 e che riprende Villa Rezzonico di Bassano del Grappa, che insieme all’intero quartiere Art Decò può soddisfare la voglia degli amanti dell’arte. Pure delizie della tavola, con una scelta infinita di cucine viste che tutte le etnie sono più che rappresentate. Fino alla colorata, chiassosa e divertente Ocean Drive, ricca di ristoranti e locali di ogni genere, icona degli eccessi cittadini visto che a pochi passi è facile imbattersi in molti homeless. Miami vanta il terz’ultimo tasso di povertà tra le città americane, con un terzo dei residenti che vanno avanti di stenti sotto la soglia di sussistenza. Facile quindi che i poveri siano preda del crimine, soprattutto del fiorente business della droga, visto che tra i vari latini sbarcati in Florida non mancano i temutissimi narcos. Piaga questa difficilissima da estirpare, visto l’enorme il giro di soldi (ed interessi) dietro al traffico degli stupefacenti. Come “stupefacente” fu la celeberrima battuta dell’Avvocato Agnelli a proposito di Miami e dei suoi traffici illegali: “Un giorno, un produttore di motoscafi annunciò di averne realizzato uno più veloce di quello dei contrabbandieri. Quella stessa sera fu ammazzato“. Il mitico Avvocato tirò fuori quest’aneddoto all’indomani del clamoroso omicidio dello stilista Gianni Versace, che proprio a Miami fu freddato nel ’97 davanti alla sua casa di South Beach. Il lato noir di Miami è diventato parte del suo fascino, anche grazie a tante produzioni del cinema: dal mitico Antonio “Tony” Montana di Scarface interpretato da un Al Pacino superlativo, passando per la serie tv cult Miami Vice, ideata dal grande regista Michael Mann e resa celebre dall’attore Don Johnson, che correva per le highways di Miami a bordo di una Ferrari bianca a caccia dei narcotrafficanti, con le sue le immancabili “espadrillas”; fino a CSI Miami, dove i colori vividi e le storie torbide della città sono diventate uno dei programmi più visti al mondo. Storie ed eccessi di una città assolutamente Yankee, in tutto e per tutto, come il suo grande torneo.
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